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Baffi e Sarcinelli: vendetta “politica” tra potere e finanza?

Baffi e Sarcinelli subirono una vendetta politica e dei poteri della finanza per il loro secco no a Sindona ed agli interessi della P2? Cosa si cela dietro l’incriminazione di Baffi e Sarcinelli? Ci fu un coinvolgimento di Sindona, della P2 e di Licio Gelli? Giocò un ruolo anche Andreotti?

Baffi e Sarcinelli, ai vertici della Banca d’Italia imputati di reati gravissimi: vendetta politica?

24 marzo 1979: il giudice istruttore presso il Tribunale di Roma Antonio Alebrandi emette mandato di cattura a carico di Marco Sarcinelli, Vice Direttore Generale della Banca d’Italia, per interesse privato e favoreggiamento: Sarcinelli viene tradotto a Regina Coeli, il carcere romano.

Paolo Baffi, Governatore della Banca, coimputato di Sarcinelli, in considerazione dell’età (ha 68 anni) viene denunciato a piede libero. Le accuse sono molto pesanti: è la prima volta che i vertici della Banca d’Italia sono imputati di reati perseguibili penalmente e che un altissimo dirigente della Banca viene arrestato.

Il fatto determina un enorme scalpore. I tentativi di ricostruzione di quanto accaduto sono molteplici ed altrettanti molteplici le chiavi di lettura possibili e comunque tentate negli anni successivi: le disavventure finanziarie di Nino Rovelli e della sua S.I.R., quelle dei fratelli Gaetano e Francesco Caltagirone, due costruttori romani, e soprattutto la vicenda di Michele Sindona.

Casi così diversi hanno in comune l’atteggiamento di assoluto rigore di Baffi e Sarcinelli rispetto al tentativo di mettere una pietra sopra a quanto accaduto negli anni precedenti e di ripianare con denaro pubblico le perdite subite da imprenditori e banchieri abituati ad ottenere tutto attraverso forti appoggi politici.

Per tentare una ricostruzione dei fatti accaduti nell’ormai lontano 1979 occorre dunque partire dalle vicende finanziarie che li precedettero.

Cos’era Italcasse e come venne gestita?

Una delle roccaforti, se non la principale, del potere politico nel settore del credito negli anni ’60, gli anni del boom economico, anche per i notevoli mezzi monetari a disposizione era l’Italcasse (abbreviazione di Istituto di credito delle Casse di risparmio) fondata nel 1919 per raccogliere le eccedenze di liquidità delle casse di risparmio (un tempo anche dei Monti su pegno) e le loro riserve obbligatorie, compito quest’ultimo spettante per tutte le altre banche alla Banca d’Italia. Era un fiume di denaro che affluiva per essere impiegato in finalità pubbliche.

Accanto all’Italcasse e per il perseguimento delle stesse finalità operavano l’I.M.I. (Istituto mobiliare italiano), costituito nel 1929, un istituto di credito controllato dal Ministero del Tesoro attraverso la Cassa depositi e prestiti per sostenere il sistema industriale e l’I.C.I.P.U. (Istituto di credito per le opere di pubblica utilità), che con Crediop (Consorzio di credito per le opere di pubblica utilità ) aveva come fine istituzionale il finanziamento di opere pubbliche.

L’anello più debole del sistema era l’Italcasse, già nel 1956 coinvolto in due presunti fallimenti, quello di Giuseppe Moceo che con la sua Minerva Film rimase debitore, dopo il fallimento della società, di molti miliardi, e quello del costruttore romano Mario Vaselli, anche lui fallito con un notevole passivo.

La Banca d’Italia autorizzò un aumento di capitale (da 89 milioni a 60 miliardi) sottoscritto dalle Casse di risparmio italiane per ripianare le perdite: un rapporto riservato del servizio di Vigilanza della Banca sequestrato dall’autorità giudiziaria in relazione alla vicenda Vaselli, fornì per la prima volta la prova di un finanziamento dell’Italcasse ad un partito (il M.S.I. per settanta milioni) e di conti aperti con un passivo di 900 milioni che sembra, ma non furono raggiunte le prove, fossero utilizzati dalla D.C..

Nuovo direttore generale fu (1957) nominato Giuseppe Arcaini, già consigliere dell’Istituto centrale finanziario (la “finanziaria” dell’Azione cattolica) e sottosegretario (democristiano) al Ministero del Tesoro con i Governi presieduti da Scelba, da Fanfani, e da Segni. Presidente dell’Istituto nel 1966 venne nominato Edoardo Calleri di Sala, ex Presidente della Cassa di risparmio di Torino, coinvolto nel disastro finanziario della ” Gazzetta del popolo” (un miliardo di lire all’epoca di deficit).

