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L’Uomo qualunque e Guglielmo Giannini

Si possono riscontrare nel Fronte dell’uomo qualunque, il partito fondato da Guglielmo Giannini, i prodromi del Movimento 5 Stelle? Similitudini e differenze, populismo e qualunquismo, la ricostruzione dell’ascesa e caduta di un partito politico.

Roma, 1944, il 4 giugno le truppe alleate sono entrate nella città, dove la confusione regna al massimo. La fine del regime fascista ha determinato una situazione di incertezza sul futuro che il governo presieduto da lvanoe Bonomi, trasferitosi da Bari, non ha né la forza né la capacità di dissipare.

Incombe sui dipendenti pubblici l’epurazione, mancano i rifornimenti alimentari, la principale attività economica è ancora la borsa nera. Prosperano le iniziative politiche con la costituzione di effimeri partiti e movimenti, tutti sembrano avere la soluzione per uscire dalla crisi e ne dibattono (o fingono di dibatterne) nei comizi volanti sotto la Galleria Colonna.

Guglielmo Giannini

Tra coloro che cercano una nuova collocazione in un mondo che sta cambiando a ritmo accelerato c’è anche Guglielmo Giannini, scrittore di operette prima e di commedie dopo, autore del testo di fortunate canzoni come “Mariuska”, e con lo pseudonimo di Zorro, della “Canzone dei sommergibilisti” che aveva avuto straordinaria fortuna negli anni della guerra.

Nato a Pozzuoli nel 1891, figlio di un giornalista (Federico) di tendenze anarchiche, autodidatta. Giannini aveva partecipato alla 1° guerra mondiale ed a quella libica ed aveva esercitato diversi mestieri (muratore, commesso in un negozio di tessuti) prima di dedicarsi al giornalismo e poi al teatro.

Le sue commedie, prima brillanti e poi poliziesche, erano rappresentate con successo, a partire da “Grattacieli”, andata in scena al teatro Orfeo di Roma nel 1931 con la compagnia Mascalchi.

Nel 1937 aveva iniziato anche la sua attività di sceneggiatore e regista cinematografico collaborando alla sceneggiatura di alcuni film tra i qualiGatta ci cova” diretto da Gennaro Righelli ed interpretato da Angelo Musco e Rosina Anselmi. “Il re burlone”, “Pensaci, Giacornino”, “Fermo con le mani”, con Totò, e “Re di denari”. Tra il 1939 e il 1943 fu anche regista cinematografico (“Duetto vagabondo” “Il nemico” , “Grattacieli”,Quattro ragazze che sognano”).

In gioventù era stato redattore capo di “Contropelo” direttore de Monocolo” e più avanti fondatore e direttore della rivista cinematografica “Kines”, tutte pubblicazioni che avevano avuto breve vita.

Nel 1944 Giannini era senza lavoro, affascinato, come un po’ tutti gli intellettuali in quel momento, dalla politica: era certamente antifascista, anche se iscritto al P.N.F. nel 1941, era stato prima comunista (v. Uq, 3 aprile 1946) e poi liberale, con vive simpatie per F. S. Nitti, tanto da fondare nel 1914 un giornale (“Il risveglio”) per appoggiare la sua lista (“Blocco popolare”) contro il Fascio liberale dell’ordine (v. Del Bosco).

Durante l’occupazione tedesca di Roma, dal settembre 1943, aveva diffuso “La voce repubblicana” e un giornale (“1799”) di cui era lui stesso per larga parte il finanziatore.

La folla, il popolo, il populismo

Tra il settembre 1943 e i primi mesi dell’anno successivo aveva scritto una sorta di trattato politico – filosofico (“La Folla: seimila anni contro la tirannide”) che arriverà a vendere 29.000 copie e diventerà una sorta di Bibbia del movimento politico che Giannini fonderà.

La tesi sostenuta nel libro era molto semplice: la “follache è “il vero popolo”, è vessata dai politici professionali e costretta a subire guerre, lutti e miserie: occorre pertanto ridurre le funzioni dello Stato, di cui si sono impossessati i politici, a semplice amministrazione affidata alla burocrazia, controllata da politici estratti a sorte per un tempo limitato e perciò non professionisti.

Erano affermazioni di sapore anarcoide, con largo ricorso al paradosso, per suscitare l’attenzione del lettore ma che tuttavia rispondevano a sentimenti largamente diffusi in una pubblica opinione preoccupata per quanto stava accadendo, disorientata dal crollo delle antiche certezze e timorosa di un nuovo ordine di cui si faceva gran parlare e che alla piccola e alla media borghesia sembrava carico di minacce.

Il Governo Parri, costituito nel giugno 1945 ed espressione del C.L.N., lasciava intravedere riforme strutturali della società e dello Stato in chiave non solo antifascista ma decisamente orientate a tagliare alla borghesia i suoi (veri o presunti) privilegi a favore della classe operaia. Era il significato attribuito al ventilato cambio della moneta ed alla imposta straordinaria sul patrimonio sostenuta dal comunista Scoccimarro, Ministro delle finanze.

L’epurazione, che colpiva pesantemente i dipendenti pubblici di grado meno elevato la cui adesione al fascismo era stata spesso più formale che sostanziale, privandoli di qualsiasi fonte di reddito mentre ancora trionfava la “borsa nera”, acuiva il risentimento contro il Governo.

I disordini e le violenze si susseguivano senza che nessuno apparisse capace di restaurare l’ordine pubblico, anche per l’assenza di una classe politica matura che al di fuori di ogni massimalismo, causa principale del disagio della borghesia, sapesse interpretare ciò che il Paese si attendeva e rassicurarlo sul futuro.

