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Scusi, Signor Presidente. A me non è piaciuto

Caro Direttore,

scrivo a te da vecchio compagno a compagno di nuovo impegnato in un progetto politico che mi auguro abbia buona lena, al quale la mia età (quest’anno compirò 86 anni) non lascia spazio per una partecipazione significativa.  Lo faccio non per commentare, bensì per ragionare sul discorso del presidente Mattarella a conclusione del suo mandato presidenziale. 

    Lo faccio senza infingimenti, senza dovermi scusare con alcuno essendo quel discorso un atto pubblico, sul quale   era scontato e doveroso, per ogni cittadino italiano, riflettere.  Un po’ come un credente che, finita la messa,  si sofferma a valutare la portata dei passi del Vangelo appena letti dall’officiante.

   Dico subito quello che penso, dopo averci girato attorno  tutta la notte. Si sa, noi vecchi soffriamo d’insonnia e ci arrovelliamo attorno a qualcosa, ma è un bene  perché serve a tenere sveglio il cervello.

  Ecco la sintesi dei miei pensieri: lo valuto come il discorso di un disertore difronte al  momento storico che l’Italia, la nostra Patria (concetto desueto per noi socialisti vissuti nell’ideale dell’Internazionale)  sta attraversando.

   La pandemia da Covid che ha ripreso ad infuriare, l’intero sistema Italia che solo un tenace disincantato romano come Mario Draghi (mi viene in mente l’antica figura di Coriolano) sta lavorando per rimettere in carreggiata. Per dirla con il linguaggio di  chi ha vissuto nell’infanzia gli anni del conflitto mondiale, la guerra continua.

    Nel 1943, nel disastro combinato dal fascismo, il maggior corresponsabile del dramma nazionale, re Pippetto (detto anche Vittorio Emanuele III), come si  direbbe nella lingua del Belli,  fece la bella, che tradotto in italiano ricorda la fuga a Brindisi lasciando gli italiani sotto le bombe e la Patria in braghe di tela.

    Il discorso di Mattarella ha risvegliato i mei incubi e indotto, mutatis mutandsi, a considerare l’attuale tragico e difficile momento italiano.  Nessuno si offenda e chiedo scusa dell’ardire al Presidente uscente. Per il contenuto, il voto non va oltre il 2, per il garbo dell’ enunciazione merita qualcosa in più, ma non oltre il 4. La media (sottolineo che è un valutazione del tutto personale) fa 3. In effetti, quel recitare in piedi, con alle spalle la vetrata che da sui giardini del Quirinale,  ha dato l’impressione dell’impazienza ad andarsene di un uomo che non ne può più,  che non vede l’ora di uscire di scena, che ha pronta  la valigia dietro la porta.

    Perché questi pensieri amari verso una persona che si è comportato con tatto e sagacia per sette lunghi anni di mandato, tirando fuori l’Italia da mille problemi? Perché è nel momento del pericolo che si forgia la storia di un Paese e dei suoi protagonisti, dal più umile dei cittadini alte più alte cariche dello Stato. E la storia non fa sconti a nessuno.

    Mattarella ha agito nel rispetto pieno della Costituzione, Egli, eminente costituzionalista, ha spiegato bene e chiaramente le ragioni per il rifiuto a rimanere. E fin qui nessuno può dargli torto.  Altri illustri e meritevoli personaggi possono concorrere a prenderne l’eredità.

     Ed è’ appunto l’eredità il lato che critico, non per la sostanza, che sarà compito degli storici valutare, ma per quell’ultimo atto, che a me è perso come fate un po’ voi, io intanto vado.

 Il primo punto riguarda il quadro politico. Tutti vediamo quale è lo stato dell’arte: un governo chiamato ad affrontare  una situazione ciclopica, che nulla ha da invidiare ad uno stato di guerra. Un governo tenuto in piedi da una maggioranza posticcia, senza alcuna somiglianza ad una unità nazionale   degna del nome.