La “gestione Arcaini” non segnò alcuna novità quanto ai criteri nella concessione dei mutui per motivazioni più politiche che economiche: dal 1965 al 1974, secondo alcune stime, furono erogati con questi criteri quasi 31 miliardi di lire dell’epoca: certo è che come risulta da una relazione degli ispettori della Banca d’Italia, vennero erogati senza adeguate motivazioni economiche 5 miliardi e mezzo di cui un miliardo e centoquarantamilioni andati “inequivocabilmente a varie organizzazioni politiche”.

I fratelli Caltagirone

Tra coloro che trassero benefici da questa gestione vi fu un costruttore romano, Gaetano Caltagirone, in società con il fratello Francesco: le loro imprese ottennero finanziamenti per 210 miliardi di lire del tempo di cui ne saranno recuperati, dopo molti anni, ben pochi. Nei primi anni ’70 iniziò la presentazione di interrogazioni parlamentari tendenti a scardinare in qualche modo il sistema di potere politico-economico che faceva leva sugli Istituti di credito pubblici e sul’Italcasse in particolare.

Non era semplice: nel luglio 1977, rispondendo ad una interrogazione presentata alla Camera dei deputati a proposito della concessione dei crediti da parte dell’Italcasse, il sottosegretario al Tesoro Abis fece rilevare che l’Istituto era una società di diritto privato, gestita secondo criteri privatistici che escludevano la possibilità di intervento delle autorità politiche, affermazione questa formalmente ineccepibile, e successivamente confermata da una sentenza della Corte di Cassazione, ma che nulla diceva a proposito della vigilanza della Banca d’Italia sull’Istituto e sull’inchiesta da essa effettuata, con esiti estremamente negativi, già tre anni prima.

Alla fine l’Italcasse perdeva, secondo alcune valutazioni, circa 1.200 miliardi, una cifra enorme per quel tempo. Il direttore generale Arcaini, all’inizio del 1978 di dimise per sfuggire ad un mandato di cattura emesso nei suoi confronti.

I finanziamenti ai partiti politici della maggioranza parlamentare continuarono.

Cinque autorizzazioni a procedere nei confronti di altrettanti appartenenti ai partiti stessi sarranno bloccate negli anni successivi per vizi di forma: Luciano Infelisi, sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Roma, all’inizio del 1978 aprì un’inchiesta sull’Istituto di credito, Arcaini, colpito da mandato di cattura si rese irreperibile: morì nel febbraio 1978 in una villa presso Milano dove viveva rifuggiato.

Il tentativo di salvataggio dei Caltagirone

Direttore generale del’Italcasse venne nominato Giampaolo Finardi, che tentò il salvataggio dei Caltagirone avvalendosi di una società, la “Flaminia Nuova” di proprietà di personaggi accusati di rapporti con uomini della mafia.

A spiegare il tentativo sta il fatto che, secondo quanto scrisse Moro in una delle sue lettere dal carcere delle “Brigate Rosse”, la successione ad Arcaini fu decisa da Gaetano Caltagirone, a favore del quale intervenne anche Franco Evangelisti, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio durante il 1° ed il 2° Governo Andreotti (1972-1974).

E’ certo che Evangelisti ricevette trenta milioni da Caltagirone, che ne aveva già versati quindici a Pecorelli per farlo desistere dalla sua avversa campagna di stampa su “O.P.”

Irrisolto è restato invece il fatto di alcuni assegni con nomi di comodo fatti pervenire ad Andreotti e da lui girati allo stesso Pecorelli alla vigilia del suo assassinio (20 marzo 1979).

Nel marzo 1978 Finardi fu costretto a dare le dimissioni: Sarcinelli, responsabile della vigilanza sul credito della Banca d’Italia di cui era divenuto Vice direttore generale, dispose per l’Italcasse l’amministrazione controllata.

Furono nominati tre commissari (Rodolfo De Mattia, Giorgio Calle, Cesare Rossigni) i quali scrissero subito a Caltagirone invitandolo a pagare i suoi debiti: la risposta fu una lettera sdegnata.

Il debito con l’Itlacasse resterà insoluto: il denaro, secondo una relazione presentata dai tre commissari il 6 aprile 1979, era finito direttamente nelle tasche dei fratelli Caltagirone.

La loro società venne dichiarata fallita, i Caltagirone riuscirono ad evitare l’arresto, 600 miliardi complessivi di debiti e oltre 100 miliardi di imposte inevase saranno solo parzialmente coperte dalla vendita del patrimonio edilizio della miriade di società create dalla fertile fantasia dei due costruttori.

A nominare i commissari all’Italcasse era stato Sarcinelli, che nel 1978 aveva disposto un’ispezione all’Istituto di credito. Il Governatore Baffi aveva avallato la decisione di Sarcinelli. Sono fatti da tener presenti per la piena comprensione degli avvenimenti successivi.

Nino Rovelli e la S.I.R.

A beneficiare negli anni ’60 del “credito facile” dell’Italcasse non furono solo i fratelli Caltagirone. Nino Rovelli, partito da una piccola industria chimica (la Brill), ottenne crediti dall’Italcasse e dall’I.M.I. per centinaia di miliardi, oltre che contributi a fondo perduto dallo Stato, per dar vita, attraverso una miriade di piccole società alla costruzione di stabilimenti chimici in Sardegna e, in misura minore, nell’Italia meridionale.