I superstiti della vecchia classe politica prefascista sembravano tornati alle vecchie polemiche, spesso personali, interrotte dal fascismo. Mentre i partiti del C.L.N. si preoccupavano più di dare corpo alle istanze di libertà e di uguaglianza sociale che avevano animato la lotta contro il fascismo che di verificare, specie nelle regioni del centro – sud dove l’esperienza della Resistenza era stata breve ed episodica, l’aggregazione di un vasto consenso su riforme destinate a cambiare totalmente l’assetto politico e sociale del Paese.

Giannini era un uomo di spettacolo, non un politico: era la sua forza ed insieme la sua debolezza. Subito dopo l’ingresso delle truppe alleate a Roma tentò di inserirsi nel partito repubblicano, ma ne restò deluso: spiegherà negli anni successivi (G. Giannini. Piccolo mondo repubblicano, Uq, 3 aprile 1946) che con la stessa disinvoltura sarebbe potuto entrare per servire l’Italia “nel partito comunista, monarchico, repubblicano, democristiano, azionista, socialista, liberale, trotskista”.

L’uomo qualunque

Ottenne quasi inaspettatamente alla fine del 1944, l’autorizzazione della Commissione nazionale per la stampa a pubblicare un settimanale, “L’uomo qualunque“: aveva chiesto invano di pubblicare “L’uomo della strada” e “Novelle poliziesche” che avrebbe dovuto essere un giornale di critica politica attraverso racconti polizieschi con personaggi dietro i quali si celavano uomini politici di rilievo.

Fondò una società con il tipografo Umberto Guadagno e con i fratelli Michele e Salvatore Scalera, che fornirono parte dei mezzi finanziari necessari per l’impresa, e il 27 dicembre uscì il nuovo settimanale stampato nello stabilimento tipografico Guadagno in Via del Grottino a Roma (oggi non più esistente).

Nella testata, disegnata da Giuseppe Rossi (“Girus”) c’era accanto al titolo con la U iniziale rossa, un omino schiacciato sotto un enorme torchio. La vignetta in prima pagina era disegnata da Livio Apolloni: sue saranno tutte quelle successive, che in pochi tratti sintetizzavano il contenuto di ciascun numero.

Guglielmo Giannini

Il giornale era scritto per larga parte dallo stesso Giannini. Tra i collaboratori vi era anche Massimo Bontempelli, un tempo futurista, Accademico d’Italia e al tempo stesso critico verso il regime fascista: sarà tra gli eletti alla Camera dei deputati nel 1948 nella lista del Fronte popolare ma la sua elezione sarà annullata per i trascorsi fascisti.

Il settimanale ebbe subito grandissimo successo – del primo numero furono in due giorni vendute ottantamila copie – anche per il tono aggressivo degli articoli in cui erano espresse dure critiche nei confronti degli uomini politici più in vista.

Gli attacchi erano ai “Bonzi del C.L.N. che non hanno liberato che se stessi dai conventi dov’erano nascosti” (Uq. 17 gennaio 1945) ma anche all’epurazione e all’antifascismo che non aveva difeso il Paese dal fascismo nel 1922 (Uq, 27 dicembre 1944).

Giannini e l’accusa di collaborazionismo con il regime fascista

Il 5 febbraio 1945 Ruggero Grieco, comunista, alto commissario aggiunto per l’epurazione, deferì Giannini alla commissione di primo grado per la revisione dell’albo dei giornalisti accusandolo di collaborazione con il regime fascista.

Il 27 febbraio successivo la Commissione sospese Giannini dall’esercizio della professione in attesa del giudizio. Quasi contemporaneamente il 20 febbraio 1945 il prefetto di Roma Giovanni Persico, su ordine del Sottosegretario alla stampa e propaganda Libonati (liberale), emanato in base ad una deliberazione della Commissione nazionale per la stampa, revocò l’autorizzazione alla pubblicazione del giornale in quanto “insidioso per lo sforzo bellico della nazione”.

L’accusa era fondata sulla critica di Giannini all’intervento dell’Italia in guerra a fianco degli Alleati (Uq, 17 gennaio 1945). I trascorsi fascisti di Giannini erano invece individuati nelle sovvenzioni ottenute nel 1937 – 38 da una sua compagnia teatrale per la rappresentazione di due commedie da lui scritte (‘Maschi e femmine”, “Il pallino di Sambuco”) da parte della compagnia Stivai – Cellini – Ninchi, e nell’aver paragonato Mussolini a Lorenzo il Magnifico in una lettera a Pavolini del 10 agosto 1940.

In una “Autodifesa pubblicata nel 1945 Giannini affermò anche di aver scritto una commedia fascista (“L’angelo nero”) rappresentata nel 1935 al Teatro Odeon di Milano con scarso successo di pubblico ed una (“Il miliardo”) che era “fascista e comunista nello stesso tempo” e che non fu rappresentata.

Già Mussolini, in un articolo su “Corrispondenza repubblicana” dell’11 novembre 1943, prendendo spunto da una lettera di Giannini pubblicata sull'”Osservatore romano” nell’agosto 1943 in difesa della borghesia, lo aveva incluso per i contributi teatrali percepiti tra i “Canguri giganti”.

Era un po’ poco per motivare l’esclusione dall’albo dei giornalisti, provvedimento adottato contro persone come Concetto Pettinato, Bruno Spampanato, Carlo Scorza, Luigi Federzoni e Vittorio Mussolini che avevano ben più intensamente di Giannini sostenuto il regime fascista.

