Continuiamo a raccontare l’Inferno in terra in attesa di un Paradiso che i medici volontari di Chios vorrebbero regalare ad ognuno dei profughi. Io non sono a Chios ma forse come ognuno di noi dovremmo andarci almeno per poco, per capire cosa significa vivere in quelle condizioni, per smettere di lamentarci per banalità e baciare la terra su cui camminiamo. In fondo la vita cosa è ?? Una ruota della fortuna, noi siamo fortunati , “ loro “ no, noi siamo vivi senza combattere ogni giorno contro la morte, “ loro “ no. Ci chiediamo ancora cosa fare, e nel frattempo “ loro” “ gli altri” sono nei campi, nelle prigioni, su un gommone, in città che bruciano…Alfredo Nazzaro mi ha raccontato un’altra sua giornata a Vial e io credo che queste sue parole siano un regalo per noi tutti, perché possiamo vivere attraverso di lui la disperazione , la dignità, la forza, la vita “ degli altri” nonostante tutto, anche nonostante la nostra indifferenza.
“Don’t worry doctor!”. Come ogni giorno, ti sei infilato nel “tuo” container attrezzando la “tua” postazione con i soliti supporti di fortuna, perché nel campo di Chios anche un tavolino diventa un lusso da contendersi tra colleghi. Hai poggiato l’ecografo anche su cartoni di rifiuti speciali, pur di trovare un supporto che lo sostenesse e ti consentisse di lavorare, ma questa ricerca porta via tempo e ti rallenta. Ti rallenta anche il non avere quasi mai un traduttore a disposizione e quella maledetta rete 4G che il più delle volte si blocca ed allora addio anche a Google Translator. E vengono giù pezzi di cielo. Anche questo pomeriggio, per arrivare alla tua postazione hai dovuto fendere quel muro di disperati che non si scostano al tuo passaggio e cercano un contatto fisico con te, perché ognuno di loro ha un problema e tu sei un “doctor”, anche se non puoi fare niente per loro. Non puoi fare a meno di pensare che hanno i colori di un quadro di Goya e la violenza selvaggia di un Caravaggio, quegli esseri umani.
Il cancello si è richiuso alle tue spalle come un moderno Caronte e ti appresti, rassegnato, a consegnarti all’orrore quotidiano. Perché in quel campo l’orrore è sempre dietro l’angolo e sai che si può materializzare all’improvviso. Senza alcun segno premonitore. C’è una donna che ti aspetta, oggi pomeriggio, era già stata da te. È gravida. Il feto ha una malformazione grave alla colonna vertebrale che le hai confermato qualche giorno prima. Una tragedia nella tragedia, in quelle condizioni. È giovane, è bella, ha gli occhi neri profondi ed un sorriso dolce,come tutte. È tornata perché ha una domanda, quella domanda che tu non vorresti sentirti porre. Non lì, non in quel campo. Ti dice che ha “studiato”, si è informata ti chiede quali saranno gli esiti. Tu le dici che si dovrà valutare alla nascita ma che probabilmente, avrà seri problemi alla deambulazione. Il resto sembra escluso. Forse non camminerà. Lei ti guarda, abbassa gli occhi e poi te li ripunta addosso. Non era quella, la domanda. Ti punta i suoi occhi addosso, affilati come la lama di un rasoio, e ti chiede: si può curare? Tu d’istinto le rispondi di no. Perché un po’ e’ vero ed un po’, molto più di un po’, vuoi proteggerla dal suo destino e da quel campo. Le dici, che no, non ci sono terapie.
Il suo sguardo non si abbassa, ricompare il sorriso e ti chiede se ne sei sicuro. Tu sai che lei sa. “Ha studiato”. Ora sei tu ad abbassare lo sguardo, perché sei costretto a risponderle che forse ci sarebbero delle possibilità ma non in quel campo, non in quelle condizioni. Forse in Inghilterra o negli USA, dove ci sono delle strutture che praticano la chirurgia fetale. Forse, ma non in quel campo. Non per lei e per il suo bambino. Annuisce, il sorriso assume il sapore amaro di chi è stato sconfitto dalla vita. Prima di andarsene ti dice che è sola, in quel campo. Il marito la raggiungerà, se ci riuscirà, con un altro sbarco. Lei dice presto. Continuando a sorridere. Ci provi, prendi il foglio del referto e provi ad inviarla all’ospedale. Sperando che non la respingano. Chiedendo che la trasferiscano ad un Centro di alta specializzazione. Forse lei, ad Atene, ci arriverà. Non sarà sufficiente ma hai imparato che si fa quello che si può, in quel campo. Oggi hai una novità inaspettata. Si materializza una giovane donna, dice di avere 19 anni che sarà la tua interprete, per quel pomeriggio. Come tutto a Vial, anche Nadia, lei dice di chiamarsi così, ha una storia incredibile alle spalle. È una italo-marocchina che ha vissuto sei anni in Italia, anche se la conoscenza della nostra lingua si limita a qualcosa che assomiglia a “pasta, sole e pizza”, poi Francia, Belgio, Olanda, Germania ed infine Grecia. Da sette anni. Parla correntemente lo spagnolo grazie al fidanzato ed altre quattro lingue: arabo, greco, inglese e francese. Riesce ad interagire in Farsi ed in Somalo. Ha i capelli di un giallo paglia improbabili ma realizzi che per oggi avrai meno problemi. Ti rilassi e macini visite e storie. Tutte uguali e tuttavia tutte diverse.
