Aveva 19 anni Massimo Gizzio. Era uno studente , quel 29 gennaio 1944 quando gli sparano alla schiena. Muore tre giorni dopo, il primo febbraio.
Roma è ancora sotto assedio – gli alleati arrivano a giugno – nazisti e fascisti la facevano ancora da padrone. Sembrava che non si rendessero conto che da lì a poco per loro sarebbe arrivata la fine.
Una Roma terrorizzata dove sembra che vivano solo donne, anziani, bambini e sfollati. Gli uomini giovani, renitenti alla leva sono nascosti nelle case, nelle cantine, o dove si può. L’armistizio è stato firmato l’8 settembre ed è stata ordinata la consegna delle armi, pena la fucilazione “per giudizio sommario”.
Ma in quei nove mesi di guerra, di uccisioni e deportazioni, nasce un odio irrefrenabile contro i nazisti. I romani si organizzano e combattono.
Uno di loro, è Massimo Gizzio, partigiano e studente di giurisprudenza. Nel 1943 aderisce al Pci clandestino e insieme a Carlo Lizzani e Vincenzo Lapiccirella costituisce il comitato studentesco di agitazione. Ma nello stesso tempo lavora per i poveri con la comunità di San Vincenzo nella chiesa di San Bellarmino.
E’ un ragazzo generoso che regala quello che può ai poveri, magari sottraendo vestiti e giocattoli in casa, di nascosto. Viene da una famiglia in cui si respira cultura e apertura mentale. E’ appassionato di filosofia, ama la musica, va ai concerti e teatro. Frequenta gli amici, cominciano le prime suggestioni amorose. Insomma è un ragazzo normale, anche se ha già sviluppato una coscienza politica che normale per quei tempi non era.
Comincia il lavoro politico all’Università, collabora alla preparazione di una serie di scioperi degli studenti tra il dicembre 1943 e gennaio 1944. Naturalmente viene notato dall’occhiuta polizia politica e viene anche deferito al Tribunale speciale, ma con l’8 settembre, torna in libertà. E diventa attivo nella resistenza romana.
Quel 29 gennaio 1944 , il comitato studentesco aveva proclamato uno sciopero generale in tutte le scuole di Roma contro i tedeschi e i fascisti. Gizzio è alla testa di un gruppo di studenti del ”Dante Alighieri”, diretto verso Piazza della Libertà. Sembra che – secondo i testimoni dell’epoca – il preside della scuola, notoriamente fascista avesse chiesto l’intervento di una squadra di fascisti in borghese del gruppo “Onore e Combattimento”. Quando il corteo è prossimo alla piazza, il gruppo attacca i manifestanti a colpi di pistola. Massimo Uffreduzzi spara a Gizzio , proprio mentre il ragazzo sta salutando la fidanzata. Lo colpisce alla schiena. Tre giorni di agonia all‘ ospedale Santo Spirito e Massimo muore.
Al suo funerale c’è un enorme partecipazione: studenti e insegnanti insieme, malgrado il pericolo delle rappresaglie nazifasciste.
A guerra finita compaiono davanti alla Corte di Assise di Napoli i fascisti Massimo Uffreduzzi, Sergio Bertolani, Carlo Alberto Guida e Giorgio De Michele. Pur riconoscendo tutte le responsabilità dei quattro, vengono assolti, incluso l’esecutore materiale – che si era pure vantato dell’atto eroico – poiché – parole della sentenza – “anche lui è uno studente, travolto dal clima arroventato della guerra”.
La mamma scrive al presidente della Corte. Forse – dice in sostanza – con questa sentenza avete voluto pacificare un clima arroventato, ma “come si spiega allora che proprio nei giorni in cui gli assassini di mio figlio venivano liberati, gli esecutori materiali della fucilazione militare di Francesco Fagà (partigiano, sergente maggiore paracadutista, ndr) venivano condannati a Roma a 24 anni di reclusione e mezzo milione di risarcimento alla parte civile? Perché la giustizia deve avere due pesi e due misure? Non è questa la giustizia che ci avevano lungamente insegnato nella nostra giovinezza, non quella per la quale Massimo è morto”.
A Roma, nel luogo dove Massimo è stato colpito (Via Cesi) c’è una targa che lo ricorda. E’ stato anche dato il suo nome ad un circolo culturale e ad una scuola media, dove per anni ha insegnato sua sorella.
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