In pochi anni Rovelli, legato ad una parte della DC (Andreotti e Cossiga: v. Ruju) e del PSI (Giacomo Mancini) divenne anche proprietario di due giornali sardi (“Nuova Sardegna”, “Unione Sarda”) tentò la scalata al “Corriere della Sera (Pansa, Comprati e Venduti; Milano 1977) ed addirittura nel 1974 di sostituire Cefis alla Presidenza della Montedison, in cui acquistò un cospicua partecipazione azionaria (superiore all’otto per cento) con denaro avuto dall’ENI attraverso la Banca Commerciale di Lugano di proprietà dello stesso Rovelli (II Globo, 28 settembre 1974) dopo averne acquistato la quota di minoranza da un notissimo uomo politico italiano (secondo alcuni Andreotti).

La crisi del petrolio, con un notevolissimo aumento del prezzo delle materie prime (tra il 1972 ed il 1978 sei volte, mentre il prezzo dei prodotti chimici aumentò solo di una volta e mezza) e gli errori del Piano chimico nazionale, notevolmente sovradimensionato quanto ai fabbisogni e che costituiva tuttavia l’alibi formale per la concessione dei finanziamenti, segnarono la fine della S.I.R. che nel 1967 aveva assorbito anche la vecchia Rumianca ed aveva in corso di realizzazione nuovi insediamenti in Sardegna.

Già nel 1976 nella conferenza del P.C.I. sulla chimica Giuseppe D’Alema aveva definito la S.I.R. il “caso più clamoroso di parassitismo industriale”. All’inizio del 1977 la rivista “OP” di Mino Pecorelli pubblicò un articolo in cui si preannunciava il crollo dell’Impero di Rovelli.

Un documento del 1977 firmato da C.A. Ciampi e da Luigi Cappugi, noto economista di tendenze moderate, sosteneva la necessità di ridurre i finanziamenti alla chimica, divenuta ormai un pozzo senza fondo di denaro pubblico.

L’inchiesta del sostituto procuratore Infelisi sull’Italcasse non poteva non toccare anche la S.I.R., fortemente indebitata con l’Istituto, così come con l’I.M.I. e con il Credito industriale sardo. Nel 1975 la società aveva 1.175 milioni di fatturato netto annuo contro un indebitamento di 934 milioni in lire dell’epoca, con una perdita annua di 309 milioni: tuttavia continuava ad ottenere finanziamenti pubblici “in funzione anticiclica”. Nel 1977 la Società aveva immobili in esercizio per 1.050 miliardi contro 1.829 miliardi impegnati per immobili in costruzione.

Il 18 giugno 1977 nella sede di Mediobanca vi fu una riunione dei creditori della società che decisero, con il consenso dell’I.M.I. di ridurre i piani di finanziamento per la chimica, ma il progetto non ebbe l’adesione di Rovelli, che intendeva assolutamente portare a compimento l’opera iniziata.

Si trattava, a dire il vero, di un tentativo quasi riuscito: nel dicembre 1977 il Presidente della Montedison Giuseppe Medici comunicò a Rovelli il suo ingresso nel comitato di controllo della società, ciò che significava l’ingresso ufficiale di Rovelli, un tempo produttore di lucido da scarpe, tra i grandi personaggi della finanza italiana.

Fu però una gioia amara per il Presidente della S.I.R. il giorno prima il p.m. Infelisi aveva aperto una indagine giudiziaria sulla Società, tanto da far affermare a taluni commentatori che, ottenuta la vittoria su Cefis, che nell’aprile 1977 aveva abbandonato la Montedison, il grande capitale italiano, Fiat in testa, non aveva più alcun bisogno di Rovelli e che l’inchiesta, seguita da alcune interpellanze del senatore democristiano di fede fanfaniana Carollo a proposito dei debiti della S.I.R., era una vittoria di Fanfani su Andreotti, notoriamente amico di Rovelli.

Rovelli, colpito da mandato di cattura per bancarotta fraudolenta fuggì a Zurigo dove morirà il 30 settembre 1990.

La S.I.R. non venne dichiarata fallita: l’I.M.I., che aveva investito nella Società il 50 per cento dei suoi finanziamenti nel settore chimico, e le tre Banche di interesse nazionale (Credito Italiano, Banca Commerciale, Banco di Roma) formarono nel 1979 un consorzio che si accollò i debiti della Società (complessivamente 3.500 miliardi di lire del tempo) successivamente venduta all’E.N.I. al prezzo simbolico di una lira, con il patto che, trascorsi tre anni la società sarebbe stata oggetto di valutazione per determinare il prezzo di vendita secondo il suo valore reale. Ciò però non avvenne, la valutazione non fu effettuata e Rovelli (prosciolto in istruttoria dalle accuse di carattere penale) iniziò, ed i suoi eredi continuarono, un’azione giudiziaria contro l’I.M.I., accusato di non aver ottemperato ad una convenzione del 1979 che prevedeva il risanamento della società.