Giannini reagì con estrema decisione: acquistò da Guadagno e dai fratelli Scalera tutte le azioni della società editrice, “L’uomo qualunque”, che continuò ad essere pubblicato con la direzione di “Girus”, mentre Giannini era indicato come il “fondatore”.

Il Consiglio di Stato aveva disposto già l’11 aprile la sospensione del decreto prefettizio che revocava l’autorizzazione alla pubblicazione del settimanale. Il 16 maggio successivo la Commissione per la revisione dell’albo dei giornalisti concluse il procedimento contro Giannini applicandogli la sanzione della “sospensione di un mese, col significato della censura solenne”.

Giannini vittima della persecuzione antifascista?

Per Giannini fu una grande vittoria, non solo perché gli consentiva di continuare la pubblicazione del settimanale, ma soprattutto in quanto si imponeva alla opinione pubblica moderata come vittima della persecuzione antifascista, facendone il quasi naturale punto di riferimento per coloro che erano sottoposti al procedimento di epurazione e, più in generale, di chi aveva avuto una qualche simpatia per il fascismo e si trovava in una situazione difficile nel mutato clima politico.

Giannini negò ripetutamente sul suo settimanale di avere simpatie per il fascismo. Esaltò la Liberazione e “l’eroismo e la serietà del Nord” (Uq, 2 maggio 1945) ma al tempo stesso si schierò contro la classe dirigente che la Resistenza aveva espresso, colpevole di minacciare l’attività e le iniziative degli imprenditori capaci che erano per Giannini i veri artefici del progresso.

L’Uomo qualunque: 850.000 copie vendute

Nel febbraio 1945 “L’Uomo qualunque” raggiunse la tiratura di 850.000 copie: ad esso, dal 30 dicembre 1945 si affiancò un quotidiano, “Il buonsenso”, con due edizioni, una romana e una milanese, diretta quella romana da un ex partigiano (Ettore Basevi).

Ormai Giannini era il capo riconosciuto di un vasto movimento di opposizione, dai connotati politici piuttosto incerti e con un programma politico ancora indefinito. Era questa una debolezza di cui l’uomo di teatro, privo di una vera esperienza politica, si rendeva ben conto, tanto da tentare di avere dalla sua parte uomini politici di indiscussa esperienza come Croce, Orlando e Nitti, ottenendone però un rifiuto.

Cercò un collegamento con il partito liberale, ma non ebbe alcuna risposta, benché non tralasciasse occasione per esprimere le sue simpatie per il liberalismo. Sempre più insistenti divenivano invece i tentativi degli ex fascisti di infiltrarsi nel movimento qualunquista per assumerne il controllo, favoriti in ciò anche dall’assenza di un preciso programma politico.

Alla fine dell’ottobre 1945 furono arrestati i fratelli Michele e Salvatore Scalera, che erano stati insieme al tipografo Guadagno soci della società proprietaria del settimanale (poi divenuto interamente proprietà di Giannini). L’accusa contro gli Scalera era di aver finanziato la marcia su Roma: Giannini comprese che il rapporto con gli ex fascisti era un punto debole del movimento e temette di essere arrestato anche lui con l’accusa di ricostituzione del partito fascista.

Giannini e l’idea di fondare un partito politico: Fronte dell’Uomo qualunque

Si rifugiò in un appartamento di una persona amica in Via della Mercede e ritenne necessario un chiarimento che servisse anche ad allentare la pressione degli ex fascisti: decise perciò di dare vita ad un vero e proprio partito politico, per il quale scelse la denominazione di Fronte dell’Uomo qualunque, ne predispose il programma politico e lo fece pubblicare sul settimanale del 7 novembre 1945.

Era un programma che riprendeva le tesi già espresse nel volume “La folla”, pubblicato l’anno precedente: affermazione delle libertà fondamentali dell’individuo. ripudio della violenza, fiducia nelle libere elezioni, istituzione di uno “Stato amministrativo” (che poteva essere indifferentemente una monarchia o una repubblica), autonomia dei tre poteri (legislativo, esecutivo e giudiziario) con una “Suprema Corte Costituzionale alla quale poteva ricorrere ogni cittadino per le violazioni della Costituzione”, massima libertà per l’individuo, anche in campo economico e nessuna ingerenza dello Stato nell’economia.

Era prevista la eliminazione dei vincoli esistenti per le industrie e le banche, si esprimeva fiducia nella mezzadria e si prendeva posizione contro il cambio della moneta per prelevarne coattivamente una parte.

Esclusa la possibilità di una politica estera di forza, date le condizioni del Paese, si affermava la disponibilità a “rinunciare a quanto fu male acquistato dal fascismo”, con chiaro riferimento alle colonie.

A proposito della “questione sociale” il programma qualunquista negava la possibilità stessa di individuazione di classi sociali per pronunciarsi a favore di una “individuale sproletarizzazione del proletariato”, coerente con il più volte affermato liberalismo del movimento.

Si trattava chiaramente di un appello ai ceti medi di cui il movimento, nelle intenzioni di Giannini, avrebbe dovuto essere l’espressione.

