I commenti, fin qui apparsi, sull’uscita del Regno (Dis)-Unito di Gran Bretagna dalla (Dis)-Unione Europea, mi sono sembrati insoddisfacenti e manchevoli, ai fini di una completa comprensione del fenomeno. Essi, infatti, non hanno tenuto conto, a mio parere, della diversità, delle variegatezze delle cause che hanno prodotto la Brexit e che continuano a togliere il sonno non solo a Boris Johnson ma anche a Donald Trump.
Ciò che risulta non detto è che il conflitto dei due statisti anglosassoni non è (o non è solo) con l’Unione Europea (pur succube volontaria del potere finanziario e gestita non da politici ma da tecnocrati del credito). E’ soprattutto una lotta interna con la loro stessa Alta Finanza, racchiusa nei confini dei rispettivi Stati e arroccata nella City a Londra e a Wall Street nella Lower Manhattan di New York. Esprimere, quindi, giudizi su quanto è avvenuto, utilizzando soltanto parametri di valutazione di carattere internazionale e facendo, conseguentemente, considerazioni di ordine tecnico, pur documentate, vere e pregevoli, su intensità o compressione degli scambi commerciali, sui rapporti di forza produttiva, di energie, di riserve et similia esistenti tra i vari Paesi può far perdere di vista l’essenza più profonda dello scontro in atto, in Occidente.
D’altronde, il dialogo su temi sociali, su problemi di Bene pubblico e di solidarietà umana con la City e con Wall Street, come aveva bene intuito John Maynard Keynes, economista britannico tra i maggiori del secolo scorso, è quanto di più difficile si possa immaginare. Forse, aggiungeva argutamente lo studioso con humour tipicamente inglese, è addirittura più facile parlare dell’Origine della Specie di Charles Darwin con un Cardinale o un Vescovo di Santa Romana Chiesa. Keynes invocava un allargamento delle funzioni di governo degli Stati Uniti d’America non di certo per togliere spazio all’individualismo, ma per evitare il rischio che il monetarismo (come del resto anche Karl Marx aveva previsto) portasse alla distruzione completa delle altre forme economiche esistenti; e, in maniera conseguente e implicita, della libertà d’iniziativa e d’intrapresa.
In mancanza di un governo mondiale del sistema finanziario, secondo l’economista britannico, i tycoon del settore, sapendo di non poter navigare sempre con il vento in poppa, hanno, invece, bisogno di limitare gli spazi di azione politica e la sovranità degli Stati. E soprattutto di incidere pesantemente sul loro bilancio per utilizzare il denaro dei contribuenti al fine di compensare le perdite dei loro “rovesci” e degli eventuali “collassi”, conseguenti a gravi errori di teoria e di prassi.
Per capire la Brexit e la politica di Trump e di Jonhson bisogna partire dal presupposto che Inghilterra e Stati Uniti d’America, più che combattere l’Europa come entità fisica e territoriale, stanno tentando di risolvere i loro problemi interni con i potentissimi Tycoon delle Finanze, che la dominano. Padroni del sistema mass-mediatico e alleati del mondo delle armi, sono i grandi finanzieri i veri e più temibili nemici della democrazia e della libertà.
Solo abbandonando le alchimie di una visione formale e non sostanziale degli eventi politici connessi a tale scontro è possibile giungere alla conclusione che Keynes fin dai suoi tempi auspicava: la necessità di salvare il mondo intero dalla peste bubbonica del monetarismo, inducendo tutti i Paesi a riflettere su ciò che essi devono attentamente riuscire a vedere, togliendosi i paraocchi che il sistema mass-mediatico fornisce loro, anche utilizzando fake-newsdi ogni genere.
Trattandosi di un problema, prima interno e solo successivamente internazionale, v’è da aggiungere che il livello della classe politica e dirigente di cui ogni Paese può disporre assume un rilievo essenziale, fondamentale. In Italia, per limitarci all’esempio che ci tocca più da vicino, chi spiegherà alla gente che il recupero di sovranità allo Stato, invocato da Keynes per ostacolare il naufragio dell’economia, non è né “Sovranismo” contro cui si scagliano stizzosi politicanti di varia coloritura politica né “Nazionalismo”di fascistica memoria? Chi dirà queste cose in mancanza di un forza autenticamente ed empiristicamente liberale, non inserita, cioè, culturalmente nel contesto idealistico tedesco, ispiratore delle forze più illiberali del secolo breve? Chi renderà chiaro ai cittadini del Bel Paese che salvaguardare, contro una visione della vita collettiva egemonizzata dalle Banche, la libertà d’iniziativa di ogni quisque de populo è liberalismo puro e non “populismo”? Chi potrà, infine, consigliare di rileggere Keynes a un popolo che ormai, e non a torto, non riesce neppure a leggere i giornali?
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