Nel 1986 il Tribunale di Roma condannò al risarcimento del danno e la sentenza fu
confermata dalla Corte d’Appello e nel 1992 dalla Corte di Cassazione. L’I.M.I. pagò agli eredi di Rovelli 980,3 miliardi di lire, ma la Procura di Milano ha riaperto il caso ritenendo che la sentenza della Cassazione fu il frutto di una tangente di 66,8 miliardi di lire. “Il risarcimento dello stato, corrispondente a circa mezzo miliardo di euro odierni, non venne mai rimborsato dalla famiglia Rovelli e se ne perse subito traccia poiché tale denaro venne repentinamente trasferito in conti esteri. La storia del «tesoro di Rovelli» è tornata alla ribalta nel 2017 grazie ai Paradise Papers, con i quali si è riusciti ad individuare quel denaro nelle isole Cook” (fonte Wikipedia).

L’affare Sindona

Michele Sindona emerge nell’orizzonte finanziario italiano agli inizi degli anni ’60, quando diventa socio della Banca privata finanziaria, una piccola banca milanese di proprietà di Ernesto Mozzi e Mino Brughiera, agente di cambio il primo e ex amministratore delegato di una grande banca il secondo.

E’ il primo autentico successo di Sindona, avvocato nato a Patti nel 1920 e arrivato a Milano nel 1946 dopo una breve esperienza presso uno studio legale di Messina. Negli anni della giovinezza trascorsi in Sicilia, secondo alcune ricostruzioni, avrebbe avuto modo di entrare in contatto con agenti dell’allora O.S.S. (poi C.I.A.) incaricata di preparare lo sbarco alleato nell’isola: certo è che nelle successive vicende del banchiere appaiono più volte, e forse non a caso, con ruoli di primo piano ex agenti segreti alleati, dall’americano Max Corvo, che aveva operato in Sicilia, agli inglesi Jocely Hambro, banchiere un tempo membro del S.O.E. (Special Operations Executive) che da Berna teneva i contatti con la Resistenza europea , a Jonh Mc Coffery,un cattolico irlandese fervente anticomunista che teneva i contatti con i capi partigiani in Italia.

E’ con l’aiuto determinante degli Hambro che Sindona nel 1965 diventa comproprietario della B.P.F. e poi, nel 1973, unico proprietario di essa tramite la Fasco, una società finanziaria interamente di sua proprietà.

Nel 1968 Sindona acquista la Banca Unione della famiglia Feltrinelli: il capitale della banca tra il 1970 ed il 1971 viene elevato da 840 a 2.520 milioni con una partecipazione del sedici per cento dello 1.0.R., la banca vaticana.

Nel 1971 l’avvocato siciliano acquista con Mark Antinucci e il generale dell’aereonautica statunitense Sory Smith il “The Rome Daily American”, sospettato di legami con la C.I.A.: sarà del resto la commissione d’inchiesta del Senato americano sulle operazioni “coperte” della C.I.A. ad affermare che Sindona aveva distribuito nel 1972 111 milioni avuti dalla CIA a 21 uomini pubblici italiani di sicura fede anticomunista.

Nel 1969, nel timore delle nuovi leggi italiane che tasseranno anche le azioni delle società italiane in cui la Santa Sede ha investito le somme ricevute dal Governo Italiano al momento del Trattato del Laterano, firmato insieme al Concordato del 1929, Paolo VI ordina di vendere le partecipazioni vaticane nella Società generale immobiliare, nella Società Condotte d’acqua, una delle più grosse imprese edili del mondo, e nelle Ceramiche Pozzi, una società che versa in una pessima situazione economica. Sindona, attraverso Massimo Spada, amministratore apostolico, da quel momento suo fedele amico, acquista nel 1969 le tre società.

Nel 1971 tenta la scalata alla Bastogi, il “salotto buono” del capitalismo italiano, nel cui consiglio di amministrazione siedono tutti i grandi esponenti del mondo finanziario ed industriale italiano.

Il tentativo viene bloccato da Guido Carli, Governatore della Banca d’Italia, che rifiuta di vendere le azioni Bastogi di proprietà del Fondo pensioni della Banca ed invita le banche pubbliche a fare altrettanto. Per intervento della Banca d’Italia, che rifiuta il necessario assenso, viene anche impedito a Sindona l’acquisto dalla famiglia Armenise della Banca nazionale dell’agricoltura.

Riesce invece il tentativo di Sindona di acquisire a quello che sta diventando un impero un’altra società finanziaria di indubbia importanza strategica come “La Centrale”.

Tra febbraio e marzo dello stesso 1971 Sindona subisce però un duro colpo: gli Hambro, per questioni interne alla famiglia, gli ritirano il loro appoggio.

