Quel 16 ottobre 1943 a Roma pioveva. Una pioggerellina sottile, autunnale coperta dal buio di una mattinata che si sarebbe rivelata ancora più buia. Per gli ebrei, la più buia di tutte. Per l’umanità di chi sa e vuole essere umano, pure. Era ancora l’alba, ma molti uomini nel ghetto non c’erano. Si erano alzati prestissimo perché si era sparsa la voce che quel giorno ci sarebbe stata la distribuzione delle sigarette, un bene, allora, preziosissimo. E tutti erano accorsi dal tabaccaio dell’isola Tiberina, lì vicino, per mettersi in fila e non arrivare quando la preziosa merce era già esaurita.
Ma le donne, i bambini, gli anziani, erano rimasti nel Ghetto. Solo pochi avevano già cominciato la loro attività. Attività povere, stracciaroli, riparatori di ombrelli, venditori di piccole cose povere. Perché di ebrei ricchi al Portico d’Ottavia non ce ne erano.
Giacomo De Benedetti, nel suo 16 ottobre 1943 – scritto nel 1944, quando ancora non si sapeva che fine avevano fatto i deportati – descrive con maestria cosa successe quel giorno maledetto. “Dalla via del portico d’Ottavia giungono lamenti mischiati con grida. La signora S. si affaccia all’angolo della via di Sant’Ambrogio col Portico. Come è vero che prendono tutti, ma proprio tutti, peggio di quanto si potesse immaginare. Nel mezzo della via passano, in fila indiana un po’ sconnessa, le famiglie rastrellate: una SS in testa e una in coda sorvegliano i piccoli manipoli, li tengono suppergiù incolonnati, li spingono avanti con i calci dei mitragliatori, quantunque nessuno opponga altra resistenza che il pianto, i gemiti, le richieste di pietà, le smarrite interrogazioni”.
Le SS avevano circondato il quartiere intorno alle 5.30, armate fino ai denti e ci mettono ben poco a catturare le loro vittime. Altri soldati hitleriani si snodano per la città a caccia degli ebrei fuori del Ghetto. Prendono in tutto 1259 persone di cui 689 donne, 363 uomini e 207 tra bambini e bambine (252 vennero liberati perché “misti”). Dopo la guerra tornarono in 16.
Era stato un gioco facile: quel 16 ottobre era l’ultimo giorno della festa di Sukkot. Gli abitanti avevano fatto tardi e magari si concedevano un po’ più di sonno; altri, proprio perché avevano fatto tardi, erano rimasti a dormire dai parenti. Alcuni uomini erano già scappati perché si pensava che sarebbero stati presi solo loro per mandarli a lavorare in Germania, ma perché, con i tedeschi a Roma gli altri non erano fuggiti? Perché non si erano organizzati in qualche modo evitare di essere portati al macello come pecore inermi?
Facciamo qualche passo indietro. La decisione di deportare gli ebrei era stata presa dai vertici nazisti subito dopo l’8 settembre. Già il 12 – ci ricorda in un saggio la storica Anna Foa, citando a sua volta lo storico israeliano Meir Michaelis – Herbert Kappler aveva ricevuto da Berlino istruzioni per il piano di deportazione. Kappler in quel momento ha praticamente Roma in mano: tenente colonnello delle SS e capo del comando nella capitale della polizia di sicurezza germanico e del servizio di sicurezza. Nella seconda decade di settembre, un altro dispaccio, stavolta firmato direttamente da Himmler, gli ordina di preparare l’operazione. Il 24 settembre Berlino, sempre con Kappler, ripete: la deportazione deve riguardare “tutti gli ebrei senza distinzione di nazionalità, età, sesso e condizione” .