La crisi (dicembre 1945) del Governo Parri fornì l’occasione a Giannini per proporre, qualora fosse fallito il tentativo di De Gasperi di formare il suo primo Governo, l’affidamento a Orlando della Presidenza del Consiglio con De Gasperi agli Esteri, Ruini ai Lavori Pubblici, De Nicola o Tupini alla Giustizia e Nitti al Tesoro e alle Finanze riuniti: le designazioni agli altri ministeri erano altrettante provocazioni per i comunisti (ai quali sarebbe dovuta toccare l’alimentazione “loro che sono così bravi a nutrire i popoli”), i socialisti (che avrebbero dovuto avere il ministero del lavoro “dato che pretendono di rappresentarlo tutto e in esclusiva”) e il partito d’azione (proposto per il ministero delle Comunicazioni “loro che sanno così bene trafficare”).

L’origine del qualunquismo

Malgrado la formulazione di un programma politico il “qualunquismo” (la definizione era stata tratta da Giannini dalla rivista fiorentina “L’Arno”) che uscì nel 1945 (copia è ancora disponibile presso la Biblioteca nazionale di Firenze) restava ancora una opposizione anarcoide, insieme con la denuncia della profonda insoddisfazione dei cittadini rispetto a chi aveva assunto il potere.

Al tempo stesso però il Fronte dell’uomo qualunque era divenuto una componente del complesso gioco politico che si svolgeva nel periodo immediatamente precedente l’elezione per l’Assemblea Costituente.

Giannini aveva stretti rapporti con la Confindustria e direttamente con alcuni grandi industriali italiani, di cui esitò sempre a fare i nomi, era in relazione con Giovanni Battista Montini, il futuro Paolo VI, in quegli anni alla Segreteria di Stato Vaticano, ed incontrava segretamente De Gasperi, presso Mons. Roberto Ronca, Rettore del Pontificio seminario maggiore ed espressione di quella parte della Curia che avrebbe visto volentieri la costituzione di un secondo partito cattolico, più decisamente anticomunista della Democrazia Cristiana.

Le pressioni in questo senso indussero il Vaticano a finanziare con 30 milioni Giannini, ciò che però non smosse De Gasperi dalle sue convinzioni, nemmeno quando (1947) mons. Ronca annunciò la costituzione di un “movimento apartitico di influenza politica” con un proprio giornale (“Civiltà italica”) che avrebbe dovuto costituire la base per il nuovo partito cattolico.

I legami del prelato con Giannini rimasero forti: sarà proprio Mons. Ronca, nominato vescovo di Lepanto e Prelato nullius di Pompei. ad intervenire quando Giannini, dopo la chiusura del quotidiano “Il Buonsenso” di cui era amministratore unico, si troverà sommerso da una montagna di debiti: il monsignore farà intervenire un liquidatore che sistemerà la situazione evitando a Giannini una denuncia per bancarotta fraudolenta.

Rapporti politici Giannini aveva anche con uomini della Democrazia Cristiana che vedevano criticamente la collaborazione al Governo con i comunisti e cercava di accreditarsi nel mondo cattolico, tanto da annunciare, (Uq, 12 settembre 1945) che l’organizzazione vaticana (“L’aiuto cristiano”) assumeva per conto del Fronte l’assistenza caritativa, in quel momento molto importante anche sotto il profilo politico.

L’appello alla collaborazione lanciato alla D.C. per la costituzione di un “Fronte dell’ordine” (Uq, 10 ottobre 1945) non ebbe però risposta, così come non l’aveva avuta l’appello analogo rivolto al partito liberale.

Né i democristiani né i liberali ignoravano che i sostenitori del Fronte dell’uomo qualunque erano soprattutto i ceti medi che avrebbero dovuto costituire l’elettorato quasi naturale dei loro partiti: mentre i liberali però erano intenzionati ad uscire dalla maggioranza di Governo ritenendo inaccettabile che di quella maggioranza facessero parte anche comunisti, De Gasperi (e con lui la maggioranza dei democristiani) non intendeva per il momento estromettere il P.C.I. dal Governo, sia per le ripercussioni che ne sarebbero potute derivare sull’ordine pubblico, sia perché si sentiva impegnato dal patto stretto con i comunisti nella Resistenza a favore di una ampia politica di riforme, fondata sulla collaborazione tra i due partiti (Togliatti, nel 1963, nel suo libro “Il nuovo Stato” parlerà di “lunghe sedute” avute nel 1944 con De Gasperi), sia infine perché una rottura avrebbe reso più difficile (ed in ciò concordava anche il Vaticano) l’accettazione e la conferma da parte del nuovo Stato dei patti lateranensi.

Il 16 febbraio 1946 si svolse a Roma, presso la città universitaria, il primo congresso nazionale del Fronte che approvò il programma politico con alcune correzioni rispetto a quello originario di Giannini, sottolineando ancora una volta l’esigenza di tornare all’iniziativa privata, di difendere la proprietà e di salvaguardare l’ordine pubblico.

Appariva anche nel programma un accenno alla compartecipazione agli utili dell’impresa da parte dei lavoratori, senza alcuna ingerenza nella conduzione dell’azienda, si proclamava la intangibilità dei confini nazionali e si auspicava la trasformazione della Venezia Giulia, di cui la Jugoslavia chiedeva l’annessione, in uno “Stato commerciale e industriale franco e autonomo”.

Il congresso terminò con la costituzione del Fronte in partito politico, di cui Giannini restava al vertice, con un programma caratterizzato da uno scarsissimo contenuto ideologico in funzione dell’aggregazione del maggior consenso possibile: già nel mese successivo (Uq, 6 marzo 1946) Giannini giunse ad affermare che potevano essere iscritti al Fronte anche tutti coloro che avessero la tessera di un altro partito, fatta eccezione per comunisti e socialisti, per i quali era necessario un esame della domanda di adesione da parte dell’Ufficio politico centrale del Fronte stesso.

