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Stati Uniti d’America, le contraddizioni di un Impero

Qualsiasi analisi geo-politica sugli Stati Uniti d’America non può prescindere da un dato strutturale: non stiamo parlando di una Nazione qualsiasi, ma di un Impero. Non solo nella sua proiezione estera, ma anche nella sua struttura interna. Un impero multietnico, per alcuni versi, multinazionale, ma monoculturale, quale risultato di un ciclo dinamico d’immigrazione-competizione-scontro-assimilazione tra le diverse etnie (o nazionalità) che lo compongono. Un Paese nuovo con soli quattro secoli di Storia: dalle prime colonie europee, all’ultima campagna elettorale in un contesto di radicalizzazione dello scontro etnico tra l’uomo bianco e l’uomo meticcio.

I primi colonizzatori europei a insediarsi stabilmente nel continente nordamericano agli albori del Seicento, furono olandesi – Nieuw Amsterdam, fu il nucleo originario dell’odierna New York City – inglesi e francesi.

Seguì una Storia caratterizzata da grande conflittualità e feroce competizione tra le diverse nazionalità europee per la supremazia sul Nuovo Continente. Gli olandesi lasciarono presto il campo alla contesa tra inglesi e francesi, che si decise definitivamente solo a metà del Settecento con la Guerra dei Sette Anni e la prevalenza di Sua Maestà.  Da quel momento la lingua ufficiale nazionale è l’inglese, gli statunitensi sono percepiti comunemente come anglosassoni e si è sempre definita come WASPWhite Anglo-Saxon Protestant – l’etnia dominante del Paese.

Tuttavia tale percezione comune misteriosamente non tiene conto dell’ultimo grande scontro “europeo”, il più carico di conseguenze sull’attuale struttura socio-economica-culturale, ma paradossalmente il meno conosciuto: quello combattuto per più di un secolo – a cavallo tra il diciannovesimo e il ventesimo – tra il ceppo inglese e il ceppo germanico.

L’immigrazione tedesca è cominciata alla fine del Seicento, quando l’inglese William Penn, proprietario della provincia che già portava il suo nome (Pennsylvania), si recò in Europa negli Stati tedeschi governati da principi cattolici, per convincere i suoi correligionari protestanti perseguitati, ad abbandonare le loro terre di origine e popolare il Nuovo Mondo, dove coltivare le terre e professare liberamente la loro religione.

Da allora l’immigrazione tedesca è stata costante e consistente per almeno due secoli – incoraggiata dall’autoctona etnia inglese, che dei “cugini” tedeschi apprezzava la disciplina e la produttività – fino a raggiungere la cifra record di ben sette milioni: la nazionalità largamente maggioritaria dell’emigrazione europea nel continente nordamericano. A ciò vanno aggiunti gli oltre due milioni d’immigrati scandinavi, che attraversarono l’Atlantico in gran parte nel diciannovesimo secolo.

Tedeschi e scandinavi furono colonizzatori soprattutto delle terre dislocate intorno ai Grandi Laghi, proseguendo sulle vastissime pianure a occidente e sul percorso del Mississippi verso sud. Dalle lande più ostili e disabitate, quelle più fredde, che li facevano sentire a casa, all’immenso bacino idrico del Mississippi-Missouri – il più grande del mondo – che sarebbe poi diventato il cuore pulsante dell’economia manifatturiera statunitense. Si tratta delle terre più rappresentative, non solo geograficamente, ma soprattutto culturalmente, del famoso Midwest.

La fusione tra il ceppo tedesco e il ceppo scandinavo è stata rapida e indolore, data la grande affinità etnica e culturale e il comune sentimento pangermanico, consolidato peraltro dalla contrapposizione identitaria con gli yankee anglosassoni, che popolavano – e popolano – maggiormente le Coste.  

I German-Americans costituiscono attualmente la più grande e diffusa etnia d’America con più di 60 milioni di cittadini con una diretta discendenza germanica e più di 100 milioni con almeno un avo tedesco. Nettamente vincitori nel confronto, non solo con i discendenti diretti degli inglesi (25 milioni) e degli irlandesi (34 milioni), ma anche con i messicani (37 milioni) e con gli afroamericani (40 milioni).

A differenza degli anglosassoni, per natura, individualisti, pionieri in continuo movimento, i Deutschamerikaner furono da subito stanziali e comunitari e il loro impatto sul tessuto sociale fu dirompente, diffondendo sui vasti territori occupati disciplina sociale, senso del dovere, cultura del lavoro e appartenenza comunitaria.

Pur avendo adottato la lingua dell’etnia dominante e anglicizzato i propri nomi, i germanici, dopo decenni di discriminazione e di forzata assimilazione, non solo hanno plasmato la civiltà americana, ne sono diventati il ceppo culturalmente ed economicamente dominante, costringendo infine gli anglosassoni ad abbandonare il monopolio dell’autorità e ad accoglierli al vertice della nazione.

