Sono due mesi che facciamo paragoni tra l’Italia e gli altri Paesi.
Ci siamo posti davanti alle differenze con la consapevolezza, o forse sarebbe meglio dire rassegnazione, che il diritto è conseguenza della dimensione sociale che si intende regolare.
Ubi societas ibi ius. Così abbiamo giustificato. Guardiamo alle grandi industrie, i motori economici dei Paesi, in Italia chiuse dopo circa una settimana dal lockdown e negli altri, invece, sempre lasciate aperte.
Non si è stati capaci di assicurare la sicurezza dei lavoratori fino ad un paio di settimane fa.
Ubi societas ibi ius. Così abbiamo giustificato.
Pensiamo alla possibilià di fare una passeggiata, una corsa o il semplice andare a prendere un po’ di ossigeno in un parco; seppur piccole, ai cittadini di altri Paesi sono state lasciate queste libertà. Da noi si è preferito limitarle, considerandole ottime armi per la furbizia.
Ubi societas ibi ius. Così abbiamo giustificato.
Pensiamo a chi, sorpreso a farsi una corsetta per la città, è stato inseguito da un elicottero. Pensiamo a chi, prendendo il sole in spiaggia, è stato accerchiato da due quad della polizia, con tanto di drone in volo sopra le loro teste. Pensiamo a chi ha ricevuto sanzioni spaventose per motivi non apparentemente giustificabili.
Interventi sproporzionati, ma la circostanza, l’emergenza, il rischio di poter riempire anche un solo letto in più di terapia intensiva, gli ha fatto da cuscinetto.
Ubi societas ibi ius. Così abbiamo giustificato.
Pensiamo a chi ha chiuso dopo di noi e ha riaperto, o riaprirà, prima di noi.
Apparati sanitari più attrezzati, maggiore disponibilità di strumenti, più tempo per prepararsi e cittadini più “educati”. Ci siamo detti.
Ubi societas ibi ius. Così abbiamo giustificato.
Guardiamo all’incapacità del nostro mondo politico di farsi tutt’uno e lavorare insieme per risolvere l’emergenza. Intendiamoci, non credo che negli altri Paesi non ci siano state polemiche per questo o per quell’altro; non credo però siano state inutili e distruttive quanto nel nostro.
Abbiamo preferito lanciare fake news e riconcorrerle; abbiamo preferito discutere su chi avesse firmato, dieci anni fa, strumenti, oggi, rivoluzionati per l’emergenza; abbiamo preferito discutere sul 25 Aprile e se fosse appropriato, o meno, cantare “Bella Ciao” dai balconi.
Ubi societas ibi ius. Così abbiamo giustificato.
Tutto questo senza considerare la Svezia, Paese che ha chiuso solo determinati esercizi e si è limitata a dire ai cittadini che tipo di comportamenti seguire per evitare un’impennata della curva del contagio.
Non possiamo pretendere una linea di questo genere, né da noi né tantomeno negli altri Paesi, evidentemente.
Abbiamo sotto gli occhi modelli diversi, quindi. Tutti dipendenti dal grado di fiducia reciproca tra cittadini ed istituzioni prima, e dalle capacità politiche poi.
Ubi societas ibi ius. Credo fermamente in questo principio, ma non nell’usarlo come giustificazione a tutto.
Stiamo vivendo settimane in cui siamo privati di molte libertà fondamentali e stiamo facendo sacrifici enormi. Gli italiani, con un senso civico straordinario (perchè basta descriverci solo come furbi e indisciplinati), stanno osservando tutte le norme alle quali sono sottoposti; anche quando queste possono essere risultate sproporzionate, o peggio, errate, e sempre in nome della locuzione latina che tanto ci stiamo ripetendo.
Abbiamo deciso di iniziare a pensare alla riapertura, al come riaprire, dopo 40 giorni di lockdown. Avremmo dovuto farlo dalla prima settimana. In tanti ci domandavamo se stessimo rischiando di non riuscire a strutturare un piano ben definito per tempo, di non poter riaprire quando le condizioni sanitarie lo avrebbero consentito.
Questo è accaduto. Nonostante la mitica task force piena zeppa di tecnici e nonostante il tentativo di camuffare tutto ciò con la necessaria riapertura unitaria.
Finiamola con il discorso “Gli altri Paesi seguiranno il nostro modello perchè è quello giusto”. Altri Paesi hanno fatto fronte al virus in maniera diversa e nettamente migliore rispetto alla nostra. Altri paesi stanno gestendo la ripartenza in maniera diversa e nettamente migliore rispetto alla nostra. Diciamoci la verità e, ogni tanto, cerchiamo di imparare anzichè pensare di insegnare.
Quella del 4 Maggio, l’inizio della fase2, era una data importante, dove gli italiani avevano riposto tanta fiducia e aspettativa.
Non si pensava ad un ritorno alla normalità, bensì all’inizio della strada verso la nuova normalità; quella di convivenza con il virus. Come lo stesso Presidente del Consiglio ci aveva detto. Ci si sentiva pronti a confermare, una seconda volta, il grande senso civico dimostrato sin quì. Essere sminuiti come affamati di party privati, ci ha fatto male. È chiaro, tutti avevamo programmato di rivederci, ma era bello sentire gli amici dire: “Si raga’ ci vediamo, però manteniamo le distanze, sennò tutti questi sacrifici risulteranno inutili”. Non era più il momento del: “Ma che ci frega, ma che ci importa”. Queste settimane hanno trasmesso consapevolezza e il non riconoscerlo ci ha fatto male.
Concederci, dopo due mesi di lockdown, un parco pubblico o di andare a correre, vuol dire concederci ciò che, ad esempio in Germania, è consentito dal primo giorno di quarantena.
Concederci di fare visita ad un congiunto, è il frutto di una visione paternalistica. Non è il Presidente del Consiglio che ci deve dire a chi vogliamo fare visita. Non decide lui chi sia importante incontrare per noi. Ci deve dire come stare con le persone, e basta.
Ubi societas ibi ius, fino ad un certo punto.
Era il momento della politica. Non tanto perchè è troppo tempo che siamo chiusi e bisognava farci contenti, ma per fare un passo in avanti come società; per mettere le fondamenta di quel palazzo meraviglioso che è la fiducia reciproca tra cittadini ed istituzioni. Unico palazzo che realmente ci consente di essere forti e ben saldi durante lo straordinario, e di correre ben sciolti durante l’ordinario.
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