Fronte dell’uomo qualunque alle elezioni per Assemblea Costituente: quarto partito italiano

Le elezioni per l’Assemblea Costituente segnarono una forte affermazione del Fronte dell’uomo qualunque: ebbe più di 1.200.000 voti, il 5,3% degli elettori e ben 32 seggi. Nei mesi successivi aderirono al gruppo parlamentare del Fronte altri cinque deputati, quattro eletti nel Blocco Nazionale della libertà e uno nelle liste dell’Unione democratica nazionale, tutti monarchici.

Il Fronte era ormai il quarto partito italiano, dopo la D.C., il P.S.I., il P.C.I. e la monarchica Unione democratica nazionale. Il successo fu particolarmente importante nelle regioni meridionali, dove il Fronte ebbe il 9,7 per cento dei voti, e in Sardegna, dove raggiunse il 12,4 per cento.

Elezioni amministrative del 1946: Fronte dell’uomo qualunque secondo partito a Roma e Napoli

Era un campanello d’allarme per i partiti moderati ma l’onda era ancora lunga: alle elezioni amministrative del novembre 1946 il risultato fu ancora più clamoroso: a Roma e a Napoli il Fronte dell’uomo qualunque risultò il secondo partito per numero di voti, dopo il Fronte popolare e prima della D.C., ed il primo a Catania, Bari, Lecce e Palermo.

Gli attacchi degli altri partiti si fecero più pesanti, ad eccezione del P.D.I., filomonarchico: grandi giornali di informazione, ad eccezione de “Il Tempo” di Roma, diretto da Renato Angiolillo, grande amico di Giannini, si schierarono tutti contro i “qualunquisti” che pure disponevano di numerosi giornali (oltre a “L’uomo qualunque ed a “Il buonsenso”, appoggiavano Giannini “La donna qualunque”, diretto da sua figlia Yvonne, ex partigiana, “Il politeama” diretto da Gherardo Tieri, figlio del commediografo Vincenzo, che di Giannini era fra i più diretti collaboratori politici, “L’europeo qualunque”, diretto dallo stesso Giannini e una trentina di giornali locali come “Il torchio campano” di Salerno, “La Vespa” di Pavia, “La Mosca” di Campobasso e “La siringa” di Novara).

Tuttavia i successi elettorali non condussero ad un rafforzamento del Partito, sia in quanto la costituzione del M.S.I. (1946) dava ormai agli ex fascisti un punto di riferimento molto più chiaro di quanto lo era il Fronte con le sue ambiguità, sia perché la D.C. sembrava ormai decisa a rompere i rapporti con il P.C.I. nella prospettiva di recuperare i voti moderati, contrari alla collaborazione con le forze di sinistra.

Si trattava però solo di una linea di tendenza: i tempi per una decisione drastica non erano ancora maturi. II 17 maggio 1946 su “Il popolo” Andreotti, che di De Gasperi era il più stretto collaboratore, dichiarò impossibile un accordo politico con le forze politiche di destra (e quindi anche con il Fronte) per “cieca paura della riforma dell’ordine economico”.

Anche il Governo De Gasperi (luglio 1946) fu costituito con la partecipazione dei comunisti, ma senza i liberali, ormai decisamente schierati sul fronte anticomunista anche per rassicurare gli industriali, timorosi di una politica economica di nazionalizzazioni.

A Roma ancora nel novembre 1946 la D.C. rifiuta di fare il gran passo dell’alleanza con il Fronte: il sindaco democristiano Salvatore Rebecchini, eletto con i voti del suo partito e dei “qualunquisti” si dimise (11 dicembre) e venne nominato un Commissario prefettizio: un anno dopo lo stesso Rebecchiní formerà una Giunta con quattro assessori (tre elettivi e uno supplente) del Fronte, entrato a far parte della maggioranza.

I tre assessori (l’ammiraglio Umberto Monaco, l’ex questore Solimando e il Prof. Mario Ferraguti) nell’ottobre 1950, dopo la crisi dei rapporti tra il Fronte e la D.C. rifiutarono di dimettersi dalla Giunta e furono espulsi dal Fronte stesso.

Il 13 – 14 dicembre 1946 il Fronte tenne il suo secondo congresso nazionale a Roma: viene approvata con 92 voti favorevoli, 45 contrari e tre astensioni il mutamento della denominazione del partito che si assunse la denominazione di Fronte democratico liberale dell’uomo qualunque, bloccando la proposta di Emilio Patrissi di sostituire “democratico sociale” con “socialdemocratico”.

L’avvicinamento alla DC, l’ammiccamento al PCI

La prospettiva politica era infatti la fusione con il P.L.I. per cercare di condizionare la D.C. ad una alleanza su posizioni di maggiore forza. ll P.L.I. bocciò però il 12 dicembre la proposta di fusione di Vincenzo Selvaggi, che si dimise polemicamente dal partito e passò al Fronte, facendo confluire in esso il suo Partito democratico italiano, di tendenza liberale.

La reazione di Giannini al rifiuto democristiano di un’alleanza fu paradossale ed insieme ingenua: in un’intervista all’agenzia A.N.S.A. del 19 dicembre lasciò intendere la possibilità di un dialogo con il P.C.I. al chiaro scopo di intimidire la D.C. Togliatti in un articolo su “I’Unità” del 22 dicembre 1946, mostrò di raccogliere l’invito, forse per rassicurare la piccola e media borghesia che era la roccaforte dei “qualunquisti”, forse per dimostrare nel dibattito che sarebbe seguito la superficialità del programma politico del Fronte, o addirittura (Gambino) per combattere il “qualunquismo” in aiuto della D.C., in quanto interessato a che essa fosse l’unico interlocutore del P.C.I.