Tanta insistenza è dovuta al fatto che a Roma non sono d’accordo. Non lo è il generale Rainer Stahel, comandante militare della piazza di Roma, poi rimosso dal suo incarico e inviato all’Est. Non lo è il console Moellhausen, la massima autorità tedesca a livello diplomatico presente allora a Roma. Non lo è Kappler (lo sosterrà nel processo a suo carico e nella deposizione inviata al processo Eichmann). Kappler e Moellhausen vanno ai Castelli da Kesselring, il comandante militare supremo e gli chiedono di distaccare tutte le SS al suo comando per la razzia degli ebrei. Kesselring rifiuta: non può mollare nemmeno un uomo perché deve combattere l’avanzata alleata. Kappler e Moellhausen fanno l’ultimo tentativo per fermare il rastrellamento. Mandano due telegrammi – il 6 e il 7 ottobre. Kappler al Comandante supremo delle SS in Italia Wolf e Moellhausen al ministro degli esteri von Ribbentrop. Nei telegrammi si propone, invece della deportazione, di adoperare gli ebrei nei lavori di fortificazione. Inoltre i due fanno anche presente la non disponibilità di Kesselring per sottolineare come le forze di cui Kappler disponeva non fossero sufficienti all’operazione.
La risposta, stavolta è di Ribbentropp. Nein, andate avanti col rastrellamento. E tanto per essere chiaro, il 6 ottobre manda a Roma un reparto specializzato nella caccia all’ebreo, guidato dal capitano Theodor Dannecker, uno stretto collaboratore di Eichmann col quale in seguito coopererà anche per la deportazione degli ebrei ungheresi. Dannecker si mette subito al lavoro per stilare l’indirizzario degli israeliti, dividendolo per zone. Per farlo – scrive Anna Foa nel suo libro Portico d’Ottavia 13 – usa il censimento fatto nel 1938 aggiornato nel 1942, depositato presso la questura (ma ce ne erano tanti altri , posseduti sia dalle istituzioni centrali che dai commissariati di polizia) incrociandolo con altri dati “tra cui probabilmente l’elenco dei contribuenti sequestrato alla comunità ebraica il giorno dopo la consegna dell’oro, il 29 settembre” (di cui parleremo dopo). Ad aiutarlo ci sono i poliziotti italiani, che Dannecker la sera del 15 ottobre consegna in caserma: non si fidava di loro (anche se nella sua deposizione al processo Kappler sosterrà di averli mandati a casa per agevolare una fuga di notizie).
Non è che Kappler e Moellhausen fossero spinti da un sincero sentimento di umanità nel cercare di far cambiare idea a Berlino. Braccia per la fortificazione della città servivano davvero e già esisteva il lavoro forzato che riguardava ebrei e non ebrei impiegati proprio in questo tipo di lavori. Ma il motivo vero era un altro: il rapporto con i Vaticano, che appariva come l’unico intermediario per qualsiasi tentativo di negoziare una pace tra gli Alleati e la Germania. I due, ben consci che americani e inglesi fossero a meno di 200 km da Roma, cominciavano a pensare che il Reich millenario, mille anni non sarebbe durato. Anzi, avrebbe potuto finire da lì a poco. Nella Roma sotto il tacco tedesco “si stava stabilendo nei primi giorni dell’occupazione un delicato equilibrio, che la progettata razzia degli ebrei romani avrebbe potuto mandare completamente all’aria” (A.Foa). I nazisti temevano che il Papa prendesse pubblicamente una posizione contro di loro, cosa che sarebbe stata utilizzata dalla propaganda antitedesca e avrebbe anche turbato quei pochi tedeschi cattolici ancora in grado di pensare. C’è una lettere del vescovo austriaco Alois Hudal a Stahel, poi inviata a Berlino, che lo dimostra. Peccato che sia del 17 ottobre, quando gli ebrei romani erano già detenuti e pronti per essere inviati ad Auschwitz. La stessa cosa viene ribadita da Weizsäcker, ambasciatore tedesco presso la Santa Sede: “La Curia è particolarmente colpita, perché l’azione si è svolta, per così dire, sotto le finestre del papa… Gli ambienti ostili di Roma colgono l’occasione per costringere il Vaticano ad uscire dal suo riserbo” (Andrea Riccardi, L’inverno più lungo. 1943-44: Pio XII, gli ebrei e i nazisti a Roma ).