Quasi una risposta è l’acquisto nel 1972 da parte di Sindona, a quanto da lui affermato (Calabrò, “Le mani della mafia”) con denaro versatogli da Roberto Calvi, amministratore delegato del Banco Ambrosiano per la vendita della Zitrapo, una società finanziaria che deteneva azioni del Credito Varesino e della Pacchetti, altra società finanziaria, oltre che diritti di opzione Invest e Banca cattolica del Veneto e sul pacchetto azionario di controllo della Toro Assicurazioni.

I rapporti Calvi-Sindona non sono mai stati chiariti in modo definitivo: da soci in molti affari, entrambi iscritti alla Loggia Massonica P2, divennero acerrimi nemici, che si scambiarono pesanti accuse a proposito del disastro finale cui entrambi, ciascuno per la sua strada andarono incontro.

Certo è che all’inizio degli anni ’70 Sindona, attraverso la Finambro controllava un vero impero finanziario, con una miriade di società costitute nei paradisi fiscali per drenare capitali sotto forma di depositi dalle società controllate da investire nell’acquisto di altre società finanziarie e banche, in una sorta di spirale senza fine.

Ne derivava una perenne destabilizzazione del mercato finanziario con illusori aumenti delle quotazioni di borsa preordinati solo ad attirare i capitali dei piccoli risparmiatori.

Solidi ancoraggi per garantirgli la necessaria libertà d’azione, nel rispetto (quando c’era) solo formale della legge erano per Sindona gli interessi a tassi superiori a quelli di mercato corrisposti alle Banche I.R.I. per i fondi depositati nelle sue banche in modo da pagare con la differenza provvigioni e tangenti.

Altri ancoraggi erano costituiti da stretti rapporti, attraverso Massimo Spada, con la finanza vaticana e l’appartenenza alla P2 di Licio Galli, presentatogli nel 1974 da Vito Miceli, a quel tempo a capo dei servzi segreti militari. Cospicui finanziamenti alla D.C. delle banche di Sindona furono restituiti solo nel 1980.

Una ispezione condotta dalla Banca d’Italia presso la Banca finanziaria nel 1972 si concluse, malgrado i risultati disastrosi, in un nulla di fatto. La Banca d’Italia non applicò nemmeno le previste sanzioni amministrative e trasmise gli atti sugli illeciti penali alla magistratura solo nel febbraio 1973.

Nell’ottobre 1974 fu emesso contro Sindona un mandato di cattura, quando il finanziere si trovava già all’estero prima a Ginevra e poi a Taipeh, da dove non c’era il rischio di essere estradati. Il 25 giugno 1976 sarà condannato per quei reati a tre anni e sei mesi di reclusione.

Fino ai primi anni ’70 il potere di Sindona sembrava senza limiti: ancora nel 1974, su sollecitazione di Andreotti, secondo le dichiarazioni successivamente rese da Fanfani alla Commissione parlamentare d’inchiesta, ottenne la nomina di Mario Barone ad amministratore delegato del Banco di Roma.

In realtà l’impero già scricchiolava. In Svizzera la Finabank, usata da Sindona per molte transazioni internazionali era tenuta sotto stretto controllo e nel mese di maggio 1974 la Securities and Exchange Commission aveva sospeso la FranKlin Nazional Bank dalle quotazioni. Per tentare di tamponare le falle nel mese di giugno Sindona ottenne dal Banco di Roma un prestito di 100 milioni di dollari dando in pegno la maggioranza delle azione della Banca Unione, in cui nel 1973 aveva fuso la Banca privata finanziaria.

Il tentativo di Sindona di ottenere l’autorizzazione ad un aumento di capitale della Finambro per procurarsi “denaro fresco” destinato a tamponare le falle più pericolose non ebbe seguito per la dura opposizione di Ugo la Malfa, Ministro del Tesoro: ciò non impedì a Sindona di vendere le azioni (inesistenti) della sua società come se l’aumento di capitali fosse stato autorizzato, promettendo la loro successiva consegna.

Una ispezione della Banca d’Italia (luglio 1974) accertò il disastro della Banca che aveva perso completamente il capitale sociale: il 24 settembre la Banca privata italiana che aveva assorbito la Banca privata finanziaria, fu messa in liquidazione coatta amministrativa e Sindona denunciato all’autorità giudiziaria.

Il 24 ottobre il sostituto procuratore Guido Viola emise contro Sindona mandato di cattura per bancarotta fraudolenta. Il 4 ottobre il giudice istruttore Urbisci emise un altro mandato di cattura per falsità in scritture contabili, false comunicazioni di bilancio e illegale ripartizione degli utili.

Nel 1975 il liquidatore Giorgio Ambrosoli, un avvocato milanese che pagherà con la vita lo scrupolo usato nell’assolvere l’incarico, accertò un passivo di 531 miliardi, compresi 17 miliardi di spettanza della 1.0.R., contro un attivo di 281 miliardi.

