Quando l’italia entra in guerra, Ugo Forno ha otto anni. E’ un bambino come tanti altri cui è stata rubata l’infanzia da un conflitto che è entrato nelle case, che ha trasformato in campi di battaglia campagne e città.
E’ un bambino gracile ma vivacissimo, occhi azzurri e capelli neri. Abita a via Nemorense, a Roma, con il padre Enea Angelo – impiegato all’intendenza di finanza, e la madre Maria Vittoria Sorari. Negli anni 40 il quartiere Trieste-Salario è già un quartiere di ceto medio benestante, ma praticamente al limite di quella campagna che oggi è città.
Lui va a scuola come tutti, frequenta la seconda media. Nella pagella del suo ultimo anno di vita è specificato “di razza ariana” e viene descritto come irrequieto ma intelligente e studioso. Tanto da meritare “buono” come votazione finale. Anzi l’insegnante, accanto all’“irrequieto”, aggiunge “generoso” e “felice se può dimostrare quello che sa”.
Quell’anno – il 1944, quando Roma viene liberata – la scuola, era finita a maggio. E Ugo – che adesso ha 12 anni, come tutti i suoi coetanei gira per il quartiere e va a giocare con gli amici in un parco sotto casa, il parco Nemorense. Dove sono disseminate le armi abbandonate dai soldati dopo l’8 settembre 1943. Pochi lo sanno, ma lui lo ha scoperto.
Dalla finestra della sua cameretta il ragazzino, la sera del 3 giugno 1944, sente il movimento delle truppe tedesche. I nazisti stanno scappando. E ventiquattro ore dopo, il 4, si cominciano a sentire gli echi della presenza dell’esercito alleato. Qualche pattuglia di soldati è arrivata fino a villa Savoia (la residenza del re, notoriamente già scappato), oggi villa Ada, a pochi metri dalla casa di Ugo.
I tedeschi, dopo 9 mesi di occupazione, finalmente se ne vanno. Ma in alcune zone di Roma si combatte ancora.
Nelle prime ore del 5 gli americani sono già in forze nel quartiere Trieste. Ugo sgattaiola tra le camionette, come tutti condivide l’eccitazione e la felicità della liberazione. La guerra è finita. E’ finita la paura, la fame, l’odio, il tifo e la scabbia. È finita la grande ondata di violenza ed emozione. Ughetto (gli amici lo chiamano così proprio perché è magrolino) vive quei momenti con la felicità di tutti ma anche con una consapevolezza più grande di lui.
Alla madre (come lei stessa racconterà anni dopo) dice che va da un amico che abita nello stesso palazzo. Ha 12 anni, si deve ancora giustificare con mamma. Poco dopo torna a casa: “ho dimenticato qualcosa”: Maria Vittoria pensa ad un giornalino. Invece lui nasconde sotto il letto due pistole prese proprio nel parco Nemorense. Poi riparte.
Arriva poco lontano da casa sua, a piazza Vescovio, che è su una collinetta dalla quale si domina la valle dell’Aniene e un ponte ferroviario della linea che porta al nord. Sente parlare degli uomini: “i tedeschi stanno sabotando il ponte salario, stanno a sparà a villa savoia, no so’ i partigiani, ma ‘sti americani quando arriveno? “ La confusione è grande, le ore sono concitate. Ma Ughetto capisce. E decide.
Sotto l’altura di piazza Vescovio ci sono delle grotte. Anche lì i soldati italiani in fuga dopo l’8 settembre hanno nascosto delle armi. Ugo lo sa. Va verso una casa colonica – oggi la zona è un normale quartiere romano, ma nel 44 era tutta campagna.
Non è solo, ci sono dei ragazzi con lui. Chiede ai contadini di unirsi a loro perché bisogna salvare il ponte che dovrà essere utilizzato dagli americani per continuare l’avanzata verso nord. Sei di loro lo seguono, hanno anche loro pistole tedesche raccattate per strada. I soldati del fuhrer, mentre scappavano, lasciavano spesso armi e munizioni per avere meno impicci. Sono Antonio e Francesco Guidi, figli del proprietario della casa colonica, Luciano Curzi, Vittorio Seboni e Sandro Fornari. Tutti testimonieranno dell’eroismo del ragazzino.
Ughetto imbraccia un fucile quasi più alto di lui, si comporta come un piccolo capo e loro lo seguono.
Sparano da quello che oggi è un tranquillo giardino, con tanto di giochi per bambini. Lo scontro è furioso. I tedeschi stanno mettendo le mine al ponte e capiscono subito che a sparare sono partigiani e non gli alleati, ma ormai non c’è più tempo. Devono proprio scappare e subito, lasciano perdere il ponte. Però con loro hanno un mortaio e per coprirsi le spalle, sparano tre colpi.
Uno ferisce Antonio Guidi, che morirà poco dopo. Aveva 21 anni. L’altro prende in pieno Ugo. Muore sul colpo, ma il ponte è salvo. È l’ultima vittima romana degli ultimi tedeschi in fuga. L’ex presidente della Repubblica Napolitano gli ha conferito la medaglia d’oro al valor civile. In suo ricordo c’è una targa nel parco nemorense e un’altra nel ponte della ferrovia salvata da Ugo.
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