Perché vogliamo parlare di cibo artigianale? Perché siamo convinti della necessità della sua tutela prima che sia completamente sommerso nella marea montante del cibo industriale. In questa affermazione non c’è alcuna negazione della essenzialità nella società attuale dell’attività industriale: l’industria ha costituito negli ultimi tre secoli il potente motore dello sviluppo sociale ed economico con tutte le conseguenze positive che ne sono derivante (aumento della ricchezza individuale e collettiva, elevazione del livello culturale della popolazione, allungamento delle speranze di vita derivante da una migliore alimentazione e dalla ricerca scientifica).
Nessuno dunque può non vedere le luci del processo di industrializzazione, così come non se ne possono negare le incidenze negative sull’ambiente (inquinamento idrico ed atmosferico) e sul territorio (stravolgimento dell’assetto territoriale troppo spesso senza alcun controllo sulla validità sociale del nuovo). Sviluppo industriale dunque con luci ed ombre, di cui troppo spesso si tende a dimenticare punti che avrebbero necessità di approfondimento.
Una prima questione riguarda la sopravvivenza (ed i limiti della sopravvivenza) dell’antico accanto al nuovo, che per quanto riguarda la produzione del cibo, è quella del Pollicino artigianato accanto al gigante industria. A questo proposito molto è stato detto e scritto e non è certamente qui il caso di tornare sulle ragioni culturali prima ancora che sociali ed economiche della tutela della produzione artigianale e della cultura in senso materiale che in essa trova espressione. È un discorso questo che, dinanzi ai giganteschi passi avanti (o indietro) compiuti dalla ricerca applicata, va ponendosi in termini nuovi.
Basti pensare, ad esempio ai nuovi prodotti farmaceutici biologici (da non confondere con quelli omeopatici): la produzione di sintesi delle componenti di molti farmaci è arrivata ad un punto tale di sofisticazione da far nascere seri dubbi sul loro uso per la salvaguardia della salute umana nella incertezza delle conseguenze ancora sconosciute (o conosciute solo parzialmente) che possono derivare dalla loro utilizzazione. Non sembra quindi fuori luogo interrogarsi se problemi analoghi non si pongano anche per il cibo di produzione industriale, entrato ormai nell’uso comune, soddisfacendo con la produzione di massa ed i prezzi contenuti, le esigenze alimentari degli individui anche a basso reddito.
Nessuno può negare che ciò sia avvenuto ed avvenga: il problema è la incidenza sulla salute umana dell’uso di additivi, completamente di sintesi, nella produzione industriale di alimenti è ben vero che norme severe vietano l’uso di sostanze nocive per la salute. Ma è altrettanto vero che troppo spesso passa molto tempo prima che scatti il divieto di utilizzazione. Gli esempi a questo proposito potrebbero essere molti, dai coloranti ai dolcificanti agli emulsionanti, mentre in molti altri casi gli interrogativi sulla nocività sono rimasti finora senza risposta (sarebbe infierire su un cadavere parlare dell’olio di palma).
Totalmente scoperto è poi tutto il problema delle sostanze utilizzate nella produzione e poi eliminate, come avviene ad esempio per l’esano, usato nella produzione industriale dell’olio di semi: vengono effettivamente eliminate tutte le sostanze palesemente nocive per la salute o qualcosa filtra attraverso maglie troppo larghe della legislazione vigente? Perché, ad esempio, dell’uso di queste sostanze nella lavorazione non viene data notizia in etichetta, così come avviene al vino, quando l’uva è stata conservata con l’anidride solforosa? È un interrogativo sul quale occorrerà richiamare l’attenzione della unione europea, sempre attenta a che siano osservate le caratteristiche che devono avere i cetrioli, cosa che non disturba certamente alcuna grande industria europea.
