Torno – dopo un commento positivo fatto in questa rubrica al Traditore di Bellocchio[1] – a un altro ma diverso grande film sulla mafia. E inevitabilmente al connesso tema che riguarda come queste narrazioni vadano anche a collocarsi sui profili del brand Italia.
Di questo “altro” film tutti parlano bene. Dicono di non perdersi quel terzetto di attori di origine italiana che, con la guida sperimentatissima del maggiore regista italo-americano vivente, aggiornano quasi trenta anni dopo il grande successo di Goodfellas, uno dei cento migliori film della storia del cinema che fruttò un Oscar e un coro di applausi.
Eccoli allora in sala: Robert De Niro, quasi invisibile nel suo silenzio velato da un enigmatico sorriso; Al Pacino, al contrario istrione e scoppiettante nella sua gamma umorale da soprano; Joe Pesci (Oscar, appunto, nel 1990 per l’interpretazione del mafioso Jimmy De Vito) capace di nascondere un potere criminale pressoché assoluto nei panni e nelle forme di un vecchietto pensionato e sdentato. E poi lui, il più reputato rappresentante della New Hollywood, nipote di emigrati siciliani, figlio di un impiegato in una lavanderia e di una sartina, Martin Scorsese.
A giustificare il film The Irishman, dicono tutte le presentazioni, vi è il libro di successo che Charles Brandt (oggi 77 anni) ha scritto sulla figura di Frank Sheeran[2], veterano della seconda guerra mondiale, detto “l’irlandese”, che vivrà per intero la sua parabola di sicario nelle mani della mafia Italo-americana, arrivando incolume fino ad una confortevole casa di riposo. Incolume sì, ma anche divorato dai sensi di colpa.
Lo stesso Brandt ha raccontato a Roma alla recente edizione di “Più libri, più liberi” [3] che la trama non è stata frutto di sentito dire, ma di cinque anni di interrogatori a cui ha sottoposto il non reticente “irlandese”, in quanto magistrato chiamato dallo stesso criminale che, scontando un po’ di prigione per colpe più lievi dei suoi impuniti crimini, aveva anche letto un libro proprio del magistrato Brandt sul sollievo profondo di chi svuota la coscienza raccontando opprimenti e terribili ricordi.
La mafia e i suoi cicli di potere
I ricordi di Sheeran – diventato in America una figura popolare dopo quel libro e questo film – riguardano una lunga catena di delitti, sparando ogni volta in fronte alle vittime designate dalla mafia. Una catena che nel film è colta nella fasi insorgenti di un passaggio di potere tra Il vecchio interpretato da Joe Pesci e i nuovi gangster tra cui Anthony Provenzano affiliato alla famiglia Genovese.
A Sheeran toccherà sparare – questa volta alle spalle – al suo migliore amico, il leader del potente sindacato camionisti USA Jimmy Hoffa, interpretato da Al Pacino, nella realtà politicamente liquidato nei primi anni ’60 da Bob Kennedy. Hoffa non vuole riconoscere il potere delle nuove leve mafiose le quali obbligano così il sistema a chiudere brutalmente i conti. L’irlandese sa che opporsi a un boss vuol dire andare al creatore e considera che non eseguire la sentenza (emessa dal vecchio boss italiano sdentato ma capace ancora di qualche parola in italiano) vorrebbe dire che al creatore ci andranno in due. E’ la fine del suo percorso cinico e l’inizio del rito di espiazione. Che comprende una figlia che lo disconosce, un magistrato che raccoglie la sua completa verità e, alla fine, la decisione di staccare da solo la spina rinunciando ad alimentarsi.
Una breve sinossi non può dare la misura della bravura del cast, della qualità del montaggio, della precisione dei tempi teatrali, dell’eccellenza della regia. Ma resta servita al pubblico (su Netflix nella sola prima settimana 26,4 milioni di persone) la “ribollita” di una storia raccontata per tanti anni sulle crudeltà e le retoriche della mafia italiana o di origine italiana che, ben inteso, per quel che ha combinato la mafia in Italia e nel mondo, si è meritata ovviamente questa lunga, lunghissima denigrazione da parte della letteratura e del cinema fino a diventare anche stereotipo.
Non vorrei essere frainteso. La questione non è la libertà indiscussa di trattare il tema della mafia, possibilmente senza trasformare anche involontariamente i mafiosi in protagonisti seduttivi. Si conoscono le regole del mercato cinematografico: senza attori di successo il successo è molto più difficile. Ma a furia di fare interpretare grandi mafiosi da grandi attori, si trasferisce a volte seduzione più che riprovazione. Così come nelle vicende anche di importanti serie tv a furia di vedere morire gli eroi anti-mafiosi e vedere spadroneggiare e arricchirsi i mafiosi, si trasferiscono a volte rischi emulativi più che sicura riluttanza.
Jacopo Simonetti, su Rivista Studio, pur non negando nessuna delle qualità che fanno grande un film come questo, si è chiesto di recente “se davvero The Irishman è un capolavoro? [4], questionando un po’ sulla lunghezza del film (210’) ma soprattutto ricordando maliziosamente una battuta polemica dello stesso Scorsese a proposito di altri registi e altro cinema: “Se alla gente viene dato un solo tipo di cosa e viene venduto all’infinito solo quello, ovviamente vorrà sempre di più di quell’unica cosa”.
Una domanda, se è lecito.
Una
domanda per questi argomenti ci è parsa lecita. Se davvero questo film era
necessario nella vasta filmografia di Scorsese. Se cioè davvero questo film
metta in luce spunti creativi e artistici finora non espressi (non volendo
considerare il grande costo per il ringiovanimento virtuale degli attori uno di
questi spunti). Se insomma davvero The Irishman aggiunga qualcosa di
importante alle performances ampiamente sperimentate da tutto Il cast artistico
italo-americano. Ove così non fosse The Irishman, pur acchiappando di
certo nomination agli Oscar, rimarrebbe
oggi soprattutto una ulteriore proposta principalmente piuttosto dura sugli
italiani (proprio nei giorni in cui Nancy Pelosi capeggia la battaglia
istituzionale per l’impeachment a Trump). Una proposta che vorremmo che un
grandissimo regista come Scorsese, avviandosi verso la soglia di una certa età,
provasse a rovesciare. Cioè tornando a
concepire una storia molto trattata in una storia meno trattata: quella migratoria,
quella cioè degli italiani come lui, fatta per tanti, tantissimi, di coraggio,
dolore, orgoglio e riscossa. Ricordando un suo film fortunato su Jack La Motta
(Toro scatenato, del 1980) ma
soprattutto il suo documentario del 1974 Italoamericani,
in cui tutta la famiglia Scorsese narrava l’epica dell’immenso mutamento
migratorio e in cui sua madre Catherine Scorsese diceva: “Niente cibo, niente casa, dormivamo poco, sotto i ponti. E nonostante
tutto siamo italoamericani! E siamo qui”.
[1] 3 giugno 2019 – https://moondo.info/marco-bellocchio-su-falcone-e-il-traditore-volevo-parlare-di-patria/
[2] Charles Brandt,The Irishman, Fazi Editore 2019 (prima edizione italiana, L’Irlandese, Ho ucciso Jmmy Hoffa, 2013)
[3] Charles Brandt ha parlato con Pif e con Paolo Mereghetti, al Convention Center La Nuvola sabato 7 dicembre 2019 a Roma.
[4] Jacopo Simonetti, The Irishman è davvero un capolavoro?, in Rivista Studio on line, 7 novembre 2019, https://www.rivistastudio.com/scorsese-irishman/
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