L’equilibrio che si era creato tra la Santa Sede e i nazisti prevedeva il riconoscimento l’extraterritorialità vaticana, “un riconoscimento che come sappiamo fu tacitamente esteso alle chiese e conventi che pure non ne godevano” (Foa). E’ noto anche che tale equilibrio fu mantenuto dopo il 16 ottobre, con complessi giochi diplomatici da parte di Weizsäcker: “fece credere al Vaticano che una strategia di prudenza poteva portare a dei risultati concreti e riferì dall’altra parte a Berlino di aver imposto al Papa la linea nazista. Il Vaticano credette, con ogni probabilità, che il rilascio dopo l’arresto dei coniugi e figli di matrimonio misto, in tutto 252 persone, fosse il frutto delle sue pressioni, mentre risulta che Dannecker era già arrivato a Roma con l’ordine di esentarli dalla deportazione” (Foa). Se da un lato le pressioni vaticane erano molto prudenti – convinti da Weizsäcker che fosse la strada per ottenere almeno qualche risultato – dall’altro si deve dire che riuscirono a nascondere quanti più israeliti poterono, tra conventi, chiese e Città del Vaticano. Certo questa prudenza non ha impedito la razzia. A Roma c’erano tra i 12 e i 13 mila ebrei. Berlino nel voleva almeno 8 mila. Non li ebbe, sia per l’intervento sotterraneo del Papa, sia per il coraggio di alcuni generosi “ariani”, sia perché i più ricchi e i più furbi scapparono prima. I più poveri, semplicemente, non sapevano dove andare o se lo sapevano non avevano i soldi per farlo.
Che i nazisti volessero lo sterminio totale degli ebrei, non era cosa notizia così scontata come pensiamo oggi. Si sapeva poco, poche erano le informazioni provenienti da altri paesi. Agli ebrei era proibito dalle leggi razziali del 1938, di avere una radio e nel Ghetto non l’avevano. C’era la persecuzione, si, ma nulla come la razzia del 16 ottobre era successo. Gli israeliti pensavano che se fossero stati presi sarebbero stati mandati in campi di lavoro. I romani erano convinti che nulla sarebbe successo nella città del Papa. Anna Foa ci spiega che questa della protezione papale era un’idea diffusa anche nei campi di sterminio. Arminio Wachsberger, deportato il 16 ottobre, racconta che, quando con i suoi compagni scavava fra le rovine del ghetto di Varsavia, bastava l’apparizione di una veste talare a far credere che si trattasse di un messo del Vaticano incaricato di liberarli.
Inoltre a Roma avevano già versato i 50 chili d’oro richiesti da Kappler. Nessun ordine era partito da Berlino in questo senso: Kappler afferma che si trattò di una sua iniziativa personale per far cambiare idea a Berlino sulla deportazione. Così come è sempre lui a raccontare che avvertì gli alti comandi nazisti “che gli ebrei romani avevano contatti con gruppi finanziari ebraici all’estero e si sarebbero potuti sfruttare questi contatti per il servizio informazioni”. Difficile crederlo perché sa bene che Berlino non avrebbe mai accettato, visto che la “soluzione finale” era parte fondante del credo nazista. Probabilmente voleva vendere bene le sue doti di abile funzionario di polizia, capace di mungere le vittime designate ottenendo soldi e informazioni.
Il mattino del 26 settembre 1943 a Ugo Foà, Presidente della Comunità Israelitica di Roma, e a Dante Almansi, Presidente delle Comunità Israelitiche italiane, viene ingiunto l’ordine di andare al Comando della la polizia tedesca di Roma. Kappler gli fa un discorso chiaro:” Noi tedeschi consideriamo voi ebrei come nemici e come tali vi trattiamo. Non abbiamo bisogno delle vostre vite, né di quelle dei vostri figli, abbiamo bisogno invece del vostro oro. Entro trentasei ore voi dovete versare cinquanta chilogrammi di oro altrimenti duecento ebrei saranno presi e deportati in Germania” (dalla deposizione di Foà e Almansi al processo Kappler).
I due sono disperati. Tornano al Ghetto e comunicano la tragica notizia. Comincia freneticamente la raccolta. Tutti contribuiscono anche gli “ariani”. Come detto, al Portico d’Ottavia erano poveri. C’è chi porta ricordi di famiglia, chi quel poco che ha. Chi non ha oro, offre denaro. La Santa Sede fa sapere di essere disposta, se non fosse stata raggiunta la quantità richiesta, a versare la differenza. Non ce ne fu bisogno. Poco prima della scadenza delle trentasei ore erano stati raccolti i cinquanta chili di oro. Il giorno dopo, come se niente fosse successo, le SS perquisiscono il Tempio Maggiore e portano via documenti oltre 2 milioni di lire che erano stati versati da chi non aveva oro.