Nell’ottobre dello stesso anno Ambrosoli mise a segno il colpo decisivo nella conoscenza dell’impero finanziario di Sindona con il sequestro presso la Finabank di Ginevra delle azioni della Fasco, la cassaforte dei Sindona. Anche le sue due banche tedesche (la Wolf e la Herstatt) erano in difficoltà, mentre la Franklin già nel 1974 era stata venduta per 125 milioni di dollari ad un consorzio di banche europee.

Sindona sembrò non tener conto di quanto stava avvenendo. Rifiutò la cessione della sua banca al Banco di Roma per la simbolica somma di 1 lira e propose la fondazione di una nuova banca, la Banca oltremare, attraverso la quale le tre banche dell’I.R.I. (Credito Italiano, Banco di Roma, e Banca Commerciale) e l’I.M.I. avrebbero dovuto “salvare” la B.P.I.: la proposta non ebbe seguito per l’opposizione delle banche I.R.I.

L’intervento di Licio Gelli

Nel 1926 entrò in scena Gelli: Sindona invitò il suo avvocato, Rodolfo Guzzi a prendere contatto con lui per ottenere gli aiuti necessari per il salvataggio. Nel mese di agosto due italo-americani, Paul Rao e Philips Guarino si recarono dal Presidente del Consiglio Andreotti per richiedere a nome degli italo-americani di bloccare la richiesta di estradizione di Sindona dagli Stati Uniti in quanto vittima di un complotto comunista e si recarono poi da Gelli a riferire sul colloquio.

Il 26 settembre 1976 la Corte di Appello di Milano confermò l’insolvenza della Banca privata italiana per 258 miliardi e la Corte di Cassazione respinse un ricorso di Sindona contro l’ordinanza del giudice istruttore che rigettava l’istanza di sospensione dell’azione penale.

Nel gennaio 1978 Sindona propose un nuovo piano di salvataggio della B.P.F.: la Capisce, una società di Sindona avrebbe dovuto essere acquistata dal banco di Roma che avrebbe dovuto versare 40 miliardi per transigere controversie con la società acquistata. Anche questa proposta non ebbe seguito.

L’8 maggio 1978 Ambrosoli presentò la sua seconda relazione, in cui tra l’altro si insisteva per l’estradizione di Sindona: a bloccarla c’era un affidavit del 1976 con illustri firme (Carmelo Spagnolo, Procuratore capo della Repubblica di Roma, Flavio Orlandi, Segretario del P.S.D.I., Edgardo Sogno, un diplomatico italiano sospettato di organizzare “golpe in Italia”, Philip Guarino ed altri) concordi nel chiedere che Sindona fosse sottratto alle persecuzioni dei comunisti in Italia.

Il 15 luglio l’avvocato Rodolfo Guzzi, legale di Sindona, incontrò Andreotti per sollecitare una soluzione favorevole al suo cliente: il Presidente del Consiglio lo invitò a rivolgersi a Stammati, in quel momento Ministro dei lavori pubblici, già Ragioniere Generale dello Stato e Presidente di Mediobanca.

Il 5 settembre Sarcinelli venne ricevuto da palazzo Chigi da Franco Evangelisti, Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio che aveva incontrato a New York Sindona.

Evangelisti mostrò a Sarcinelli una serie di documenti per la “sistemazione della situazione finanziaria di Sindona”. Sarcinelli chiese di esaminare i documenti per studiarli, Evangelisti si riservò di fargli sapere se fosse possibile fornirglieli ed il giorno successivo gli fece sapere che l’invio di “quelle carte” non era più necessario.

L’11 gennaio 1979 nuovo incontro a Palazzo Chigi tra Evangelisti e Sarcinelli: si parlò nuovamente dell’intervento a favore di Sindona delle tre banche di interesse nazionale ma Sarcinelli bloccò qualunque tentativo di soluzione chiedendo chi avrebbe reso alla Banca d’Italia i 126 miliardi che sarebbe andati a suo carico.

La pressione su Ciampi, direttore generale della Banca d’Italia dal 1978, Sarcinelli e Baffi affinché consentissero al “salvataggio” di Sindona attraverso la Banca d’Italia si fece sempre più forte ma senza risultati.

Il 20 marzo 1979 Sindona venne incriminato negli Stati Uniti per il fallimento della Franklin Bank (il 23 marzo 1980 sarà condannato a 25 anni di carcere).

In Italia le cose per lui non andarono meglio: dopo il colloquio Ambrosoli-Sarcinelli dell’ 11 gennaio 1979, Ciampi riferì a Stammati che l’incontro da lui sollecitato con l’avvocato Guzzi e alla presenza dello stesso Stammati non avrebbe potuto aver luogo. Sarcinelli aveva già preannunciato ad Ambrosoli che piuttosto che cedere alle richieste di Sindona si sarebbe dimesso.

