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Breivik, l’odio e la strage di Utoya. Ieri, come oggi

Utoya è una bellissima isola del Tyrifjorden, il quinto lago della Norvegia per estensione.

Un luogo a cui appartiene una memoria storica importante: venne infatti donato dal Partito Laburista Norvegese ed oggi è proprietà della Lega dei Giovani Lavoratori, una associazione di giovani affiliata al partito di cui sopra e che nell’isola organizza campi estivi.

In questo piccolo angolo di paradiso, il 22 luglio di otto anni fa, si stava svolgendo un campo di formazione dove ragazzi e ragazze che rappresentavano il futuro della nazione, si confrontavano prendendo parte a meeting, lezioni ed attività comuni.

Tutto sembrava procedere nel migliore dei modi, fino a quando Anders Breivik, dopo aver fatto esplodere una autobomba ad Oslo davanti alla sede ufficiale del primo ministro norvegese (otto morti, 209 feriti), sbarca un paio d’ore dopo, travestito da poliziotto sull’isola di Utoya; era in uniforme e per questo nessuno gli chiese un documento di riconoscimento.

Strage di Utoya

Una volta arrivato, avendo come bagagli due contenitori carichi di armi, l’unico addetto alla sicurezza presente intuì che qualcosa non era chiaro, ma Breivik lo freddò all’istante e poi fece lo stesso con l’organizzatrice del campus.

Il massacro (69 morti, 110 feriti) cominciò subito dopo, una vera e propria caccia all’uomo intrapresa con fucili ad alta precisione e per una ora e mezza sparò su giovani che tentavano di nascondersi buttandosi in mare o rimanevano pietrificati difronte a qualcosa che non si può comprendere ancora oggi, ad otto anni di distanza.

Anders Breivik, anti-islamico e neonazista, che si definiva un «soldato politico» al servizio della civiltà occidentale minacciata dall’immigrazione incontrollata e dal multiculturalismo, apre il fuoco con folle e assassina lucidità, sterminando 69 giovani fra i 14 e i 20 anni in poche ore.
77 in tutto, contando i feriti che non sopravvissero.

L’assassino si è arreso alla polizia senza opporre resistenza quando si è reso conto di non avere più vie d’uscita, ma dal suo primo sparo erano passate ore ed i dodici ettari di abeti e betulle erano ormai trasformati in un inferno disseminato di cadaveri.

Un eccidio assurdo, dettato dalla follia e, soprattutto, dall’odio razziale; fu poi assodato che Anders odiava, appunto, la multiculturalità e i musulmani e viveva per dare un segnale al Paese, affinché si ripiegasse su sé stesso come nei peggior incubi del novecento. Chiudendo le frontiere e sterilizzando la presenza di varie etnie e culture presenti in loco.

Al processo, Breivik tenne l’atteggiamento sprezzante di chi si considerava il leader di un’armata di crociati e vacillò soltanto quando uno dei teorici del suprematismo bianco norvegese chiamato a testimoniare lo liquidò come un mitomane, pericoloso, ma mitomane che con le sue azioni aveva inoltre recato danni immensi alla «difesa dei valori occidentali» concluse. «È vergognoso» si sfogò Breivik con il suo avvocato: «Non si tradisce chi sta combattendo al tuo fianco».

Dalle udienze venne fuori che l’armata di crociati era solo nella sua mente, non c’erano altri «soldati politici» pronti all’azione, non c’erano altri «obiettivi militari» e almeno in un primo momento, Breivik accettò di dichiararsi non sano di mente.

Cambiò idea quando si rese conto che così facendo si privava dell’unica tribuna da cui poter parlare e dire le sue verità; i superstiti di Utoya che andarono a testimoniare, con tutti i loro traumi fisici e psicologici, erano ormai consci di far parte di un tessuto umano e sociale che li appoggiava in toto, mentre dall’altra parte appariva unicamente la solitudine di Breivik e la sua più totale paranoia.

Andres Breivik non si è mai pentito.
Sin dai primi giorni di processo, esibiva il ghigno rabbioso e il braccio alzato, mentre i giudici che lo hanno condannato, peraltro, hanno stabilito che era sano di mente e lucido nell’organizzazione.

Prima, durante e dopo l’eccidio.

Breivik appare come una cellula consapevole e primordiale del nazionalismo che, piano piano, sta avvelenando il nostro continente.

Per questo, ad otto anni di distanza, è giusto ricordare quelle vittime innocenti che potranno apparire, a loro spese, come semi di un futuro migliore o come monumento in ricordo della violenza che può generare l’estremismo. Ieri, come oggi.

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Tamara Mancini

Mi sono laureata all'università La Sapienza di Roma dove ho conseguito la prima laurea in Scienze Storiche e la seconda in Storia delle Religioni. Ho scelto poi una specializzazione in Islamistica, interessandomi del medio oriente dal punto di vista religioso, culturale e socio-politico; da queste esperienze è nato il mio primo libro "Sufismo e Islam: l'importanza della donna nella mistica" edito da La Caravella editrice. Nella stessa università ho ottenuto un Master in Mediazione Culturale e un corso di Alta Formazione post laurea, con entrambi ho ottenuto un posto all'interno di una cooperativa del Nord Italia che mi permette di esercitare un lavoro che amo molto, quello del mediatore culturale appunto. Oltre ai libri e allo studio ho due grandi passioni: organizzare conferenze su argomenti legati al mio percorso di studi e fare radio. Sono, difatti, la speaker di un programma culturale che va in onda ogni giovedì dalle 17.15 fino alle 18.15 su una radio web che risponde al nome di Active Web Radio (direct: www.active-media.it)

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