    Un’alleanza tra cani e gatti, pronti a mettere le zampe nel piatto, uno per afferrare la trippa, l’altro per arraffare l’osso.  Uno stato di tensione latente, tenuto sotto controllo solo dalla capacità di manovra del presidente del consiglio, al quale viene ora a mancare la manleva del Capo dello Stato. Certo, se ne eleggerà un altro, ma intanto il gatto esce e i topi riprendono a ballare.

    Cosa è mancato in proposito nel commiato presidenziale? E’ mancato l’ammonimento alle forze politiche  necessario ed indispensabile per non mandare tutto a scatafascio in quattro e quattr’otto. La guerra continua, ecco che ritorna il  refrain del 1943, ma come allora gli alti comandi vacillano.

    E’ vero, siamo in democrazia, e la parola finale spetta al cittadino elettore, donne e uomini dell’Italia del XXI secolo in questo momento affannati a salvare il salvabile: il lavoro, la scuola, la famiglia, la spesa quotidiana, la casa,  le bollette impazzite, oltre a dover affrontare la pandemia  e il rischio di finire in ospedale e, se va male, al cimitero.         Noi italiani siamo strani e immaginifici ognuno di noi pensa di avere una personale soluzione in tasca, dall’esito dei talk show televisivi al campionato di calcio,  dalla coda in farmacia per i tamponi alla cura  non vax con le tisane, fino alla lotta  per la   sopravvivenza.  Più o meno tutti, lì per lì,  pensiamo di cavarcela da soli. Ma, poi servono le cure, gli ospedali, i sussidi, i redditi di cittadinanza e così, all’insaputa di ognuno, diventiamo una nazione solidale, che dimentica i difficili problemi domestici e collettivi per esplodere di gioia per la nazionale di calcio che vince il campionato europeo e i giovani che sui campi di atletica, nelle piscine negli altri campi dello sport raggiungono le vette internazionali e fanno bottino di medaglie olimpiche. 

     Ed ecco un altro appunto al discorso presidenziale: il richiamo ai giovani, la sollecitazione all’impegno. Non bastano le parole compite, e anche sentite del Presidente uscente, qui ci vuole entusiasmo, carica partecipativa, spinta emozionale, come avrebbe fatto quel vecchio partigiano, con il berretto e la  pipa in bocca, che si rimetteva la giacchetta gli scarponi i calzettoni e i nicker boder (calzoni allacciati al ginocchio) per accompagnare sull’Adamello, a sciare, quell’altro invasato di gioventù, abitualmente vestito di bianco, dimorante sull’altra sponda del Tevere. Quel modo di essere, di sentire, di vivere e partecipare è stata la carica che anima la generazione dei cinquantenni, ragazze e ragazzi di allora, donne e uomini di oggi, madri e padri di famiglia, operai, impiegati, dirigenti, imprenditori, ciascuno impegnato nella propria attività di lavoro, quelli che costituiscono l’ossatura portante di questo Paese. Ricevettero scosse che hanno dato e stanno dando frutti positivi.

     E’ cosa ha detto, su quella piaga dolorosa e inaccettabile dei morti sul lavoro? Che non erano figli del nostro Paese, non erano ciascuno di noi? C’è un altare della Patria per ricordarli  e recare corone di fiori?  Una madre o un padre che se ne vanno lascian  o un avvertimento a quelli che restano, guardate i figli. Ho sentito nulla!

     Quale invito diretto alle forze politiche (per non definirle nella loro sostanza di forze deboli) a costruire occasioni di lavoro, anziché badare ad accapararsi qualche prebenda elettorale nel ritaglio degli emendamenti alle leggi di bilancio?  Nulla!

     E, infine, il caso più pregnante e clamoroso, la giustizia.  Qual’è il lascito almeno verbale, nel commiato, di chi, per mandato costituzionale, ha presieduto il Consiglio superiore della Magistratura, la quale ha toccato il punto più basso mai raggiunto nella storia italiana, della Repubblica e persino dei decenni che vanno dall’Unità nazionale ad oggi? Nulla!

Sono addolorato per  questi rilievi che hanno tormentato la mia notte del nuovo anno. E mi dispiace  averli qui esplicitati, ma non sono riuscito farne a meno.

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Gianfranco Salomone

Giornalista - Già Direttore Generale Ministero del Lavoro

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