Oggi ci sono molte afghane. È più semplice, con loro, così come è più semplice con le sciite. Non hanno problemi a farsi visitare da un uomo e riesci anche a fare delle ecografie vaginali. È un pomeriggio nel quale prevale la routine ma a Vial è un errore abbassare la guardia. L’orrore si può materializzare all’improvviso. Dietro ognuno di quei sorrisi. Entra la collega più giovane, ti chiede se puoi visitare una donna. Ti chiede di parlarti in privato e ti dice di visitarla da solo, senza interprete. Non ci fai caso. Hai imparato che, a Vial, si innescano delle dinamiche nel campo che possono rendere difficili i rapporti tra i traduttori ed i rifugiati. Acconsenti. Chiedi a Nadia di uscire. E’ un pomeriggio “tranquillo” oggi, al campo, ma l’orrore e’ in agguato. Sempre. Tu non lo sai ma si sta materializzando di fronte a te qualcosa che ai Bastioni di Orione ci vai a fare una scampagnata fuori porta. Ha le sembianze di una donna somala, altissima, bellissima come solo le somale possono essere. In un’altra vita, in un altro posto che non sia questo maledetto campo sarebbe stata una modella.
Come Iman, Hawa Ahmed, Halima Aden. Sorride. Indossa il loro abito tradizionale, blu elettrico con spruzzi di colore arcobaleno. Parla un inglese fluente e questo ti rilassa. Le chiedi di attendere un attimo. “Don’t worry doctor” e sorride. “ Take your time doctor”. Si siede, attende paziente. Tutti sono pazienti in quel campo. Hanno tempo e, soprattutto, non hanno un futuro. Ti se preso il tuo tempo. Le chiedi il motivo della visita. Si tocca il fianco, lamenta quel mal di schiena virale, visto che il 50% di loro dorme per terra o su bancali di legno. Quelli che noi usiamo per trasportare materiali ingombranti. Li usano per sollevarsi da terra e non bagnarsi quando piove. Aggiunge che ha delle perdite. Una vaginite. Tu inizi a spiegarle quello che spieghi a tutte, e le dici che le farai un’ecografia. Sorride. Ti chiede se può mostrarti dove ha dolore. Si piega verso di te ed il mondo ti precipita addosso. Ti sussurra, “I’ve been raped, five months ago” chiedendoti se tu quel “raped” hai capito cosa significa. Il respiro si ferma come il tempo, in quella stanza.
I muscoli si contraggono per evitare di mostrare quello che senti. Rimetti in ordine velocemente i pensieri e le dici che si, lo sai:” raped” vuol dire violentata. Pensavi finisse qui e sarebbe stato sufficiente. Invece era solo l’inizio. Ti racconta che è stata violentata cinque mesi fa, in Somaliland, da sette uomini. Erano jihadisti di Al Shabaab, una fazione tra le più crudeli. Questa volta il labbro te lo mordi tu, quasi fino a farlo sanguinare mentre ti racconta che mentre la violentavano l’hanno accoltellata 15 volte. Per non farla urlare, dice. Alla fine l’hanno abbandonata in un lago di sangue, esanime. Non riesci neanche a deglutire, la bocca è secca, come gli occhi che non hanno più lacrime. La sostieni fino al lettino, lei si spoglia e ti mostra le ferite. Profonde. Hanno pugnalato ma hanno anche scavato. C’è perdita di materia. Ha una ferita da cesareo pregresso. L’hanno accoltellata anche su quella. Forse cercavano di aprirla. Le conti le 15 coltellate. Sulla parte bassa dell’addome, sui glutei, sul pube, sula radice delle cosce. Alcune cicatrici sono profonde, retratte. Il dolore viene da lì. La copri con dolcezza. Le chiedi con chi è a Vial. Ti dice che è sola.
Ha 24 anni, in Somaliland ha lasciato quattro figli piccoli dei quali non sa più nulla. Ha dovuto lasciarli, scappare, perché rischiava la lapidazione come adultera, dopo la violenza subita. Il dolore ti schianta. Non hai più parole nè pensieri. Vai a chiamare il coordinatore del campo. Quella donna non può stare lì. In quelle condizioni di promiscuità non avrebbe scampo. A parte la necessità di una consulenza chirurgica per provare a correggere quelle cicatrici. Lei aspetta tranquilla. Poi il pianto, quello che le era rimasto da piangere. Si asciuga le poche lacrime che le sono rimaste con un lembo del vestito. Si copre gli occhi e le lacrime le solcano le guance, scintillando sotto la luce. Vorresti abbracciarla e portarla con te. Lontano da quel campo, lontano dal suo passato. Hai solo la forza di allungarle un pacchetto di fazzoletti di carta e di dirle che ora è li, al sicuro. Glielo dici ma sai che non è vero e ti detesti da solo, per la tua impotenza. Va via con il coordinatore, inghiottita dal buio della notte di Chios e di quel campo che annichilisce i corpi e le menti. Sai che non la vedrai più. Take care of yourself. Ora sei tu che piangi. Non sarà l’unica volta. Solo chi non è mai sceso all’inferno può pensare che questa umanità disperata può essere abbandonata al proprio destino.
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