A completare il quadro sta la mancanza di qualsiasi indicazione circa la provenienza delle materie prime usate: può accadere così che il pane e la pasta siano prodotti con grano importato da paesi che hanno dato via libera all’uso degli O.G.M, vietati in Italia ma potentemente sostenuti nel mondo da uno dei colossi mondiali della chimica.
Cibo artigianale significa cibo alternativo, cibo nella cui produzione l’artigiano ci mette per così dire la faccia, espressione della sua professionalità, con una lavorazione fondata sulla paziente opera dell’uomo e ingredienti naturali acquistati magari al mercato vicino e non frutto della ricerca del laboratorio chimico annesso alla fabbrica. È chiaro che il cibo artigianale per le dimensioni necessariamente limitate della produzione, non potrà mai costituire un sostituto di quello industriale, anche a causa dei prezzi più elevati: esso costituisce però pur nella sua limitatezza ed almeno fino a quando gli sarà consentito dalle politiche nazionali ed europee, una voce dissenziente, non omologata né omologabile rispetto alla industrializzazione globale della produzione alimentare, un freno alla diffusione di un cibo che, pur essendo in regola con la legge, ne utilizza gli angoli bui per conseguire guadagni a prescindere dagli effetti sulla salute umana.
La grande industria alimentare ha finora ottenuto che si guardasse solo alle caratteristiche finali di un prodotto (correlato ad una domanda talora artificialmente creata attraverso la pubblicità, come nel caso delle famose merendine) con etichette che corrispondono alle norme di legge quanto agli ingredienti: tutto in regola se non ci fossero talune conseguenze non volute come, nel caso delle merendine quella benedetta obesità infantile la cui diffusione sembra turbi i sogni del futuro di alcune aziende alimentari.
Il soddisfacimento della fame atavica di due secoli fa ha esondato: la politica dei prezzi bassi sta divenendo fattore di rischio per la salute dati gli ingredienti di sempre minor valore commerciale utilizzati ed i criteri di produzione. Un esempio recentemente venuto alla luce è quello degli insaccati di maiale, non più sapientemente stagionati dall’artigiano salumiere ma trattati industrialmente con nitriti altamente nocivi per la salute. Non si tratta di distruggere il sistema ma di offrire con il prodotto artigiano un’alternativa a quello industriale, costituendo di esso una sorta di spina nel fianco in termini di raffronto che contribuisca a segnare i confini del cibo industriale. Occorre sensibilizzare l’opinione pubblica su questi problemi, fare luce su spazi bui del prodotto industriale.
Ad esempio: che fine fanno i prodotti di cui sia ordinata dalla pubblica autorità il semplice ritiro dal commercio e non la distruzione? Finiscono nei cibi precotti o servono a produrre altri alimenti come i formaggi scaduti utilizzati nella produzione di formaggi molli, o forse vengono rimessi in commercio con una nuova etichetta? Troppe domande senza risposta, tanti temi per chi voglia occuparsi seriamente del rapporto tra cibo e salute.
Gli artigiani del cibo sono convinti della necessità che sia ora per i consumatori di aprire finalmente gli occhi ed accorgersi dei limiti del prodotto alimentare industriale, recando in tal modo un servizio alla comunità che va oltre i loro personali interessi: è il progetto degli artigiani del cibo. Per raggiungere questo obiettivo è necessario puntare sulla qualità e sulla garanzia dell’origine del prodotto artigianale: il prodotto cattivo scaccia quello buono dice la legge di Grishan (banchiere del 500 che si riferiva alla moneta). Se questo è vero nel mondo finanziario lo è ancora di più in quello dei consumi alimentari, dove la sopravvivenza di molti prodotti di qualità è stata fino ad oggi garantita da una nicchia all’interno del mercato.
L’industria non sta guardare e la nicchia del prodotto artigianale di qualità ha aperto la strada all’invasione dello scaffale di cibo industriale vestito di oro zecchino e pubblicizzato dal volto amico di una star che ne decanta una qualità inesistente.
