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Taglio dei parlamentari? Ora si rischia il corto circuito del Parlamento

Ci vorrà forse del tempo prima che salga la consapevolezza dell’errore commesso con la riduzione del numero dei parlamentari (da 630 a 400 alla Camera dei deputati e da 315 a 200 al Senato, più i 5 Senatori nominati dal Presidente della Repubblica).

La riforma costituzionale tenacemente voluta dal Movimento 5 Stelle e dalla Lega con la intenzione di acquisire una posizione di assoluta preminenza in un Parlamento di Movimenti e con i partiti tradizionali ridotti a poche sparute pattuglie di superstiti, si sta rivelando come derivante da un grosso equivoco.

Il sistema elettorale attuale favorisce infatti i gruppi politici maggiori, nell’ottica di un sistema bipolare e la riduzione del numero degli eletti lascia fuori dalle due camere i gruppi politici di consistenza minore: i due movimenti, forti di un consenso elettorale complessivo superiore al 60% dei votanti, contavano per questa via di conquistare stabilmente un “Parlamento di Movimenti”, con l’alibi di voler diminuire la spesa pubblica per le due camere.

La speranza è venuta chiaramente meno, ma ora restano le conseguenze di quel disegno, primo tra tutti il quasi certo venir meno della rappresentanza in parlamento delle forze politiche numericamente minori.

Per il Senato, che in base all’articolo 76 della Costituzione è “a base regionale” c’è l’ulteriore timore che le Regioni più piccole, eleggendo meno senatori, restino prive di una rappresentanza politica articolata, contro lo spirito se non la lettera della Costituzione.

La legislatura terminerà, salvo imprevisti, tra poco più di un anno, non c’è dunque il tempo necessario per eliminare, con una nuova modifica costituzionale, l’errore compiuto. Non resta che affidarsi, per evitare le conseguenze più macroscopiche dell’errore commesso, ad una nuova legge elettorale interamente proporzionale, con la previsione di un collegio unico nazionale per la Camera e di collegi regionali per il Senato, in modo da rendere possibile la utilizzazione dei resti sia in sede regionale per il Senato, che nazionale per la Camera, garantendo l’elezione di chi non ha raggiunto la soglia dei voti necessari in sede circoscrizionale o regionale.

Non si tratta di una soluzione peregrina: fu adottata nelle prime elezioni per la Camera dei Deputati (allora si trattava di garantire l’elezione dei notabili antifascisti) e tutto sommato il sistema non diede cattivi risultati.

Altro problema da risolvere con urgenza è quello dell’introduzione, nei Regolamenti Parlamentari, cioè in quel complesso di regole che ciascuna Camera si da (art. 67 della Costituzione) per lo svolgimento dei propri lavori. I Regolamenti attualmente vigenti, parzialmente diversi tra le due Camere, furono approvati mezzo secolo fa: hanno subito diverse modifiche negli anni successivi, ma la loro struttura fondamentale è rimasta identica. E’ da escludere sotto il profilo logico, prima ancora che quello giuridico che possano continuare ad avere vigore senza alcuna modifica in un parlamento ridotto a meno di due terzi dei suoi componenti.

Un solo esempio valga per tutti: i duecento (o duecentocinque) dovrebbero essere ripartiti in 14 Commissioni permanenti, oltre quelle speciali, quelle – monocamerali o bicamerali – d’inchiesta e le giunte (delle elezioni e del regolamento): il risultato sarebbe che a comporre ciascuna Commissione permanente sarebbero al massimo una quindicina di Senatori, di cui solo una parte potrebbe essere presente alle sedute della Commissione in quanto libero di impegni presso altre Commissioni od organi collegiali interni della Camera (Ufficio di Presidenza, Comitati vari). Il risultato finale sarebbe che quando una Commissione esamina un progetto di legge in sede legislativa (senza cioè il successivo esame da parte di tutta l’Assemblea) sarebbe sufficiente il voto favorevole al progetto di 5/6 Senatori ed il progetto di legge, una volta approvato in modo analogo dalla Camera dei Deputati diventerebbe legge, con tutte le conseguenze politiche ed etiche facilmente individuabili.