I cinquanta chili vengono inviati a Berlino, a Kaltenbrunner, potentissimo capo della Direzione generale per la Sicurezza del Reich. Secondo Kappler erano ancora nel suo ufficio nell’inverno del 1945.
Eppure delle avvisaglie, prima di quel maledetto 16 ottobre, c’erano state. Il 7 ottobre erano stati deportati duemila carabinieri di stanza a Roma ed era stato disarmato l’intero Corpo. I carabinieri erano fedeli al re e avevano partecipato attivamente alla difesa di Roma e alla battaglia di Porta San Paolo e soprattutto, erano armati. Come niente, sarebbero stati capaci di aiutare gli ebrei. Meglio non rischiare. L’ordine di disarmo, preludio alla loro deportazione, è del 6 ottobre e porta la firma del maresciallo Graziani, capo militare della repubblica di Salò.
La comunità romana però era in stretto contatto con la Desalem, l’organizzazione ebraica di soccorso ai profughi ebrei, che aveva avvertito sia Foà che Almansi del pericolo imminente. I dirigenti del Desalem non ignoravano nulla di quanto stava succedendo all’Est e il responsabile, Settimio Sorani, già dal 7 settembre aveva preso contatti con padre Benedetto, un cappuccino francese che aveva già aiutato gli ebrei in Francia e che avrebbe di nuovo operato con coraggio ed efficacia a Roma sotto l’occupazione. Gli unici soccorsi organizzati vennero, così, dalla Delasem e furono diretti soprattutto agli ebrei stranieri.
Invano il rabbino di Roma Israel Zolli, galiziano di origine e ben consapevole di quanto stava succedendo all’Est (aveva avuto due fratelli assassinati già nel 1942, uno in un ghetto, l’altro in un campo) aveva insistito fin dai primi giorni dell’occupazione tedesca perché tutte le sinagoghe e gli uffici comunitari fossero chiusi, il culto sospeso e gli ebrei romani avvisati di fuggire. Misure analoghe a quelle chieste da Zolli a Roma – racconta Gabriele Rigano in un’intervista nel 2007 – furono prese a Firenze dal rabbino e dalla Comunità, che strinse un accordo con l’Arcivescovato per dare rifugio in Chiese e conventi agli ebrei più esposti. Al caso romano è stato opposto quello di Venezia, il cui presidente della comunità ebraica , Giuseppe Jona, si suicidò il 16 settembre 1943 dopo aver distrutto le liste comunitarie richieste dai nazisti (Rigano).
Da qui le accuse di Zolli (che dopo la guerra si converte al cristianesimo) a Foà ed Almansi di aver sostanzialmente abbandonato gli ebrei romani al loro destino. Le indicazioni date dalle dirigenze comunitarie infatti furono di continuare a svolgere la vita normale, senza nascondersi per evitare di attirare l’attenzione del comando tedesco. Un repentino passaggio alla clandestinità – pensavano – poteva essere interpretato come una provocazione.
Per i nazisti il rastrellamento del Ghetto invece è quasi una sconfitta. Troppo pochi. Kappler si giustifica con i suoi superiori con l’esiguità delle sue forze e con l’atteggiamento dei romani che non avevano un bastevole atteggiamento antisemita. Anzi, avevano messo in atto una resistenza passiva, quando non attiva, di fronte agli arresti: fascisti e non che proteggono i vicini di casa ebrei e danno loro rifugio, e molti episodi del genere.
Per questo, mettono in atto un’altra strategia. Dopo il 16 ottobre non ci saranno più razzie e non saranno più le SS a cercare gli israeliti, ma ci si affiderà a delatori italiani: fascisti, vicini, spie. Anche ebree, come Celeste di Porto, la più famosa che arriva a denunciare persino i suoi parenti e che nell’immediato dopoguerra sarà processata.