Da allora il Midwest, etnicamente omogeneo e germanico, è diventato il cuore industriale e l’anima del Paese (Heartland), il luogo della sua massima profondità culturale, in contrapposizione all’eterogeneità etnica e cosmopolita delle Coste, sempre più popolate da immigrati irlandesi, italiani, ebrei, russi e ispanici. Non a caso è riconosciuto anche come culla della vera pronuncia dell’inglese americano, preso a modello nei media e nei circoli intellettuali.

La domanda, dunque, può sorgere spontanea: quale sarà la prossima etnia che insidierà l’egemonia del ceppo germanico? Gli afroamericani, che manifestano una crescente insofferenza per la loro endemica condizione d’inferiorità – come le violente manifestazioni del movimento Black Lives Matter hanno recentemente dimostrato – o gli ispanici, che preoccupano l’uomo bianco soprattutto per la loro poderosa crescita demografica? Non è questo il punto dell’analisi.

Importa piuttosto capire il ruolo cruciale dell’immigrazione nelle dinamiche interne e nella loro proiezione sullo scenario egemonico esterno di una superpotenza globale.

Essa, per mantenersi tale, ha fisiologicamente bisogno di un flusso immigratorio strutturale, costante e consistente. Ciò allo scopo di mantenere la popolazione giovane e aggressiva e quindi di stimolare una società ultra-dinamica con una spiccata tensione alla mobilità in ascesa, una gerarchia (sociale ed etnica) modificabile e il suo apice contendibile.

Una continua importazione di masse di giovani poveri e disperati va a ingrossare le fasce più deboli della popolazione, aggravare ulteriormente le loro condizioni economiche e sociali, alimentare logicamente la loro disperazione e, quindi, la loro intraprendenza nella spinta verso l’alto della piramide sociale. Ciò ovviamente con il suo enorme carico di aggressività e violenza, che poi le élites riversano e sfogano esternamente sul mondo, al fine di condurre quella politica estera di sopraffazione e dominio necessaria per la supremazia globale.

Tornando al Midwest germanico, a esso si fa riferimento quando, financo troppo spesso, si parla di ventre del Paese senza tuttavia capirne appieno il significato intrinseco. I Founding Fathers, con uno strambo meccanismo elettorale, decisero che doveva essere proprio l’America profonda a scegliere il leader della nazione: cittadini lontani dalle Coste e isolati dalla contaminazione del forestiero, residenti nella pancia geografica e culturale del Paese, al tempo anglosassone, in seguito germanico.

Ancora oggi, nell’America del XXI secolo, a dispetto delle radicate e superficiali convinzioni di tanti osservatori del Vecchio Continente, sotto le sembianze corporee anglosassoni, l’etnia germanica del Medio-occidente costituisce la psiche profonda degli Stati Uniti, la coscienza da interpellare ogni quattro anni. La Storia americana ci insegna che i candidati maggiormente interpreti delle sue aspirazioni e/o del suo malessere, sono diventati presidenti.

Il punto è che dopo un trentennio di supremazia statunitense solitaria sul pianeta, il Midwest manifesta un forte malessere, generato da quella che gli osservatori più acuti definiscono la fatica imperiale.

La proiezione estera egemonica porta con sé un pesante fardello, poiché impone una strategia di deindustrializzazione interna, oltre alla perenne belligeranza e allo strutturale flusso immigratorio.

Rilevante testimonianza ne è stato il passaggio epocale e strategico dalla Old Economy alla New Economy. Avviato dalla Reaganomics degli anni ’80, accelerato da Clinton nei ’90 e consolidato nel successivo ventennio da Bush e Obama, ha logicamente trasferito all’estero gran parte dell’industria manifatturiera – tradizionalmente anima pulsante del Midwest – e la massiccia occupazione a essa collegata. Al contempo i grandi investimenti nella Silicon Valley hanno generato impiego, ma assorbendo solo in parte – e principalmente sulle Coste – quello perso nella delocalizzazione industriale.

La necessità di legare a sé le province, importando i loro manufatti e quindi assoggettandole attraverso la loro vitale dipendenza economica dalla superpotenza acquirente, ha fortemente pesato nei decenni sullo status economico del ventre del Paese.

A ciò si aggiunge il dispiegamento d’ingentissime risorse militari, in uomini e mezzi, per consolidare le posizioni già acquisite e per conquistarne di nuove: un enorme fardello umano ed economico sempre più oneroso da sostenere.

Last but not least,il consistente e costante flusso immigratorio necessario alla geopolitica di superpotenza, di cui si diceva sopra, preoccupa per l’ascesa interna di minoranze razziali non assimilabili, perché culturalmente e antropologicamente inconciliabili con la germanicità anglosassone del ceppo dominante.

Nella contesa del 2016 la Clinton non intercettò il malessere e perse. Trump, discendente diretto d’immigrati della Renania-Palatinato, vinse proprio perché si rese pienamente interprete della rabbia e della frustrazione dell’America profonda e le promise audacemente l’utopico disimpegno isolazionista, riportando a casa le industrie, i militari e stoppando l’immigrazione. I suoi tre slogan della campagna elettorale, diretti ed espliciti – Make America great again! Bring the soldiers back home! Stop immigration! in altre parole: Re-industrializziamo l’America! Basta con le guerre! Proteggiamo l’uomo bianco! – colpirono al cuore l’elettorato di riferimento medio-occidentale, il decisore di ultima istanza della contesa elettorale.