L’11 luglio 1979 a Milano viene ucciso l’avv Ambrosoli: del delitto verrà accusato William J Arico, giunto dagli Stati Uniti per commettere il delitto. Arrestato l’8 dicembre 1979 mentre stava rapinando una gioielleria, morì il 10 febbraio 1984 mentre stava tentando di fuggire dal carcere. Per l’omicidio aveva ricevuto 25.000 dollari di anticipo ed altri 90.000 successivamente.

Il mandante era stato Sindona e l’intermediario negli Stati Uniti Robert Venetucci, un trafficante di eroina (entrambi saranno condannati all’ergastolo nel 1986 dalla Corte d’Appello di Milano, condanna confermata in Appello il 5 marzo 1987).

Dopo un finto rapimento nell’estate 1979 da parte di un “gruppo proletario” imprecisato che mascherava un clandestino soggiorno in Sicilia ed il suo successivo ritorno negli Stati Uniti, il 13 ottobre 1985 Sindona venne arrestato ed estradato in Italia.

Il 15 marzo 1985 venne condannato a 15 anni di reclusione per la bancarotta della B.P.F., cui seguì la condanna all’ergastolo per l’omicidio Ambrosoli. Non sconterà la condanna inflittagli: il 22 marzo 1986 morirà per avvelenamento nel carcere di Voghera, ufficialmente per suicidio.

La liquidazione della B.P.F. si è conclusa nel luglio 1987 con la cessione del residuo attivo alla Banca Commerciale Italiana.

L’incriminazione di Baffi e Sarcinelli: vendetta politica tra potere e finanza?

Quando, il 24 marzo 1979 il Giudice istruttore Alibrandi incrimina formalmente Baffi e Sarcinelli i tre commissari nominati all’italcasse stanno lavorando alacremente per accertare la situazione, tra gli altri, di due “debitori” eccellenti e con solide amicizie politiche (Caltagirone e Rovelli) mentre, dopo il colloquio dell’11 gennaio Ambrosoli-Sarcinelli ed il rifiuto di quest’ultimo di ricevere l’avv. Guzzi (30 novembre 1978) Sindona percepisce chiaramente di non poter contare sulla Banca d’Italia per uscire dal vicolo cieco in cui ormai di è cacciato.

Né Baffi né Sarcinelli facevano parte di quel mondo politico-affaristico in cui il finanziarie siciliano ed i grandi creditori degli istituti di credito pubblici avevano solidi punti di riferimento.

Baffi era diventato Governatore il 19 agosto 1975, dopo le dimissioni di Guido Carli, ormai logorato nella sempre più difficile opera di mantenimento degli equilibri in un sistema finanziario messo a dura prova dall’aumento del prezzo del petrolio all’inizio degli anni ’70 e dalla pressione delle autorità politiche tesa ad evitare scontri sociali che avrebbero resa ancora più difficile la situazione politica.

Carli, in nome del mantenimento degli equilibri politici e sociali, aveva assicurato il sostegno della Banca di’ltalia, anche con notevoli aggravi finanziari, ogni volta che si era trattato di evitare fallimenti che fatalmente avrebbero prodotto disoccupazione, anche quando ciò aveva significato chiudere un occhio sulle cause dei dissesti e sulla validità economica delle iniziative industriali finanziate dal sistema bancario spesso solo per pressioni politiche.

Baffi, anche se designato di fatto da Carli per la carica di Governatore, sembrò subito non intenzionato a seguire pedissequamente le orme del suo predecessore anche se, come avvenne con Rovelli, continuò ad erogare finanziamenti a chi già si trovava in una difficile situazione finanziaria, rendendosi conto che vi erano interessi generali, come quello dell’occupazione nelle zone meno sviluppate economicamente del Paese come la Sardegna che era necessario tener ben presenti prima di determinare il fallimenti di industrie (come la S.I.R.) che dava lavoro a molte migliaia di persone.

Mario Sarcinelli, nominato nel 1978 Vice direttore generale con la specifica responsabilità della vigilanza sull’esercizio del credito, (direttore generale nello stesso anno era stato nominato Carlo Azeglio Ciampi) era persona ancora meno incline al compromesso di Baffi, anche se, come risulta dal suo diario, si rendeva ben conto delle conseguenze per lui negative che la sua intransigenza gli avrebbe potuto procurare.

Andreotti dietro l’incriminazione di Baffi e Sarcinelli?

Secondo le valutazioni espresse sia al momento della incriminazione sia successivamente, si trattò di un atto che poteva avere motivazioni oggettive in quelle che Andreotti ha chiamato recentemente “incomprensioni” tra Banca d’Italia e magistratura (si parlò specificatamente di un rifiuto della Banca a consegnare al magistrato gli atti di una ispezione effettuata presso il Credito industriale sardo, che aveva finanziato largamente Rovelli).

La chiave di lettura fu eminentemente politica: si erano colpiti se non i nemici quanto meno i “non amici” della classe politica dominante.