L’impresa artigiana del cibo, che costituisce il tessuto produttivo del mondo agroalimentare italiano, si è trovata di fronte ostacoli che hanno impedito il successo pieno del suo prodotto, perché non è sufficiente mettere a punto prodotti di qualità, ma è necessario far nascere il mercato di quei prodotti. Pensare ancora che basti produrre cibo tipico o biologico di qualità perché esso sia inserito all’interno di mercati competitivi per avere successo è una opinione assolutamente velleitaria.
L’esperienza di migliaia di piccole aziende sta a dimostrare che l’operazione nicchia non solo non funziona, ma crea un indebito vantaggio per i prodotti speculativi dell’industria che, sfruttando le virtù delle qualità dei prodotti artigianali, ne
capitalizza gli aspetti qualitativi, assumendone spesso i connotati e vincendo la partita sul piano economico. Contrastare questa tendenza non è affatto facile: di solito i cibi particolari vengono lavorati da piccole imprese, che fanno fatica a produrre grandi quantità di merci. Ha scritto il presidente del Censis Giuseppe De Rita che la sfida futura del settore agroalimentare italiano è continuare a puntare sulla diversità, riuscendo nello stesso tempo ad accrescere il volume della produzione e della vendita.
La crisi non ci ha lasciato solo macerie: si sono affermate nuove realtà imprenditoriali, piccole e medie aziende innovative e aggressive, agricole, artigiane, industriali capaci di intercettare nuovi bisogni e di “produrre all’ombra dei campanili cose belle che piacciono al mondo”, come ha scritto Carlo M. Cipolla. Tra queste l’impresa artigiana del cibo, punta di diamante del sistema agroalimentare italiano, ha saputo resistere ai colpi della crisi ma si è trovata di fronte ostacoli che hanno impedito il successo pieno del suo prodotto anche se proprio la crisi ha cambiato le abitudini del consumatore e il commercio del cibo ha cambiato pelle. Negli otto anni di recessione si è affermato il km zero ed è nato il turismo gastronomico, a Eataly si potuto comprare quello che si mangiava.
Ora si sperimentano nuovi concept-store culinari e si affermano i prodotti biologici. Da ultimo la Rete con i suoi ecommerce convertiti al food fino all’ingresso di Amazon nel grocery. Una vera, forte innovazione, ancora una volta, passa per l’universo della Grande Distribuzione dove emergono idee e tendenze nuove: cambia il posizionamento da discount a supermercato, va in crisi l’ipermercato mentre riprende fiato il negozio di prossimità e hanno successo i prodotti “premium price”. I progettisti sono al lavoro per costruire una nuova “dimensione” secondo la cultura del servizio al cliente, mentre i buyer promuovono audit sulla qualità per scegliere i propri fornitori e reindirizzare il food&retail, perché hanno capito che “vendere” alimenti sul vecchio scaffale “generalista” piace sempre meno e che cambiare non significa robotizzare lo scaffale o creare nuovi prodotti a marchio, ma cogliere i macro e micro trand del mercato che condizionano i comportamenti per costruire una comune strategia di retailer e fornitori per offrire al consumatore una reale possibilità di scegliere e la piena soddisfazione delle sue aspettative.
Gli sforzi per sensibilizzare il consumatore alle indicazioni delle etichette sono stati utilizzati con grande abilità dall’industria alimentare che nelle grandi campagne pubblicitarie ha teso a presentarsi come l’unica garanzia della qualità del prodotto attraverso il prestigio del marchio: l’ultimo esempio in questo senso è l’appello delle 12 multinazionali del cibo affinché tutte le etichette dei prodotti alimentari dell’Unione Europea rechino chiaramente le indicazioni di valori nutrizionali e ciò per alimentare nei consumatori la convinzione di essere esse sole le sentinelle della qualità, ma in realtà per distogliere l’attenzione dagli ingredienti usati e dalle alchimie della produzione. Per infrangere questa cappa di piombo è necessario creare un mercato parallelo, il mercato delle specialità artigiane, un mercato ricco di offerte perché rispetto alla dimensione industriale, quella artigianale genera strutture produttive differenziate.