Tuttavia si trattava logicamente di promesse irrealizzabili, totalmente incompatibili con la natura geneticamente imperiale della nazione multinazionale americana.

Un presidente non può certo modificare la strategia geopolitica del suo Paese, determinata da fattori storici e strutturali di lungo periodo, quali il mito fondante della nazione, il suo retroterra culturale, la sua collocazione geografica, il suo sistema economico, la sua composizione sociale, la sua demografia.

Così nei quattro anni di amministrazione Trump, anziché registrare il disimpegno promesso, a dispetto di dazi e sanzioni, la deindustrializzazione del Midwest è proseguita ai soliti ritmi incessanti e, con essa, il conseguente deficit della bilancia commerciale; pur mantenendo la promessa di non aprire nuovi fronti di guerra, la presenza di militari americani su quelli esistenti è aumentata; in barba ai muri – più psicologici, che fisici – l’immigrazione ispanica è cresciuta.

Il malessere del ceppo egemonico e dell’intero Paese si è inevitabilmente acuito ed è emerso in tutta la sua evidenza nei toni d’inaudita violenza della recente campagna elettorale.

Qui nasce, dunque, la contraddizione sostanziale della natura doppiamente imperiale – interna ed esterna – degli Stati Uniti: da un lato, la strategia estera egemonica impone internamente un’economia deindustrializzata e una società lacerata da violente contrapposizioni etniche, alimentate dal continuo flusso immigratorio, destabilizzanti la gerarchia interna; dall’altro, il ventre del Paese ha bisogno di stabilità sociale per conservare la propria supremazia domestica e di re-industrializzazione per conservare il proprio status economico.

A complicare il quadro s’innesta anche la contrapposizione tra un Midwest obbligato a vivere sulla sua pelle il crescente degrado delle condizioni economiche della grande regione continentale, mentre l’imponente sviluppo delle tecnologie della New Economy arricchisce a dismisura le Coste multi-etniche, ovvero quell’America così antropologicamente e culturalmente diversa dal suo ventre.

Come conciliare queste due tendenze tra loro sempre più confliggenti? Operazione molto complessa per qualsiasi presidente, di là della retorica elettorale.

Qual è la soluzione proposta da Biden per superare la contraddizione di fondo dell’Impero e per cercare di conciliare la contrapposizione crescente tra Medio-occidente e Coste? Che cosa ha promesso al ventre del Paese per vincere le elezioni?

Senza dubbio è stato onesto nell’abbandonare i velleitari propositi isolazionisti di Trump, riconoscendo implicitamente che la strategia geopolitica imperiale è scritta nel destino degli Stati Uniti e della loro società multi-etnica. Tuttavia ha promesso di alleviare il “fardello egemonico” e stabilizzare la gerarchia interna ricorrendo a un poderoso allargamento del Welfare State, finanziandolo con una maggiore imposizione delle classi ricche delle Coste.

Su questo secondo punto l’ex-vicepresidente non è sembrato altrettanto onesto, poiché molto difficilmente vorrà o potrà intaccare lo status economico dei settori che lo sostengono maggiormente. Tuttavia la vera ragione dell’impraticabilità è ben più profonda, perché riguarda la natura intrinseca interna di una superpotenza globale: essa non può permettersi un capillare e diffuso Stato Sociale che arricchirebbe la popolazione nel suo complesso e ne fiaccherebbe inevitabilmente l’aggressività.

Il trend di crescita dei debiti gemelli appare dunque sempre più come una strada obbligata, com’è normale che sia per il Cuore dell’Impero.

Da un lato l’allargamento del deficit interno, creato da un più o meno cospicuo incremento del Welfare State, senza riuscire a generare le necessarie coperture finanziarie; dall’altro il consueto allargamento del deficit esterno, imposto dal massiccio assorbimento delle merci delle province che richiede lo status egemonico.

Il prezzo da pagare per ottenere il consenso del ventre del Paese alla strategia geopolitica imperiale.

E’ una costruzione che sta in piedi? L’America può permettersi una crescita continua dei suoi due grandi disavanzi? Dipenderà soprattutto dalla capacità di continuare a imporre la sua egemonia al pianeta.

Maggiori i debiti gemelli, maggiore la necessità di dominio globale per sostenerli.

Maggiore il dominio globale, più grandi i debiti gemelli da esso generato.

Le contraddizioni di un Impero.

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Fabrizio Agnocchetti

Laurea in economia con una tesi sperimentale sulla disoccupazione francese presso l’Università La Sapienza di Roma, diploma in gestione finanziaria presso l’Ecole de Commerce IPAG a Parigi, diploma in economia internazionale presso l’Université des Sciences Sociales UT1 di Tolosa. Amministra fondi d’investimento presso la State Street Bank Luxembourg e successivamente si occupa di risparmio gestito presso la SGR di cui diventa partner. Come consulente finanziario indipendente si occupa di progetti d’investimento nei settori della moda, del calcio e della ristorazione. Dal 2014 imprenditore nel settore della ristorazione a Milano e a Nizza.

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