Un eco di queste tipo di valutazioni è nel diario di Ambrosoli, che riferisce il commento, non smentito, di Mario Barone, molto vicino a Sindona: il rifiuto di Sarcinelli di incontrare Guzzi era stato, secondo Barone, la goccia che aveva fatto traboccare il vaso.

Il 5 aprile Sarcinelli venne posto in libertà provvisoria ma il 17 aprile una successiva ordinanza del Giudice Istruttore Alibrandi lo sospese dall’ufficio di vice direttore gemerale della Banca d’Italia.

Su richiesta del governatore Baffi, il Presidente del Consiglio Andreotti, prospettò al Giudice Istruttore l’opportunità di revoca della sospensione precisando che, ove riammesso in servizio, Sarcinelli non avrebbe avuto più compiti inerenti alla vigilanza del credito.

Il 6 novembre la sezione istruttoria della Corte d’Appello di Roma dispose la scarcerazione di Sarcinelli per mancanza di indizi. Il 4 maggio 1981 il Giudice Istruttore revocò l’ordinanza di sospensione di Sarcinelli: la motivazione fu che, considerando il tempo trascorso, la pena accessoria della sospensione rischiava di avere durata maggiore della pena principale che “eventualmente potrà essere inflitta” al Vice direttore generale della Banca d’Italia.

Baffi si era già dimesso nell’agosto 1979 da Governatore ed al suo posto era stato nominato Lamberto Dini. Solo il 9 giugno 1981 sia Baffi che Sarcinelli vennero prosciolti da ogni addebito.

In una lettera a Massimo Riva il 3 marzo 1983 (Panorama, 11 febbraio 1999) Baffi scrisse che avrebbe dovuto accorgersi “della potenza del complesso politico-affaristico giudiziario che mi ha battuto”.

Il 17 luglio 1984, nell’ordinanza di rinvio a giudizio di Sindona i p.m. Giuliano Turone e Gherardo Colombo annotano che “Ambrosoli e Sarcinelli avevano “saputo dire un secco “no” a Sindona” e che la vicenda giudiziaria di Baffi e Sarcinelli poneva inquietanti interrogativi, stante il fatto che i loro comportamenti erano contrari agli interessi della P.2 espressi da Calvi e Sindona, così come erano contrari a qualsiasi soluzione delle loro avventure finanziarie in contrasto con l’interesse pubblico ed erano stati oggetto di violenti attacchi da parte del settimanale “O.P.” a proposito della vicenda dei finanziamenti alla S.I.R. di Rovelli.

I due magistrati nella loro ordinanza disposero per questi motivi l’invio dell’ordinanza stessa e degli atti rilevanti sotto il profilo della vicenda Baffi-Sarcinelli alla Procura generale della Repubblica presso la Corte d’Appello di Roma affinché valutasse “l’opportunità di approfondimento di quella vicenda”. La trasmissione degli atti non ebbe alcune seguito.

Su “Panorama” del 13 dicembre 1977 Pietro Craveri scrisse che nella vicenda “La procura di Roma fu in effetti il braccio legale di una operazione politica condotta da Andreotti… a protezione di interessi affaristici diversi che investivano la S.I.R., l’Italcasse, Caltagirone e Sindona”. Non fu querelato.

Dopo la conclusione delle indagini anche Sarcinelli si dimise dalla Banca d’Italia per ricoprire numerosi incarichi prestigiosi (direttore generale del Tesoro, Vice presidente
della Banca Europea, Presidente della Banca Nazionale del Lavoro). Per circa un anno (1987) fu anche Ministro per il commercio con l’estero.

Paolo Baffi dopo le dimissioni ebbe numerosi incarichi: accademico dei Lincei, fu Presidente della società italiana degli economisti e nel 1981, Presidente della commissione istituita dal Ministro del Tesoro per la difesa del risparmio dall’inflazione. Morì a Roma nel 1989.


LIBRI DA CONSULTARE

  • M.A. Calabrò, Le mani della Mafia, Roma, 1991
  • M. De Luca, Sindona, Roma, 1986
  • G. Galli, Affari di Stato, Milano, 1991
  • Lombard, Soldi truccati, Milano, 1980
  • S. Malatesta, L’armata Caltagirone, Milano, 1980
  • A.S. Ori, Banchieri e bancarottieri, Milano, 1976
  • P. Panerai — M. De Luca, Il crak, Milano , 1975
  • F. Pecorelli-R. Sommella, I veleni di “OP”, Milano , 1995
  • S. Ruju, La parabola della petrolchimica, Roma, 2003
  • C. Stajano, Un eroe borghese, Torino, 1991
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Mario Pacelli

Mario Pacelli è stato docente di Diritto pubblico nell'Università di Roma La Sapienza, per lunghi anni funzionario della Camera dei deputati. Ha scritto numerosi studi di storia parlamentare, tra cui Le radici di Montecitorio (1984), Bella gente (1992), Interno Montecitorio (2000), Il colle più alto (2017). Ha collaborato con il «Corriere della Sera» e «Il Messaggero».

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