Giannini si sentì gratificato dalla posizione assunta da Togliatti ritenendo che ormai il suo rapporto con il P.C.I. avrebbe costretto la D.C. ad una trattativa: era un errore di calcolo che segnò l’inizio della fine del movimento.

La D.C. continuò a rifiutare almeno ufficialmente qualunque alleanza politica con il Fronte anche per l’opposizione dei suoi alleati di Governo: un tentativo di De Gasperi di operare, alla fine del 1946, una modifica nella composizione del Governo che presiedeva per lasciare spazio a qualche ministro del Fronte trovò la decisa opposizione di repubblicani e socialdemocratici.

Agli inizi del 1947 la situazione politica internazionale era profondamente mutata: iniziava la “guerra fredda” con tutte le conseguenze che ciò comportava nella politica interna, ponendo, prima fra tutti la questione della partecipazione al Governo dei comunisti, in un Paese che, secondo gli accordi di Yalta del 1945 rientrava nella sfera di influenza occidentale.

De Gasperi nel gennaio 1947 formò il suo terzo Governo ancora una volta con i comunisti, ma il 13 maggio diede nuovamente le dimissioni, con la chiara intenzione questa volta di formare un Governo senza i comunisti: il 25 marzo era stato approvato all’Assemblea Costituente l’art. 7 della nuova Costituzione, che recepiva in essa i patti lateranensi, facendo venire così meno la potente arma comunista del voto contrario in proposito.

Il quarto governo De Gasperi (31 maggio 1947) formato con repubblicani ed esponenti del P.S.D.I. partito nato (19 gennaio 1947) da una scissione del P.S.I. ebbe il voto determinante del Fronte, del P.N.M., fondato nel 1946 da Alfredo Covelli, e del P.L.I., senza che i qualunquisti avessero la contropartita in termini di partecipazione al Governo che Giannini aveva richiesto (il Ministero della difesa per Roberto Bencivenga, capo del Fronte militare clandestino durante l’occupazione tedesca di Roma confluito, dopo le elezioni alla Assemblea costituente nelle liste del Blocco della libertà (monarchici), nel Fronte.

De Gasperi fece controproposte (il ministero dell’agricoltura, più qualche sottosegretario, la direzione generale della sanità, un ministro senza portafoglio, forse la vice – presidenza del Consiglio per Giannini) che poi non mantenne, come sostenne “Il buonsenso” del 17 aprile 1947. Probabilmente si trattò solo di vaghe promesse.

Un appunto di De Gasperi dopo un colloquio con De Nicola, Capo provvisorio dello Stato, avvenuto il 24 maggio reca a margine un “Non qualunquisti” che sembra (Gambino) smentire un impegno di De Gasperi per la partecipazione dei “qualunquisti” al Governo, salvo non ritenere che l’appunto si riferisca ad un veto di De Nicola alla partecipazione stessa, atteggiamento che potrebbe trarre ragione dalla preoccupazione del Capo dello Stato di non isolare in tal modo il P.L.I.

La fine de Fronte dell’uomo qualunque

La reazione di Giannini alla esclusione dal Governo fu molto violenta: accusò la D.C. e i suol alleati di slealtà e di mancanza di gratitudine per l’aiuto fornito dal Fronte alla lotta contro le sinistre e minacciò ritorsioni politiche senza rendersi conto che il Fronte andava perdendo credito fra i suoi stessi elettori, che cominciavano a rendersi conto della evanescenza del programma politico e della difficoltà di entrare nell’area di governo uscendo da una sterile opposizione.

Al suo interno andarono nascendo manovre in parte ispirate dai partiti di centro destra, che avevano interesse al dissolvimento del Fronte, ma in parte derivate anche dall’emergere nel suo ambito di ideologie diverse che solo il successo elettorale aveva consigliato momentaneamente di accantonare.

Già nel 1946 Giannini aveva provocato l’espulsione dal partito di alcuni dissidenti, come il segretario del centro provinciale di Milano, Antonio Cruciani, su posizioni nettamente neofasciste: si era trattato però di dissenso che il Fronte aveva potuto riassorbire facilmente.

Non altrettanto semplice la questione si presentò dopo che Emilio Patrissi (eletto deputato alla Assemblea costituente nelle liste del Fronte dopo essere stato Consultore nazionale, designato della Concentrazione democratico – liberale, di tendenza monarchica) rilasciò (13 febbraio 1947) una intervista alla United Press “in cui si parlava di una scissione definitiva” nel Fronte per la tiepidezza di Giannini nella lotta contro il comunismo.

Patrissi, che era, per sua ammissione (Setta), in rapporto con l’ex segretario del P.N.F. Augusto Turati, smentì l’intervista, ma Giannini propose alla giunta esecutiva la espulsione di Patrissi e di altri esponenti del Partito, con l’accusa di aver agito per la disgregazione del Fronte ed a favore di gruppi politici neofascisti.

Per contenere il dissenso, in un discorso al teatro Petruzzelli di Bari il 4 agosto enunciò una sorta di decalogo del partito che risultò tanto vago e privo di contenuto da creare ulteriori perplessità tra gli aderenti al Partito.