I tedeschi hanno anche fissato il prezzo: consegnare un uomo valeva 5 mila lire, una donna 3 mila, un bambino 1.500.
Ma i delatori non bastano, ci vuole un braccio armato e questa volta deve essere italiano. Gli arresti vengono effettuati dai poliziotti della repubblica sociale (è stata già emanata la Carta di Verona che definisce gli ebrei come non italiani e nemici) o da bande di delinquenti che rispondono direttamente a Kappler. Le più note a Roma sono quella di Cialli-Mezzaroma e quella Ceccherrelli. Amedeo Osti Guerrazzi è uno storico che, con il demografo dell’Istat Daniele Spizzichino, ha collaborato ad una ricerca in questo senso: “Nella stragrande maggioranza dei casi quei 747 ebrei furono presi su delazione di altri italiani: abbiamo ricostruito la storia di 383 casi, ma sicuramente furono di più. Sappiamo dove e quando furono presi, chi ne permise la cattura e cosa accadde dopo”. 70 di loro moriranno il 24 marzo alle Fosse Ardeatine.
E l’oro degli ebrei romani che fine ha fatto? Si sa che tutti i beni depredati, i nazisti li hanno inviati a banche offshore sul finire della seconda guerra mondiale. In questi 75 anni, innumerevoli sono state le cause intentate dagli eredi delle vittime dell’olocausto, per riavere indietro i loro valori. Nel 1997 a Londra si tiene una conferenza per risarcirli. E qui si scopre che una parte dell’oro nazista è ancora nei forzieri della Banca d’Italia.
Mario Tedeschini Lalli in un articolo per il quotidiano “La Repubblica” del 1998 ci racconta come è andata. Tutto parte dalla Banca Centrale di Olanda che prova come l’oro sottratto agli ebrei olandesi fosse stato rifuso in Germania e come ad esso fosse stata aggiunta qualche decina di chili di oro tratto dal famigerato “Conto Melmer”, dove le SS tenevano tutto ciò che depredavano alle vittime dei campi di sterminio. Una parte di questi lingotti rifusi – scrivevano gli americani che hanno fatto una lunga e dettagliata indagine – fu mandata in Svizzera e una parte – sorpresa – in Italia, alla Banca Commerciale. La Banca Commerciale nel 1997 dice subito di non saperne niente. Palazzo Chigi, il ministero degli esteri, quello del Tesoro pure. Ma gli olandesi insistono e provano che grazie a una richiesta di chiarimenti avanzata dall’Aja nel 1947 la Banca d’Italia scoprì di aver ricevuto oro trafugato dai tedeschi. Si trattava di 312 lingotti 162 dei quali erano il frutto della fusione di fiorini d’oro. Grazie ai numeri di serie fu possibile accertare che 147 lingotti – tutti rifusi – erano stati consegnati dai tedeschi nel febbraio 1943 all’Istituto nazionale cambi con l’estero (Ince), in pagamento parziale di un debito. “Gli altri 165 lingotti – scrive tedeschini – finirono in Italia per una complessa transazione tipica dei tempi di guerra: un consorzio di aziende aeronautiche italiane, tra il 1940 e il 1941, aveva fornito del materiale al governo neutrale della Svezia contro pagamento in oro. Il governo di Stoccolma utilizzò per questo un conto aperto presso la Reichsbank e così arrivò in Italia l’oro ‘sporco’, compresi gli ultimi 15 lingotti rifusi. A trattare l’affare fu, per l’appunto, la Banca Commerciale, che poi rivendette l’oro alla Banca d’Italia. I 147 lingotti rifusi dell’Ince finirono a Berlino, insieme a quattro lingotti non rifusi appartenenti alla Banca d’Italia. Che invece rientrò in possesso degli ultimi 15 lingotti rifusi, rimasti a Fortezza fino all’arrivo degli alleati. Gli olandesi avrebbero voluto recuperare almeno una parte del proprio oro, pur legittimamente acquisito dalla Banca d’Italia. Una commissione di arbitrato, nel ’63, diede però torto all’Olanda e da allora non si sa più nulla dei 15 lingotti che dovrebbero ancora contenere – fatte le proporzioni – 730 grammi dell’oro della vergogna”. L’ombra nera del male assoluto.
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