Da almeno un quindicennio Roma è in declino economico, a causa della sua incapacità di essere luogo di attrazione e sviluppo di moderna attività ad alto valore aggiunto; in crisi funzionale, per il sostanziale fallimento dei suoi servizi urbani a partire da trasporto pubblico e gestione dei rifiuti; in progressivo degrado sociale, per il diffondersi di criminalità micro e organizzata, l’incapacità di gestire fenomeni migratori (e la tradizionale presenza rom), l’indebolimento degli aggregatori sociali territoriali; in perdurante crisi politica, testimoniata dal sostanziale fallimento delle ultime tre sindacature.
Le grandi capitali europee traggono forza e dinamismo sempre più dal sapersi collocare nel competitivo sistema delle relazioni continentali e globali e sempre meno dall’essere sede dei vertici burocratici nazionali. Roma ancora galleggia grazie alla presenza del Vaticano (headquarters della più grande organizzazione relazionale del mondo) e ad un patrimonio storico-artistico tra i maggiori del mondo.
Aggiungiamo che la tempesta COVID-19 si è abbattuta, e si sta abbattendo, su alcune delle dinamiche nevralgiche della città: dai flussi turistici alla gestione dei servizi socio-sanitari. Il rischio che dal progressivo declino si passi a un vero e proprio collasso è, purtroppo, incombente. Le prossime elezioni amministrative si collocano in questo poco confortante scenario e ne possono rappresentare un punto di svolta, in un senso o nell’altro. Se la città non riesce a trovare una leadership autorevole e riconosciuta, sia all’interno che dagli interlocutori esterni, è difficile riesca a trovare una strada per evitare il disastro. Non credo sia più il tempo di politici senza visione del futuro, professionisti senza conoscenza della città o giovani demagoghe senza né l’una né l’altra.
La candidatura annunciata di Carlo Calenda e quella per ora solo evocata di Guido Bertolaso rappresenterebbero, da questo punto di vista, un primo segnale di capacità di reazione. Forse sono caratterialmente spigolosi ma entrambi possono vantare esperienze di gestione politico-amministrativa ai massimi livelli e con più che soddisfacenti risultati; sono autorevoli e riconoscibili, sia dai cittadini sia dalle altre istituzioni ed entrambi possono vantare una sostanziale “estraneità” alle vicende politiche e amministrative locali degli ultimi anni, ma non sono affatto privi né della conoscenza dei problemi della città né delle capacità per affrontarli.
Perché, allora, queste ipotesi vengono accolte con tanta freddezza nei rispettivi schieramenti di potenziale riferimento? Forse perché per il ceto politico locale secondorepubblicano le figure “esterne” possono essere “indipendenti” o “capaci”, ma non le due cose insieme. Un indipendente deve accettare di essere guidato e un capace deve accettare di non avere velleità di indipendenza.
Chi scrive non ha un pregiudizio generale verso il ceto politico locale romano (sarebbe impossibile, avendone in qualche modo fatto parte). In un contesto “ordinario” ci sarebbero tante figure rappresentative dei due tradizionali schieramenti che potrebbero degnamente e legittimamente concorrere. Ma non credo, per le ragioni richiamate all’inizio, che ci troviamo in una situazione ordinaria. Dopo la tragicomica esperienza dell’improvvisazione al potere la città ha bisogno innanzitutto di ricostruire le condizioni minime per governarla: da una parte il ritorno a una consapevole partecipazione politica e sociale, dall’altra il riemergere di classi dirigenti degne di questo nome; e le due cose – per quanto apparentemente paradossale oggi possa sembrare- si alimentano l’una con l’altra.
Se i ceti politici locali avranno la lungimiranza di cogliere l’occasione offerta da candidature di livello potranno progressivamente tornare a svolgere ruolo di rappresentanza e funzione di guida di una città che rinasce, ma se ne avranno paura saranno destinati a essere sempre più la pallida e incerta espressione delle paure e degli egoismi di una società sfibrata.
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