Tuttavia questo mercato sarà sempre asfittico fino a quando il prodotto alimentare non conterrà l’indicazione in etichetta delle sue caratteristiche produttive, se prodotto cioè industrialmente o da un’azienda artigiana. La legge italiana si limita oggi alla qualificazione come artigiana dell’azienda produttrice aventi certe caratteristiche: è necessario andare oltre e definire anche il prodotto artigianale, qualificando come tale solo quello corrispondente a determinati modelli di produzione come avviene, ad esempio, per la denominazione di alcuni prodotti, ad iniziare dal parmigiano, prodotto industrialmente ma in base a precisi disciplinari. Perché non stabilire qualcosa di analogo per tutti i prodotti artigianali, escludendo da questa qualificazione quelli che artigianali non sono anche se vengono come tali commercializzati in quanto prodotti da un’azienda artigiana?
Bisogna avere questo coraggio, bisogna rendere sempre più trasparente l’artigianato vero, quello che l’articolo 2 della legge regionale del Lazio numero 17 del 2016 definisce come risultato da tecniche di lavorazione in cui sono riconoscibili gli elementi tipici della cultura locale e regionale. Per realizzare questo obiettivo appare sempre più necessario uno stretto rapporto con gli agricoltori per valorizzare la territorialità degli ingredienti usati e la specialità di molti di essi, una specialità che rischia di essere annegata in una produzione industriale che per ragioni di convenienza tende ad utilizzare ciò che viene offerto a più basso prezzo. Pochi, ad esempio, si sono accorti che la passata di pomodoro cinese ha messo in crisi la sopravvivenza stessa dei pomodori San Marzano, un tempo punto di riferimento per la produzione di pomodori pelati. Poco importa se il sapore nuovo ed anzi il non sapore prevale sul sapore antico: con il trascorrere degli anni sempre meno saranno quelli che ricorderanno la differenza.
Altra, seppure connessa, questione è quella della artigianalità nella confezione del cibo. I cibi precotti, quelli semilavorati (come gli ingredienti da mescolare al latte o all’acqua per ottenere un pseudo budino) hanno completamente stravolto la ristorazione, in ciò aiutati da una strana normativa per la quale qualunque bar può diventare un ristorante purché possegga un forno a micronde. A Roma, tanto per fare un esempio, i ristoranti (o pseudo tali), sono nati come funghi prataioli dopo
un acquazzone estivo: la cucina è inesistente, gli armadi frigoriferi sono pieni di buste, barattoli grandi e piccoli, scatole e scatolette ed il cibo propinato al cliente ignaro ha tutto lo stesso sapore, si tratti di spaghetti al pomodoro o di spezzatino di vitello con le patate. Anche in questo caso occorre porre le premesse per dare la possibilità del potenziale cliente di scegliere tra il “tappo” allo stomaco a poco prezzo o la conoscenza della cucina tradizionale del territorio, laddove ogni vivanda ha una storia che spesso si radica nella civiltà contadina, nelle produzioni tipiche locali, nella tradizione popolare sullo sfondo di ricette trasferite oralmente da una generazione all’altra.
Si tratta di studiare i meccanismi più adatti per conseguire questo obiettivo, ad iniziare dalla indicazione nella lista delle vivande degli ingredienti usati per prepararle: indicare, per esempio, tra essi l’olio extravergine di oliva può significare in molti casi che si tratta di cibo artigianale e non pseudo tale, dato che l’industria alimentare usa solitamente grassi più economici.
