Guardare al futuro vuol dire credere nel futuro, ma è anche un modo per distrarre lo sguardo da un presente che non ci piace.
Deve essere stata fortissima, quella domenica 4 marzo 2018, la voglia di buttare a mare tutto il passato al grido forsennato e paranoico di “cambiare è bello”, di spingersi avventurosamente alle frontiere di un futuro prossimo dove la Rete spazza via le idee, dove il lavoro manuale è soppiantato dal robot, dove la
democrazia non ha più necessità degli orpelli della rappresentanza e dei partiti, dove l’esistenza non più governata dalle leggi dell’economia è ordinata da norme che distribuiscono una favolistica ricchezza che fa scomparire la povertà, come fosse una parabola del nuovo testamento.
Questa è stata la promessa e i predicatori del cambiamento non fanno altro che ripeterla da quando sono stati eletti nel Parlamento della Repubblica, dal giorno in cui, con la vittoria elettorale nelle mani e fatto un governo, decisero la morte della politica per costruire una loro faticosa e farraginosa “nuova Summa” ispirata all’arzigogolo intellettualistico di una improbabile società dei cittadini, sempre pronti a partire lancia in resta a caccia dei corrotti.
Trascurarne le implicazioni è un’operazione da apprendisti stregoni predestinati
ad essere travolti dalle loro stesse profezie: ecco perché nonostante lo iettatorio del profondis cantato troppo in fretta in morte della politica ritengo oggi, dopo l’incredibile spettacolo offerto dal governo sulla manovra economica, indispensabile una campagna elettorale per il parlamento europeo che ci porti ad un processo di riforma delle istituzioni con un più sofisticato sistema di poteri e di responsabilità in grado di governare i processi di sviluppo innescati dalla globalizzazione e dall’innovazione tecnologica, così come appare indispensabile, visto quanto accade in Francia, affinare l’orecchio alle novità che salgono dalla società, ai bisogni espressi ed inespressi dell’uomo, non dimenticando mai che i fermenti che salgono dalla società civile non sono altro che il sintomo premonitore di quel che matura nella coscienza collettiva.
Tanto per fare un esempio, i movimenti politici che oggi sono, in Italia, come in Europa, la novità nell’agone politico non sono altro che la spia di quanto sia mutato al livello collettivo il rapporto del cittadino con una società che mostra segni evidenti di un suo decadimento totale.
Ne va mai dimenticato, come invece avviene troppo spesso, che al centro di ogni riflessione c’è sempre l’uomo protagonista e artefice della sua fortuna, soggetto e/o oggetto di ogni rivoluzione, senza e contro il quale diventa impraticabile ogni vero cambiamento.
È indispensabile, per le sorti stesse della nostra democrazia, che non accada che dimenticando l’uomo si finisca per profetizzare una società in cui la democrazia è affidata ad un clic, una società in cui comunicare vuol dire un post su Facebook o su Twitter, in cui sviluppo si coniuga con digitale e qualità della vita con lo smartphone, una ferraglia di un mondo mitologico buono soltanto a popolare un fumetto “made in Japan”.
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