Renzo De Felice ha definito l’8 settembre “la morte della patria”. Molti anni dopo l’allora presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi ha spiegato che era la morte di una certa idea della Patria, quella fascista. Comunque sia, è inesatto definire così solo l’8 settembre 1943: la vergogna e l’ignominia del gruppo dirigente italiano – re e Badoglio in testa – hanno pervaso tutta la vicenda della resa incondizionata agli alleati.
I contatti con gli anglo-americani erano cominciati poco dopo la caduta del fascismo, il 25 luglio. Agosto 1943, Lisbona. Gli alleati aspettano il plenipotenziario del governo italiano, generale Castellano. Al generale, il capo di stato maggiore dell’esercito Ambrosio ha dato solo sommarie istruzioni: ascoltare le loro intenzioni, illustrare la nostra difficile situazione militare e soprattutto chiedere il loro aiuto per sganciarci dalla alleanza con la Germania. Né il capo del governo Badoglio si perita di aggiungere altro.
Castellano parte senza poteri di firma né alcuna delega. Il 19 agosto incontra i suoi interlocutori. Walter Bedell Smith, uno dei principali collaboratori del generale Eisenhower, lo accoglie con un: “mi risulta che siete venuto per chiedere i termini dell’armistizio”. Legge i 12 punti dell’accordo che aveva preparato (“cessazione immediata di ogni attività ostile da parte delle forze armate italiane”) e precisa che questi punti non possono essere discussi ma solo accettati integralmente. A Castellano non resta che ripartire per l’Italia. Il 27 agosto, a Roma, relaziona Badoglio che resta “taciturno ed enigmatico” (Montanelli e Cervi l’Italia del 900). Il 29 va dal re che “lasciò capire chiaramente che spettava a Badoglio, e non a lui, stabilire cosa fosse giusto fare” (ibidem). Comunque i due accettano i 12 punti, aggiungono però che non possono dar luogo a nessun armistizio senza un grande sbarco di almeno 15 divisioni tra Civitavecchia e La Spezia che li protegga dai tedeschi. Si stabilisce un nuovo incontro, questa volta in Sicilia, già in mano americana. Castellano riparte il 3 settembre ma non ha ancora l’autorizzazione a firmare la resa. Dopo un faticoso e indecoroso scambio di telefonate, Badoglio dice si. C’è un equivoco di fondo: il governo italiano, paralizzato dalla paura dei tedeschi, si illude di poter trattare condizioni favorevoli, americani e inglesi li considerano sconfitti e quindi obbligati ad acconsentire e basta.
L’esigenza di porre fine alla guerra in effetti sarebbe stata molto più pressante per l’Italia che non per le Nazioni Unite (Usa e Gran Bretagna si chiamano così), ma il nostro atteggiamento sfuggente provoca una tale diffidenza che solo dopo aver appreso della sigla dell’accordo, Eisenhower, comandante delle forze americane in Europa, annulla la partenza di ben 500 aerei destinati a bombardare Roma e soprattutto a convincere Badoglio, che temporeggia pretestuosamente e non è del tutto convinto di doversi intestare la paternità dell’accordo.
Alla fine la resa viene ratificata alle 17.15 del 3 settembre sotto una tenda a pochi chilometri da Cassibile (Siracusa). Firmata da un generale e non dal re o dal capo di governo. Non gradivano avere il proprio nome in un documento che certificava la sconfitta. Non firma nemmeno Eisenhower, (al suo posto c’è Walter Bedell Smith), infuriato con l’atteggiamento sfuggente e ondivago degli italiani al punto di definirlo “the crooked deal”, lo sporco affare. E’ il cosiddetto armistizio breve, con le sole condizione militari. Quello lungo sarà firmato a Malta il 29 settembre a bordo della nave britannica Nelson. E questa volta, Badoglio ci deve andare e mettere suo malgrado il suo nome sulla capitolazione.