Nelle riunioni preparatorie del secondo congresso del Partito, che si svolsero a Roma dal 21 al 26 settembre 1947, Giannini aggiunse alla lista degli imputati Gennaro Patricolo, anche lui deputato all’Assemblea costituente e sindaco di Palermo, che aveva difeso Patrissi ed accusato Giannini di mancare di un “preciso programma, oltre che di gestire il partito con metodi autoritari”.

Al congresso Giannini tentò una appassionata autodifesa, esaltò i suoi meriti passati ed affrontò la questione comunista auspicando che il P.C.I. trovasse la forza di diventare un partito nazionale, condizione questa per una collaborazione con il Fronte. La conclusione fu una minaccia alla D.C. di togliere l’appoggio al Governo De Gasperi.

Fu rieletto presidente dei Partito ma aveva perso chiaramente l’antica autorità: il partito, che era in piena crisi ed andava perdendo anche l’appoggio degli industriali che l’avevano fino a quel momento (anche se moderatamente) sorretto.

Ormai la D.C., dopo la estromissione dei comunisti dal Governo, dava piene garanzie per un quadro politico favorevole al pieno sviluppo dell’industria privata e dell’economia di mercato: il Fronte poteva per gli industriali avere solo la funzione di sorreggere il IV Governo De Gasperi, ciò che invece Giannini non intendeva fare.

La Confindustria, secondo quanto scrisse Giannini alcuni anni più tardi, cominciò a premere perché cessassero le sue critiche ad Einaudi, ministro del Tesoro, ed alla politica di restrizione creditizia da lui voluta. Giannini non accolse l’invito e continuò gli attacchi sperando nella caduta del Governo, al quale ne avrebbe dovuto succedere un altro con la partecipazione dei “qualunquisti”.

Nell’ottobre 1947 all’Assemblea Costituente furono presentate tre mozioni ed un ordine del giorno di sfiducia al Governo: comunisti, socialisti, socialdemocratici e repubblicani erano compatti nel chiedere la fine del IV Governo De Gasperi, comunisti e socialisti sperando in un ritorno ad una maggioranza D.C. – P.R.I. – P.L.I.. e repubblicani e socialdemocratici per avere un ingresso al governo.

Il 2 ottobre Giannini, in un discorso all’Assemblea costituente, pose chiaramente il problema: o il Fronte entrava a far parte del Governo o non avrebbe ancora concesso ad esso la fiducia. La risposta arrivò due giorni dopo con un articolo su “Il popolo”, di Attilio Piccioni, segretario politico della D.C.: il problema se votare o meno la fiducia al Governo era questione del gruppo parlamentare del Fronte.

Il voto di fiducia al governo e la fine del partito qualunquista

Il 4 ottobre, poche ore prima della votazione delle mozioni di sfiducia, Giannini riunì il gruppo parlamentare e constatò che una parte cospicua di coloro che ne facevano parte, con a capo Vincenzo Selvaggi e Guido Russo Perez, era a favore della fiducia.

Si votò e Giannini, contrario, restò in minoranza con 13 voti contro i 18 della maggioranza filo – governativa: fece buon viso e diede disposizione ai SUOI “fedelissimi” di votare a favore del Governo.

Perché ci fu un simile cambiamento di opinioni nel gruppo parlamentare qualunquista? La verità emerse molti anni dopo con la pubblicazione di un volume di memorie di Achille Lauro, proprietario di una importante flotta mercantile, monarchico, già membro della Camera dei fasci e delle Corporazioni.

Racconta Lauro che, su invito di Piccioni, segretario politico della D.C., si recò da Giannini per sollecitare il suo appoggio al Governo. Dopo quattro ore di discussione tornò da Piccioni con una risposta negativa. A questo punto Vincenzo Selvaggi, deputato “qualunquista”, ebbe l’incarico (e secondo Giannini anche “una grossa somma dalla Confindustria senza una ragione precisa”) di convincere uno ad uno i deputati “qualunquisti” al voto favorevole al Governo. Dopo una riunione di Lauro con Piccioni e Paolo Cappa, Ministro della Marina mercantile, in una saletta dell’albergo Moderno, di fronte al palazzo di Montecitorio, si svolse una riunione di tutti i deputati del Fronte, presente Angelo Costa, Presidente della Confindustria.

I deputati chiesero in cambio garanzie per la loro rielezione ma non nelle liste democristiane, “E così, (afferma Lauro) fui costretto a prendere precisi impegni per le future elezioni” senza specificare di quali impegni concretamente si trattò.

I patti furono mantenuti ed il Governo ebbe la fiducia: solo Giannini, fra i “qualunquisti”, votò contro.

I finanziamenti degli industriali al Fronte si interruppero e il 1 novembre “Il buonsenso” fu costretto a sospendere le pubblicazioni, per aver perso le sovvenzioni di cui godeva, come fu chiaramente affermato nell’articolo del suo direttore pubblicato con il titolo “Fascismo bianco”.

Il Fronte fu presto soffocato dai debiti. Giannini ottenne il 7 novembre la fiducia del gruppo parlamentare, ma ben 14 deputati ne uscirono per aderire al nuovo gruppo di Unione Nazionale e uno (Crescenzo Mazza) alla D.C. Altre scissioni avvenivano in periferia. A Roma Vincenzo Tieri formò il Partito qualunquista italiano con un suo giornale (“Il mattino di Roma”).

Giannini su ‘L’uomo qualunque” reagì con furore ma ormai nulla poteva arrestare il disfacimento del suo partito. Alle elezioni per la Camera dei deputati del 1 aprile 1948 il Blocco nazionale, costituito da Fronte e Partito liberale, ottenne il 3,8 per cento dei voti e 19 deputati, solo 5 dei quali “qualunquisti”, che ebbero anche 1 senatore su 7 conquistati dalla lista al Senato.

