Il secolo scorso che, anche per il grande fervore intellettuale che lo ha caratterizzato, è stato soprannominato “il secolo breve”: mai tante innovazioni culturali e scientifiche e tanti esperimenti politici – alcuni benefici, altri (vedi i paralleli orrori nazista e comunista) tragici -si erano condensati in un solo centennio. Tra le caratteristiche del ‘900 va annoverata la proliferazione, in tutto il mondo occidentale, di grandi umoristi, che sono sempre segno di grande vitalità intellettuale e di forte senso di libertà.
Tra questi, forse, il più grande è stato l’inglese Pelham Grenville (P.G.) Wodehouse. La sua scrittura è – a mio avviso – equivalente sul piano umoristico alla grande poesia dell’argentino Jorge Luis Borges (il quale, a sua volta, – vedi alcuni passaggi della splendida Storia universale dell’infamia o la deliziosa Arte dell’insulto – sapeva essere assai caustico). I due scrittori sono, inoltre, accomunati dall’essere stati colpevolmente sottovaluti dalla comunità culturale per ragioni “politiche”: Borges fu nominato dal governo del generale Vileda, nato da un colpo di mano contro il peronismo, Direttore della Biblioteca Nazionale e, pur diffidato dalla comunità degli autori sudamericani, si recò in Cile per un ciclo di conferenze letterarie durante la dittatura di Pinochet e, per queste ragioni, non gli fu mai assegnato il Nobel (pur essendo, notoriamente, il più grande scrittore del ‘900).
Wodehouse, invece, rischiò l’esilio perché, avendo deciso di rimanere in Francia durante la seconda guerra mondiale ed essendo stato fatto prigioniero dai tedeschi, accettò – allegramente inconsapevole – di rallegrare i suoi compagni di prigionia, raccontando per radio il campo di concentramento come un luogo di vacanze. Entrambi furono difesi da scrittori impegnati ma consci del loro enorme valore letterario: per Borges si spese il “comunista” Pablo Neruda e l’allontanamento dalla patria di Wodehouse fu evitato dagli interventi, tra gli altri, di Evelyn Waugh e George Orwell, i quali convinsero le autorità della sua assoluta distanza dalla realtà, vista sempre e solo con lo sguardo deformante dell’umorismo.
Il poeta argentino spazia dall’eterno mito maschile argentino del tango e del coltello, ad esempio nel capolavoro La casa rosa (cosa avrebbero detto i nostri timbratori del cartellino dell’indignazione di fronte a tale sfrontatezza maschilista!?) alla riproduzioni di versi orientali:
Altri morirono, ma accadde nel passato,
la stagione (nessuno lo ignora) più propizia alla morte.
Possibile che io, suddito di Yaqub Almansur,
muoia come dovettero morire le rose e Aristotele?
Oppure:
Il cerchio del cielo misura la mia gloria
le biblioteche dell’Oriente si disputano i miei versi,
gli emiri mi cercano per empirmi d’oro la bocca,
gli angeli sanno a memoria il mio ultimo zejel.
Miei strumenti di lavoro sono l’umiliazione e l’angoscia:
volesse Dio che fossi nato morto.
Anche qui, benedetto uomo, come puoi permetterti di accostarti alla cultura islamica, addirittura imitandola! Sarai pure il più ispirato poeta del ‘900 ma ai chierici saputelli del politicamente corretto non la si fa. Tutto il loro sapere – e la loro carriera e i loro premiucci – è in quelle quattro trite formulette e guai a scompigliargliele.
Peggio poi l’umorista inglese: i suoi romanzi trasudano divertimento puro, mancano della doverosa critica sociale a senso unico e sono soffusi di ironica affettuosità per le tradizioni inglesi. Wodehouse, quando scrive, è molto meno distratto e vago di quanto la sua biografia faccia pensare. Basti ricordare di come, in Parla mr. Mulliner, sia apparsa la definizione di “uomini-sì”, tuttora usatissima per indicare chi ha la sola funzione di dar ragione al capo (nello scritto – nato dai suoi complicati rapporti di autore con i tycoon del cinema americano – si immaginano degli studios pieni di zelanti uomini-annuitori, anelanti alla promozione al prestigioso ruolo di uomo-sì).
Tutta l’opera di P.G. Wodehouse è – a saperla leggere ed amare – piena di intrusioni anarchiche: e, nel contempo, snob e fuori dagli schemi; ad esempio, uno dei suoi personaggi più riusciti è Psmith (“La P non si pronuncia”, tiene a precisare: non è mica un qualunque Smith) che affronta la vita con piglio personalissimo, pronto a trarre insegnamento da ogni evento (in Lasciate fare a Psmith, dopo aver disarmato un malvivente e averlo minacciato invano con l’arma sottrattagli, chiede incuriosito: “Io sono come un bambino in queste cose ma non dovrebbe succedere che chi è dall’altra parte della pistola alzi le mani?”) o, in Psmith in banca, è assolutamente ed ironicamente equidistante dalla ridicola supponenza altoborghese del suo direttore e dalla retorica laburista del suo proletarissimo affittacamere. Sono anarcoidi gli anziani viveur lord Ickenham, meglio noto come zio Fred e sir Galahad Threepwood; detto Il Pellicano, che sono alla costante ricerca di avventure e sconvolgono le tranquille esistenze di coloro con i quali entrano in contatto, soprattutto la paciosa routine dell’esilarante nobile di campagna Lord Emsworth.
C’è poi il personaggio più noto: Jeeves, valletto colto e geniale del ricco e tonto Bertie Wooster e le loro spassose storie hanno divertito milioni di lettori ma hanno ache chiaramente ispirato Joseph Losey – e il drammaturgo e sceneggiatore Harold Pinter – nella stesura del ferocemente ambiguo Il servo. Questo ad ulteriore dimostrazione dello spessore narrativo di Wodehouse, incomprensibile per le isteriche vestali del politically correct che sono rimaste, intellettualmente (si fa per dire) alle parrocchiali risatine del Pioniere e de Il Giornalino: epigoni marxisti e clericali del meraviglioso Corriere dei Piccoli.
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