Subito dopo il 3, americani e inglesi si aspettano che l’Italia faccia qualcosa. Niente. Corona e capo del governo non fanno niente. Sembrano non rendersi conto della drammaticità del momento, né dell’urgenza. Il solo obiettivo è quello di salvare il potere e la dinastia alla faccia delle sofferenze che sarebbero state inflitte al popolo italiano. Pensano di comunicare l’armistizio il 12 settembre o anche più in là, in base a non meglio identificate “voci” che giravano negli ambienti militari. Solo pochissimi sanno della resa. Badoglio informa i ministri della guerra e della marina, ma non tutto il governo, al quale dice che ci sono trattative in corso. Non sa niente nemmeno l’erede al trono Umberto, né la sorella Mafalda che ignara tornerà a Roma (dopo aver incontrato i genitori già a Brindisi) e catturata dai nazisti morirà a Buchewald. I tedeschi sospettano ma non sono ancora certi. Hitler però ha già predisposto l’operazione Alarico, il piano di invasione del nostro paese. Truppe sono acquartierate al Brennero però tutto sommato le forze germaniche sono numericamente inferiori rispetto a quelle italiane. Questo per sottolineare quanto la codardia (o peggio) di Vittorio e Badoglio sia stata letale.
I giorni passano e le Nazioni Unite sono sempre più impazienti e nervose e pressano il governo perché dia l’annuncio del cambio di alleanze. Nella notte tra il 7 e l’8 arrivano a Roma due ufficiali americani: Maxwell Taylor, generale di brigata e il comandante William Gardiner. Sono stati inviati da Eisenhower per concordare con le massime autorità italiane, l’attuazione dell’operazione chiamata Giant II, da attuarsi nella serata dell’8 settembre. L’operazione prevede di paracadutare sugli aeroporti romani un’intera divisione americana per combattere i tedeschi insieme agli italiani. La data non era scelta a caso. Nella notte tra l’8 e il 9 ci sarà lo sbarco a Salerno per questo è necessario che l’Italia dia l’annuncio della resa.
La prima sorpresa per i due ufficiali è scoprire che il capo di stato maggiore generale Ambrosio non c’è. E’ partito il 7 per Torino per “andare a trovare la famiglia” (Paolo Monelli: Roma 1943). I maligni dicono per mettere in salvo i suoi averi. Eppure le autorità italiane sapevano dell’arrivo di Taylor e Gardiner. Inoltre era stato già concordato a Cassibile che a partire dall’8 settembre ogni giorno era buono per mettere in pratica tre importanti operazioni: un mega sbarco navale e terrestre a sud di Roma (sarà l’operazione Avalanche, ovvero lo sbarco a Salerno); l’annuncio della capitolazione e il conseguente distacco dai tedeschi; l’arrivo sugli aeroporti romani di una divisione aviotrasportata americana per far fronte alla reazione nazista. Gli alleati si fidano così poco degli italiani da tacere il luogo e la data dello sbarco. Eisenhower ricorderà nelle sue memorie (citato da Ruggero Zangrandi ne L’Italia tradita: 8 settembra 1943): “gli italiani… cercarono di ottenere tutti i particolari sui nostri piani. Noi non li volevamo rivelare perché non era da escludersi la possibilità di un tradimento”.
La seconda sorpresa è che invece di essere condotti a casa di Badoglio, e in assenza di Ambrosio, vengono portati a Palazzo Caprara e ricevuti dal generale Carboni il quale offre loro “tra lini finissimi e preziose argenterie” (Monelli op.cit) un lauto pranzo a base di consommé, cotolette di vitello con contorno, crepe suzette e vini d’annata. I due americani si sentono dire da Carboni che uno dei tre punti dell’accordo di Cassibile, cioè la discesa dei paracadutisti sugli aeroporti romani, non era attuabile perché erano controllati dai tedeschi. Lo sbarco e l’annuncio devono essere quindi rinviati (ma intanto la sera stessa fa mandare a due capi dell’opposizione, i comunisti Luigi Longo e Antonello Trombadori due autocarri pieni di munizioni, fucili, pistole: meglio tenersi buoni tutti).
Attoniti Taylor e Gardiner a questo punto pretendono di parlare con Badoglio. In piena notte arrivano nella sontuosa villa di Corso Trieste (regalata dal fascismo dopo le vittorie in Etiopia) dove vengono accolti, “in uno splendido salotto pieno di tappeti e di quadri, dal nipote del capo del governo, Giuseppe Valenzano, in elegante vestaglia rossa” (Claudio Fracassi La battaglia di Roma). Dopo un quarto d’ora arriva Badogolio. “In un pessimo francese” (op. cit.) ripete quello che ha già detto Carboni e aggiunge: “la situazione è cambiata, le truppe italiane sono nell’impossibilità di difendere Roma”. E decide di telegrafare ad Algeri (sede del comando di Eisenhower) per bloccare l’atterraggio dei paracadutisti. Taylor è furioso e minaccia: “se non annunciate subito l’armistizio, non ci resterà che bombardare e distruggere Roma”.