Giannini non fu rieletto nei tre collegi in cui fu presentato (Roma, Napoli, Pisa): aveva inserito, certo della vittoria in almeno un collegio, la sorella Olga al suo posto nel collegio unico nazionale.

L’11 dicembre 1949, in seguito ad un nuovo conteggio dei voti, Giannini fu proclamato deputato, ma il suo rientro a Montecitorio fu molto triste, abbandonato da tutti e senza più il credito politico che aveva avuto solo due anni prima.

Le cose non andarono molto meglio per i “ribelli”, Selvaggi, espulso dal Fronte, il 18 aprile 1948, si presentò alle elezioni per la Camera dei deputati nelle liste del P.N.M., non fu eletto e fu costretto a sospendere la pubblicazione dei suoi due giornali (“Italia nuova” di Roma e “Il mattino d’Italia” di Milano) per difficoltà economiche: citò allora in giudizio la Confindustria sostenendo l’esistenza di una società di fatto tra lui e la Confederazione.

In un discorso al Teatro Adriano di Roma il 23 ottobre 1949 (Uq. 23 ottobre) Giannini ribadì pubblicamente le accuse di corruzione di Selvaggi da parte della Confindustria, senza ancora conoscere quanto rivelò Lauro alcuni anni dopo: scriverà allora a Costa chiedendogli spiegazioni e riceverà (Memorie di Giannini) una lettera di scuse per quanto era accaduto, “frutto di equivoci ed incomprensioni”.

Era oramai una vecchia storia: già il 29 ottobre 1947 “l’Unità”, dimostrandosi molto bene informata, aveva dato notizia di un ricatto della Confindustria nei confronti di Giannini se non si fosse piegato a De Gasperi, di venti milioni offerti allo stesso scopo a Giannini da Alberto Consiglio per incarico degli industriali napoletani e dell’avvertimento di Costa a Tieri che la Confindustria avrebbe cessato i finanziamenti al Fronte se esso avesse perseverato nella sua linea politica antigovernativa.

Anche Patricolo, pure presente nelle liste del Blocco nazionale, non fu rieletto. Sorte migliore ebbero Russo Perez, che fu eletto alla Camera dei deputati nelle liste del M.S.I. e Alberto Consiglio ed Enzo Coppa, eletti in quelle del Partito nazionale monarchico con l’appoggio di Lauro.

Giannini non abbandonò la politica: continuò a pubblicare “L’uomo qualunque” e nel 1952, in occasione delle elezioni amministrative a Roma, i gruppi cattolici di destra pensarono a lui come capo di una lista di centro – destra che avrebbe dovuto opporsi alla probabile vittoria delle forze di sinistra. Il tentativo non ebbe seguito, così come fallì per l’opposizione di De Gasperi un tentativo nella stessa direzione di Don Sturzo.

Nel 1953 Giannini, che si era espresso a favore della legge elettorale maggioritaria, si presentò nuovamente candidato alle elezioni per la Camera dei deputati del 7 giugno come indipendente nelle liste della D.C. a Napoli ed a Bari, dopo aver rifiutato la candidatura offertagli dal P.C.I., ma non fu eletto.

Negli anni successivi continuò a scrivere commedie cercando di comunicare con esse (in particolare con ‘Il pretore De Minimis”, messa in scena al teatro Odeon di Milano (20 dicembre 1950) da Ruggero Ruggeri, le sue convinzioni politiche. L’ultima commedia fu “Ricatto al fantasma”, andata in scena al Teatro delle Muse di Roma (16 maggio 1959) con la compagnia Dominici – Siletti – Lombardi. Il 5 settembre 1958 la RAI trasmise un suo originale televisivo (“Romeo bar”) interpretato da Ubaldo Lay, Valeria Moriconi e Ivo Garrani.

Nel 1958 tentò ancora una volta di essere eletto a Roma e a Napoli alla Camera dei deputati nelle liste del Partito Monarchico Popolare, fondato quattro anni prima dal suo ex nemico Achille Lauro: fu una ulteriore delusione.

Morì a Roma il 13 ottobre 1960: solo allora “L’uomo qualunque” cessò di essere pubblicato.


Bibliografia

  • G. Giannini, La grande avventura dell’Uomo qualunque, in Enciclopedia del centenario, Napoli, 1960, pag. 164 seg.
  • S. Setta, L’Uomo qualunque, Bari. 1975.
  • G. Pallotta, Il qualunquismo e l’avventura di G Giannini, Milano, 1972.
  • M. Del Bosco, Guglielmo Giannini e l’Uomo qualunque. II Mondo, 18 aprile 1971.
  • A. Gambino, Storia del dopoguerra, Bari. 1975.
  • A. Lauro, La mia vita, la mia battaglia, Napoli, 1958.
  • A. Riccardi, II “partito romano” nel secondo dopoguerra (1945 – 54), Brescia, 1983.
  • F. Malgeri, Storia della D.C., Roma, 1990.
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Mario Pacelli

Mario Pacelli è stato docente di Diritto pubblico nell'Università di Roma La Sapienza, per lunghi anni funzionario della Camera dei deputati. Ha scritto numerosi studi di storia parlamentare, tra cui Le radici di Montecitorio (1984), Bella gente (1992), Interno Montecitorio (2000), Il colle più alto (2017). Ha collaborato con il «Corriere della Sera» e «Il Messaggero».

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