Si può anche pensare alla indicazione accanto alla lista delle vivande affissa alla porta del locale, ad un contrassegno tipo cibo artigianale, rilasciato da un organismo di garanzia a condizione che nella preparazione del cibo non vengano usate sostanze chimiche o comunque derivanti dalla chimica, di cui si fa invece grande uso nella predisposizione del cibo industriale precotto o semilavorato.
C’è dunque molto da fare, sul piano legislativo:
Sul piano fattuale:
E’ necessario anche stimolare la collaborazione fra produttori per penetrare più profondamente nel mercato, profittando anche della attuale crisi dei supermercati, minacciati dalla concorrenza di Amazon e simili. Non sarà facile anche perché gli oppositori non mancheranno e certamente i gruppi di pressione, anche a livello parlamentare nazionale, dagli industriali dell’alimentazione sono numerosi ed abili. Diceva Majakovskj, un grande poeta russo, che talvolta bisogna scegliere la strada più di facile perché più grande è la speranza. Poco importa che poi morì suicida, almeno ci aveva provato.
Un punto di vantaggio per ottenere una nuova normativa è la arretratezza della legislazione vigente in tema di artigianato, in presenza di due fonti normative, quella statale e quella regionale, anche se non pochi dubbi restano a proposito dell’ampiezza della seconda dopo la riforma costituzionale del 2001, con la completa scomparsa della materia artigianato sia tra le materie di competenza statale sia di quelle di competenza regionale concorrente. La spinta per norme più adeguate è sempre pi sentita ma l’iniziativa langue. Le regioni, dinanzi alla prospettiva di vedere impugnate leggi emanate in una zona grigia di competenze, hanno scelto di restare sul terreno più solido delle competenze amministrative e si sono limitate a regolare con proprie norme le funzioni amministrative relative all’artigianato prima esercitate dallo Stato.
La legge statale n. 445 del 1974, che pure all’art.1 demandava alle regioni la disciplina della materia, è rimasta di fatto la fonte normativa più importante se non esclusiva: la riserva di legge statale in tema di disciplina delle professioni e le norme del codice civile concernenti l’impresa artigiana hanno di fatto impedito una configurazione regionale della figura dell’artigiano e più ancora di disporre a proposito della qualificazione del prodotto artigianale come tale. Eccezioni a questo proposito non sono mancate a partire dalla legge della regione Puglia n.9 del 2014 che ha definito il frantoio oleario artigiano ed il mastro oleario come responsabile della sua gestione, e la legge regionale del Lazio n. 17 del 2016 già citata che ha definito implicitamente l’artigiano del cibo come colui che produce cibo in base alle tradizioni del territorio.
Si tratta di un primo passo su una strada che sarà molto lunga, ma che tuttavia non può non essere percorsa per le ragioni prima illustrate: occorre spostare l’attenzione del legislatore dalla qualificazione dell’azienda a quella del binomio azienda-prodotto. In altri termini si tratta di introdurre la possibilità di individuare in etichetta come artigianale il prodotto di aziende artigiane, e ciò in particolare per quanto riguarda i prodotti destinati alla alimentazione umana e conformi a disciplinari che non solo stabiliscano l’utilizzazione di componenti naturali ma escludono anche l’uso nelle lavorazioni di sostanze chimiche dannose alla salute. Quando ciò avverrà la qualificazione come artigianale di un prodotto alimentare costituirà la garanzia della sua non incidenza negativa sulla salute, in ciò differenziandosi dai prodotti industriali in cui è sempre maggiore il ricorso alla chimica (vedi ad esempio l’acido citrico ottenuto per sintesi e largamente utilizzato nelle marmellate e nei dolciumi).
Una soluzione del problema può essere la delega al governo ad emanare un decreto legislativo contenente le norme statali vigenti, opportunamente coordinate e integrate, in tema di produzione, commercializzazione e caratteristiche dei cibi, una normativa attesa da molti anni da tutte le categorie interessate. Nel 2006 una associazione di produttori ebbe un contributo da parte del Ministero dello sviluppo economico per la predisposizione di un progetto di codice degli alimenti restato senza seguito: maggiore successo potrebbe forse avere un progetto elaborato da una consulta del cibo di cui potrebbero far parte tutti i rappresentanto dei settori interessati.