Mettiamoci nei panni di Taylor. E’ il rappresentante di una nazione cui gli italiani si sono arresi, sta trattando con un governo di un paese sconfitto, che ha accettato tutte le condizioni di resa e solo cinque giorni prima ha chiesto di essere difeso dai tedeschi con ingenti sbarchi. E ora si sente dire: come non detto non se ne fa niente. Pare che Badoglio con le lacrime agli occhi abbia detto al generale americano: “i tedeschi ci sgozzeranno” (Fracassi, op.cit). Paura così forte dei nazisti? O altro? Vedremo più avanti che pensare all’altro sia più che lecito. Anche perché, come abbiamo detto, le forze armate italiane di stanza nel paese erano più numerose di quelle naziste e – per stessa ammissione nel suo memoriale del generale Kesselring, capo delle armate tedesche per il sud – una difesa su larga scala degli italiani insieme ad un sbarco aereo alleato avrebbe significato la sconfitta delle truppe tedesche a Roma.
Un Eisenhower di umore nerissimo annulla l’operazione paracadutisti ma tiene fermo il punto sull’annuncio dell’armistizio. E lo fa lui da radio Algeri alle 17.30 (la Reuters lo rende pubblico in tutto il mondo). Prima però (in mattinata) manda un durissimo messaggio a Badoglio: oggi è un giorno decisivo (le navi sono già al largo di Salerno) – dice in sostanza – e se non fate la vostra parte “come da accordo sottoscritto” ci saranno gravi conseguenze per il vostro paese e “nessuna futura azione potrà allora ristabilire alcuna fiducia nella vostra buonafede e conseguentemente ne seguirebbe la dissoluzione del vostro governo e della vostra nazione” (Melton S.Davis: Chi difende Roma’ riportato da Fracassi op. cit.)
All’arrivo del messaggio a Roma tutti perdono la testa. Il re convoca il consiglio della corona e nelle segrete stanze (si era trasferito in sordina dal Quirinale al ministero della guerra a Palazzo Baracchini) va in scena un teatrino che nemmeno l’opera dei Pupi. Carboni e Sorice (ministro della guerra) propongono di sconfessare la firma di Cassibile e di dare la colpa a Badoglio dicendo che ha agito all’insaputa del governo tanto più che, come abbiamo visto, l’aveva tenuto all’oscuro. Si deve negoziare un nuovo armistizio – sostengono. Ambrosio è d’accordo: si faccia qualsiasi cosa pur di non affrontare la reazione dei tedeschi. La paura fa più di 90: un convulso vociare, mani sbattute sul tavolo, toni sempre più alti, l’io non sapevo niente (nelle tragedie italiane c’è sempre qualcuno che lo dice). Il teatrino viene interrotto dal maggiore Marchesi (aveva accompagnato Castellano a Cassibile) che ricorda agli astanti come gli anglo-americani avessero filmato e fotografato tutto, firme e documenti. La sputtanata sarebbe stata enorme. Mentre il dibattito infuria, si affaccia ad una porta un usciere e informa che radio Algeri sta trasmettendo il discorso di Eisenhower. Solo a quel punto il re si arrende ed un mesto Badoglio alle 19 e 43 va all’Eiar a fare l’annuncio agli italiani dell’armistizio concluso con l’ambiguo quanto famoso: “ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza”. E mentre in l’Italia i più alti quadri militari si affrettano a far partire una quarantina di camion stracarichi di soldi, gioielli, oggetti preziosi per la Svizzera, le navi delle Nazioni Unite attraccano al porto di Salerno. E la fanteria tedesca occupa il Brennero, la Carnia, e il Friuli Venezia Giulia alle 6 del mattino del 9.
