Il virus ha la sua eleganza (assomiglia ai variopinti giochi del caleidoscopio). Produce più tristezza che orrore, forse perché colpisce gli anziani e risparmia tendenzialmente giovani e bambini. Qualcuno lo pronuncia “vairus” all’inglese, magari non ha capito se viene prima il latino o l’inglese, chi deriva da chi.
È subdolo perché non si manifesta in forme vistose e sgraziate (le macchie umilianti dell’Aids o le pustole repellenti della peste) e si insinua mimetizzato nella fisiologica malattia del periodo: l’influenza. È poi aiutato nella dissimulazione dalla sua frequente natura asintomatica. Tant’è che i medici continuano a retrodatare il suo inizio.
Tra i tanti paradossi della situazione, c’è la constatazione che proprio i presidi sanitari sono stati il luogo di maggiore contagio (può sembrare logico ma non lo è). Insieme a tante altre -ad esempio i minori scambi con l’estero- può essere una delle ragioni (il minor tessuto ospedaliero) per cui la malattia, contrariamente alla tradizione, si è meno diffuso nelle regioni povere che in quelle ricche.
Dovremo anche rivedere i termini, le parole da usare in simili frangenti: dire che alcune migliaia di passeggeri sono in “isolamento” su un transatlantico di qualche centinaio di metri, mi sembra impreciso (infatti si sono infettati tutti reciprocamente). Io sono cresciuto nell’esaltazione della generazione precedente che ha non solo convissuto con la guerra, la fame, la morte e l’ignoranza ma che ha anche avuto l’elasticità mentale per adeguarsi celermente all’automobile, alla tv, ai viaggi intercontinentali e la conoscenza delle lingue, a internet, al lavoro “fordista” e alla successiva e attualissima disoccupazione globalizzata e digitale.
Ma anche la nostra leva comincia ad avere le sue benemerenze. E siamo solo all’inizio. I sette miliardi di abitanti della Terra raddoppieranno in pochissimi decenni e conosceranno sempre più l’ostilità di una natura continuamene da noi offesa. Non c’è dubbio che il mondo migliora permanentemente in termini di salute, igiene, apprendimento, benessere ma un simile affollamento non potrà non avere conseguenze.
Abbiamo una grande capacità di adattamento ma forse esageriamo: nulla ci stupisce più. Di questi anni mi è rimasto impresso un episodio rapidamente archiviato: lo tsunami. Un’onda anomala, in pochi minuti e in territori distantissimi, ha ucciso decine di migliaia di persone che, nell’impossibilità di un conteggio, di una sepoltura, di un certificato di morte, per la Storia non saranno mai esistite.
Qualunque emergenza è ormai globale e infatti non basta più cancellare i voli con una singola nazione. La delusione maggiore l’ho provata nei confronti dell’Europa. Siamo abituati alla sua inazione dovuta ai differenti interessi dei paesi membri. Ma in questo caso l’interesse era comune. Per di più non costava nulla studiare e applicare regole che permettessero ai cittadini di affrontare con più conoscenze e con più fiducia i rischi di diffusione del malanno. Con la sua inerzia l’Unione ha, al contrario, contribuito a rendere ancor più diffidenti se non nemici gli Europei con gli Europei. L’unica cosa che sanno sempre dire è che stanzieranno dei soldi per ridurre i danni subiti.
E qui veniamo a un punto secondo me fondamentale. La paura, il panico, la violenza sono reazioni abituali di fronte alle situazioni emergenziali. Si placano con l’individuazione di un capro espiatorio, di solito del tutto estraneo o inventato (vedi gli untori di Manzoni). Ebbene in questo caso siamo stati fortunati, non c’è stato bisogno di trovare alcun colpevole. Non solo in tutto il Paese ma in ciascuno di noi è scoppiata una rissa polemica tra salute e interessi. Come a Taranto e in tanti altri avvenimenti, siamo di fronte ad una scomoda e troppo spesso ignorata constatazione: non sempre la ricerca della salute e del benessere economico vanno di pari passo, sono immediatamente compatibili.
L’odio, l’indignazione, la rabbia che fisiologicamente dovevano scaricarsi su qualcuno, hanno scelto le vittime secondo le loro preferenze (il Governo, i Governatori, i Sindaci, l’Istituto superiore di sanità) ma sapendo, ciascuno di noi, che questo sarà un problema che dovremo in un vicino futuro risolvere anche individualmente.
Naturalmente non ho prove ma sono convinto che la indiscutibile pista cinese ci abbia risparmiato molte polemiche. I Cinesi sono lontani e un poco incomprensibili; quelli residenti in Italia sono lavoratori, si fanno gli affari loro e non sono conflittuali con i nostri intessi.
Pensate se il morbo fosse arrivato dall’Africa o dall’Albania. Anzi, toccando ferro, vedo all’orizzonte un possibile, inaspettato sviluppo: che la paura verso l’Italia divenga talmente diffusa da venire esclusi persino dalle rotte dell’immigrazione clandestina. Attraversare l’Africa, resistere ai capricci del Mediterraneo per essere poi infettati sulle banchine di un porto italiano, sarebbe davvero per loro il colmo.
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