Una soluzione sarebbe quella di eliminare la possibilità che la Commissione proceda in sede legislativa, in quanto prevista in Costituzione (art. 72) solo come eventualità, sulla scia di una analoga norma contenuta nella Camera dei Fasci e delle Corporazioni come conseguenza dell’ordinamento corporativo vigente durante il regime fascista, con l’attribuzione del potere legislativo, che residuava da quello del governo, in parte alle Corporazioni ed in parte alle Commissioni Parlamentari, chiamate ad essere la loro immagine speculare in Parlamento.

Una riforma regolamentare almeno a questo proposito è dunque necessaria. E’ quanto meno dubbio che potrebbe procedersi invece ad una diminuzione del numero delle Commissioni, con la modifica della sfera di competenza di ciascuna di esse: la competenza delimitata nel Regolamento è la ragione stessa dell’esistenza della Commissione ai fini (purtroppo solo teorici) di una attività legislativa tecnicamente più qualificata.

Diminuire il numero delle Commissioni significherebbe incidere negativamente sulla loro qualificazione, con conseguenze negative sullo stesso livello qualitativo dell’attività normativa.

Altro e diverso problema è quello del numero minimo di deputati e senatori per la costituzione del Gruppo Parlamentare, tenendo ben presenti le numerosi ed importanti funzioni attribuite a ciascun gruppo nella dinamica dei lavori parlamentari, ad iniziare dalla partecipazione alle decisioni riguardante l’ordine del giorno dell’Assemblea. A ridurre quel numero in modo proporzionale a quello diminuito dei membri dell’una e dell’altra camera, significherebbe precludere la possibilità di formare un Gruppo Parlamentare per molte formazioni politiche, numericamente ridotte, obbligando deputati e senatori a confluire nei gruppi misti, tanto eterogenei da perdere ogni identità e significato politico.

Molte altre, a voler analizzare da vicino i regolamenti parlamentari ai regolamenti vigenti, sono le problematicità legate alla loro applicazione, tanto da far ritenere opportuna una rimeditazione globale dei loro contenuti, analogamente a quanto avvenne nel 1971, allo scopo questa volta, non già come allora, di stabilire una sorta di “Statuto delle opposizioni”, ma di rendere più snella ed aderente ai movimenti intervenuti nel quadro politico-istituzionale l’attività normativa, tenendo presente la crescente rilevanza assunta dalle autonomie regionali.

Le proposte avanzate in proposito sono molte e vanno dall’ampliamento delle funzioni del Parlamento in seduta comune (ad esempio a proposito di tutte le attività non legislative), alla riunione comune delle Commissioni permanenti analoghe per l’esame dei progetti di legge in sede referente e per l’attività non legislativa in genere, previa una parallela in tal senso delle Commissioni dell’una e dell’altra Camera.

E’ inutile farsi illusioni: la modifica dei Regolamenti, essendo necessaria a questo fine la maggioranza assoluta di ciascuna Camera (art. 64) non sarà facile: il centrodestra può avere interesse a procrastinare i tempi, rinviando la soluzione di un problema alle nuove Camere, dove spera di avere la maggioranza assoluta, in modo da procedere nel modo più consono ai suoi interessi politici. Spetta agli attuali Presidenti delle due Camere nell’interesse delle istituzioni, sollecitare l’attuazione delle modifiche regolamentari necessarie per non bloccare le attività parlamentari della nuova legislatura o subordinarla agli interessi di parte: è il meno che possa fare una classe politica degna di rispetto.

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Mario Pacelli

Mario Pacelli è stato docente di Diritto pubblico nell'Università di Roma La Sapienza, per lunghi anni funzionario della Camera dei deputati. Ha scritto numerosi studi di storia parlamentare, tra cui Le radici di Montecitorio (1984), Bella gente (1992), Interno Montecitorio (2000), Il colle più alto (2017). Ha collaborato con il «Corriere della Sera» e «Il Messaggero».

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