Alle 12 del giorno 8 il re aveva ricevuto l’ambasciatore tedesco Rudolf Rahn che aveva chiesto un colloquio proprio perché lo voci di un imminente cambio di cavallo degli italiani non solo erano arrivate a Berlino, ma erano sempre più insistenti e circostanziate. A Rahn Vittorio Emanuele giura massima fedeltà: “dite al Fuhrer che non capitoleremo mai… continueremo sino alla fine la lotta a fianco della Germania, con la quale l’Italia è legata per la vita e per la morte”. L’ambasciatore si affretta a comunicarlo, ma nello staff di Hitler nessuno ci crede. Tanto che nel pomeriggio (prima che Badoglio desse l’annuncio radiofonico), il ministro degli esteri von Ribbentropp chiede informazioni a Rahn su una pretesa capitolazione dell’Italia, secondo quanto era stato annunciato da un dispaccio della Reuters. Un perplesso ambasciatore tedesco chiama il ministero degli esteri italiano, ma il ministro Guariglia non c’è. Il suo vice lo assicura che la notizia è falsa. Il capo di stato maggiore Roatta fa di più: gli dice che è una “sfacciata menzogna della propaganda inglese che devo respingere con indignazione”. Nemmeno stavolta a Berlino ci credono. Hitler tempesta di telefonate Ribbentropp, Ribbentropp fa lo stesso con Rahn e alle 17 l’ambasciatore riesce finalmente ad intercettare Guariglia. E questa volta il ministro ammette la resa italiana.
I tedeschi ovviamente si sentono traditi. Ma soprattutto sono preoccupati: anche loro sanno di essere in minoranza rispetto ai soldati italiani presenti sul territorio. Anche a loro è arrivata la dritta di un ingente sbarco negli aeroporti romani. Inoltre il 9 mattina è ufficiale lo sbarco degli alleati a Salerno. Pensano a scappare. In tutta fretta distruggono documenti, chiudono i conti correnti bancari, liquidano ogni pendenza, compresi i contratti d’affitto. Guariglia gli fa preparare un treno speciale sul quale in piena notte salgono per essere rimpatriati in Germania sia Rahn che Moellhausen, console generale a Roma, insieme al personale dell’ambasciata. Arrivano a Verona (già in mano nazista) il 9 e lì ricevono l’ordine di tornare a Roma. La capitale era stata abbandonata e lasciata senza difesa. Adesso, insieme a resto d’Italia, era sotto il tacco tedesco.
Come è potuto accadere?
Che Vittorio e tutto il governo se la siano immediatamente data a gambe è cosa nota. Interessanti sono i particolari. Soprattutto sulla mancata difesa di Roma. A nessuno “viene in mente” di dichiarare che i tedeschi sono diventati nemici. Né Ambrosio, né Roatta (uno capo di stato maggiore, l’altro responsabile dell’esercito) si mettono a capo delle forze armate. Da loro e da Badoglio viene deciso che i soldati italiani, invece che combattere i tedeschi, si spostino verso Tivoli. Ambrosio emana una direttiva in cui si dice che se “i reparti germanici avanzano senza compiere atti ostili, possono essere lasciati passare ai nostri posti di blocco”. I militari italiani, precisa Badoglio, devono fare solo atti di autodifesa. La difesa di Roma viene lasciata nelle mani di Carboni. Del resto, l’Italia aspetterà un mese – il 12 ottobre – per dichiarare ufficialmente guerra alla Germania. E lo farà solo dopo pressanti richieste delle Nazioni Unite. Il re spiegherà questa sua ritrosia con il fatto che per un atto del genere serviva un voto del Parlamento, parlamento che in quel momento non esisteva proprio.
Mentre cominciano le scaramucce con i tedeschi sempre più aggressivi, a Roma comincia un indecoroso rimpiattino di responsabilità. Qualche giorno prima dell’8 settembre, proprio in vista dell’armistizio, era stata diramata ai vari comandanti delle truppe italiane, una memoria conosciuta come “O.P. Memoria 44” in cui si davano istruzioni dettagliate di contrattacco alle forze naziste. Quando in quella fatidica notte alcuni ufficiali ne chiedono l’applicazione Roatta dice di non aver il potere di decidere e rimanda ad Ambrosio, Ambrosio rimanda a Badoglio che secondo lui è introvabile. Badoglio in realtà sta dormendo a Palazzo Caprara, al piano di sotto di dove stava Ambrosio. Dorme anche il re. Senza uno straccio di direttiva i soldati italiani non sanno che fare. Nella notte dell’8 ad armistizio annunciato, qualche pattuglia ferma i nazisti in fuga ma ha le mani legate dalla disposizioni di cui abbiamo detto. E i tedeschi, naturalmente sparano. E uccidono. E si ringalluzziscono.
