600.000 posti di lavoro già perduti per effetto della chiusura delle attività industriali produttive commerciali turistiche ecc. dovuta alla pandemia. E’ solo l’inizio.
La pandemia non accenna a finire e la prospettiva economica è incerta. Pesa la situazione della cassa integrazione, con un numero imprecisato di lavoratori ad essa tributari e l’incertezza della sua estensione a fine anno, con l’aggravante che le imprese dichiarano di non essere più in grado di anticipare il dovuto ai rispettivi dipendenti.
Il governo sta valutando la possibilità di bloccare i licenziamenti fino al 31 dicembre, ma da parte della Confindustria si fa presente che la situazione non regge e chiede mano libera per procedere a licenziare (significativo il titolo del suo quotidiano, Il Sole 24 Ore, di giovedì u.s. che dice “No al blocco”).
Le tre maggiori organizzazioni sindacali che restano, Cgil Cisl e Uil, se il quadro non cambia minacciano il ricorso allo sciopero generale.
Come se ne esce? Nessuno ha la ricetta giusta, ma forse è peggio, perché nessuno sembra avere una ricetta quale che sia. Si attende l’elaborazione di un “piano strategico” che, partendo dai propositi espressi durante gli “Stati Generali” di Villa Panphili, si traduca in progetti veri da presentare all’Unione Europea entro il prossimo mese di ottobre, per poi avviare i cantieri.
Stavolta, nessuno potrà prendersela con l’UE, giacchè essa ha messo a disposizione dell’Italia, tra contributi a fondo perduto e prestiti, oltre 200 miliardi di euro, a cui aggiungere la disponibilità di altri circa 35 miliardi da trarre sul Mes, quest’ultimi da destinare al sistema sanitario.
Chi è in grado di fare passi avanti? Il governo o il parlamento che rivendica un suo coinvolgimento? Si spera non prevalga il comportamento dell’asino di Buridano, nel senso che nelle opposte o congiunte rivendicazioni entrambi restino fermi.
Il presidente del consiglio Giuseppe Conte, piaccia o no, è riuscito in un compito imprevisto se non impossibile, quello di raggiungere, in sede europea, un risultato favorevole all’Italia, oltretutto con un ‘intervento posto ampiamente a carico di un indebitamento solidale dell’UE, cosa mai vista prima.
Ma, qui comincia il problema. Ed è tutto interno alla politica italiana, con un’opposizione che ha mal digerito il successo e non si capacita di pretendere un progetto di unità nazionale almeno su questi temi dell’economia e dell’occupazione.
Stesso teatrino nella maggioranza, dove tra Movimento 5Stelle e Pd il gioco è a farsela, fino – si teme – a condurre ad un nulla di fatto sui grandi progetti per finire alla politica degli interventi a pioggia e delle mance sociali.
Il premier Conte, non sarà e forse non è un grande statista, ma da l’idea di superare di molte spanne i personaggi che lo circondano. Si prenda il segretario del Pd, Zingaretti, non il commissario Montalbano, ma il fratello regionale, il quale nei giorni scorsi se ne è uscito con una frase che la dice lunga sulla sua affidabilità politica, eccola: con i soldi che abbiamo “CONQUISTATO” a Bruxelles potremo fare questo e quell’altro.
La questione non è aver utilizzato un verbo sbagliato, “conquistare” anziché “ottenere” un risultato positivo al termine di un complesso negoziato, ma il valore semantico dell’uscita che evidenzia la natura voler procedere di conquista in conquista, fin dove e perché cosa, anziché la capacità di impegno e di lavoro per raggiungere obiettivi estremamente difficili come il rilancio dell’economia e la ripresa dell’occupazione. Emerge dunque la paura accennata qualche riga prima, l’idea di una spartizione delle risorse piuttosto che un progetto di ricostruzione e rinnovamento dell’Italia. Si è veramente alla fine della politica.
Un’osservazione non dissimile, purtroppo, va fatta anche nei confronti delle confederazioni sindacali: la minaccia di uno sciopero generale invece della proposta di un grande e soprattutto moderno piano del lavoro e di ripresa. L’antico segretario della Cgil unitaria Giuseppe Di Vittorio si rivolterà nella tomba.
Dove sta la massa di milioni di operai che muovevano da Torino da Milano da Genova? Sostituiti da qualche migliaio di pensionati che si trova sempre da portare in gita, con l’aggiunta di altri per il reddito di cittadinanza.
Bella risposta a decisioni come quella presa dalla Fiat di chiudere la collaborazione con la miriade di imprese italiane fornitrici di componenti che non saranno più montate sulle automobili del marchio ex torinese. Altri 50, 60 mila posti di lavoro che da settembre andranno in fumo. E cosa dice in proposito il governo che, appena due mesi or or sono, aveva garantito tramite la Sace un prestito di 6,3 miliardi di euro, concesso da Banca Intesa a Fca (ex Fiat), destinato a finanziare esclusivamente le attività italiane del gruppo e sostegno dell’intera filiera dell’auto in Italia?
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