Un ulteriore meta da conseguire è l’introduzione di meccanismi di qualificazione degli artigiani del cibo in modo da affinare le loro conoscenze professionali vincolandoli all’uso dei prodotti naturali, senza alcun ricorso ai prodotti di sintesi. Questo secondo obiettivo ben può essere conseguito con adeguate norme regionali mentre per il primo obiettivo sarà necessario il ricorso ad una integrazione da parte dello Stato della legge n.445. Per conseguire questi obiettivi saranno necessari approfondimenti tematici attraverso un dialogo tra tutti i comparti dell’artigianato alimentare tenendo presente che quanto stabilito per gli artigiani del cibo può fare da battistrada per lo sviluppo e la qualificazione professionale anche degli altri settori dell’artigianato. L’industria alimentare e non solo quella ha avuto sempre autorevoli intercessori presso i pubblici poteri che hanno reso flebili le voci degli artigiani: si può, si deve voltare pagina, pena la scomparsa dell’artigianato nel grande mare (grigio e non più azzurro) della produzione industriale.
Partiamo dalla convinzione che dal 2008, la lunga recessione che ci ha investito ha progressivament determinato un mutamento del mercato e dello stile di vita dei consumatori. Contestualmente la televisione e la stampa hanno registrato un crescente favore del pubblico per tutto ciò che ha a che fare con il cibo. E parallelamente sono nati eventi locali e internazionali che hanno richiamato e amplificato il valore del cibo. Ma mentre tutto cambia, nulla si muove nel vecchio sistema. Più il consumatore chiede garanzie più scopre che il cibo sullo scaffale non ne offre alcuna.
L’obiettivo che dobbiamo perseguire, sul piano legislativo statale e regionale, è quello di elaborare e promuovere norme che leghino la artigianalità del prodotto non solo alle caratteristiche dell’azienda ma anche del processo produttivo e all’origine naturale delle materie prime utilizzate. È necessario promuovere una iniziativa politico-legislativa tendente a cambiare leggi, vecchie e superate, quando non addirittura anticostituzionali, per creare le condizioni che possono favorire la nascita e lo sviluppo di nuovo mercato, il mercato di un cibo sano, buono e nutriente, al giusto prezzo, garantito dalla trasparenza e tracciabilità della filiera produttiva, dalla corrispondenza tra indicazioni dell’etichetta e contenuto della confezione, dalla garanzia della pubblica autorità sulla non tossicità dei prodotti, nel quadro del riconoscimento dei diritti
della persona.
Sul piano fattuale riteniamo necessaria la promozione di iniziative di settore ed intersettoriali per la diffusione della conoscenza fra i consumatori del prodotto artigianale e delle sue caratteristiche, anche in rapporto alla tutela della salute. In questo contesto un ruolo significativo possono svolgere i ristoratori, gli chef, i maitre, i sommelier, tutti i professionisti che sono in grado di “raccontare” il cibo, di educare il gusto.
Il vecchio sistema commerciale è entrato in crisi: elaboriamo idee nuove per lo sviluppo. Cominciamo noi, consumatori, distributori, artigiani e agricoltori: una nuova alleanza per far nascere “Artigiani del Cibo”: potrebbe essere una nuova catena della Distribuzione Organizzata, così come esiste la catena “Natura Si” per i prodotti biologici, oppure nel format degli shop in shop come il “Viaggiator goloso” nell’”Iper” di Arese. Qualunque sia il format il supermercato del cibo artigianale partirà dalle storie dei prodotti. Oggi le informazioni arrivano al consumatore in modo frammentato e parziale, mentre nel supermercato degli artigiani i prodotti stessi potranno raccontare la loro storia.
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