Stessa cosa succede nel resto dell’Italia per non parlare di quei poveretti che sono in guerra all’estero, pensiamo solo agli eroi di Cefalonia ma anche di tante altre situazioni del genere. Certo è che solo all’alba il gruppo dirigente italiano come al risveglio della bella addormentata prende atto che la situazione è precipitata. A quel punto il re viene svegliato. Pare sia stato Roatta il primo a dire “scappiamo” e non deve certo aver faticato molto a convincere gli altri.
Alle 5 della mattina del 9 un corteo di auto (una sessantina) parte da un ingresso secondario del ministero della Guerra. Destinazione Pescara. Da notare: quando passano sull’Appennino Abruzzese a nessuno viene in mente di deviare fino a Campo Imperatore dove è prigioniero Mussolini e prelevarlo. Poteva essere una merce preziosa di scambio con gli anglo-americani, con i tedeschi stessi nel caso li avessero intercettatati. Il che effettivamente avviene, ma guarda caso non succede niente. Le auto dei fuggiaschi sono fermate tre volte da posti di blocco nazisti, ma ogni volta vengono lasciate passare dopo la pronunzia della formula magica: “ufficiali generali” a bordo. Mussolini in una di quelle auto li avrebbe insospettiti, quantomeno incuriositi. Mussolini con gli alleati avrebbe potuto raccontare cose sgradevoli per il re e per il capo del governo.
Sorvoliamo sulle tappe della carovana. Arriviamo all’imbarco a Ortona a mare sulla corvetta Baionetta, fatta venire apposta da Zara. I vertici dell’Italia sconfitta avevano già mostrato nei fatti la loro codardia e insipienza. A Ortona va in scena un’altra indegna sceneggiata, quasi una foto della loro insipienza. Circa 250 persone urlanti tra militari, familiari, attendenti, domestici, ognuno con le sue carabattole e preziosi, si accalcano al porto per scappare insieme al re (da Taranto erano state fatte arrivare anche l’incrociatore Scipione l’Africano e la corvetta Scimitarra). Ognuno accampa un buon motivo per salire subito, ognuno ha un compito fondamentale da svolgere, ognuno grida “io sono più di te” come in una lite di condominio. Non ci riescono tutti e la confusione è al massimo dei decibel. Montanelli nel suo L’Italia del 900 racconta che lo stesso Umberto per imbarcarsi sulla bettolina che li avrebbe portati alla Baionetta, per aprirsi il varco tra la calca, deve gridare “Siamo della famiglia reale!”.
Nella lancia viene stipata quanta più gente possibile. Molti, militari e non al seguito del re non riescono ad imbarcarsi e tornano a Chieti, da dove – abbandonate le divise e gli averi, procurati abiti civili – si danno alla macchia.
Quando la Baionetta prende finalmente il mare, compare un aereo ricognitore tedesco che scatta foto sulla fuga dei reali. Mentre continua la navigazione almeno una cinquantina di Junker passano a volo radente sull’Adriatico in quel punto. C’è la testimonianza giurata al tribunale di Varese di Tano Zoccatelli, un cine operatore impegnato nelle riprese di un film vicino ad Arsoli, che li ha filmati. Ma nonostante tutto, nulla segue. Gli aerei non si accorgono che sulla corvetta c’erano i Savoia? Nessuno avverte Berlino?
Ce ne è abbastanza per riempire di contenuti quel altro di cui abbiamo parlato prima?
Chi non ha dubbi è Ruggero Zangrandi (L’Italia tradita). Nell’immediato dopoguerra ha condotto una documentatissima indagine sostenendo la tesi che la fuga dei vertici reali e militari fosse stata concordata con Kesselring sulla base di uno scambio: la consegna della capitale ai nazisti in cambio della salvezza del sovrano e dei vertici delle forze armate attraverso la via Tiburtina (le altre strade di accesso alla capitale sono già bloccate). Si spiegherebbe, per esempio il perché gli italiani dopo aver insistito con gli alleati per essere difesi dai tedeschi, al momento clou lo abbiano rifiutato. Non ci sono documenti scritti, i tedeschi hanno sempre negato, i vertici italiani figurarsi.
Vale su tutto l’amara considerazione di Montanelli davanti al molo vandalizzato di Ortona. “A testimonianza dell’unica vera battaglia che lo Stato Maggiore italiano abbia ingaggiato dopo l’8 settembre, restavano solo fagotti e cartocci”.
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