Cosa state facendo?!
Non è un sussurro, un bisbiglio o una domanda sommessa.
Se la carta potesse parlare, si sentirebbe che questo è un grido.
Sta accadendo l’irreparabile e non si può continuare a parlare sotto voce.
Il mio ultimo articolo su Moondo (Il suicidio di una nazione N.d.r.) iniziava così, ma questo non è un refuso né un copia e incolla.
Questo è un incipit.
E questa è una storia che si ripete sotto mentite spoglie, una storia che inizia a Berlino, che può sembrare un po’ lontana da noi, ma che nel mondo globale è praticamente sotto casa.
Questa è una storia che ci riguarda tutti.
Qualcuno dirà che con i problemi che si aggirano nel mondo, vai a guardare proprio quello che accade al Festival Internazionale del Cinema di Berlino.
Purtroppo sì, ma il problema è che non basta più rimanere a guardare.
Ecco cosa accade a Berlino.
Accade che il direttore artistico del Festival, l’italiano Carlo Chatrian – giornalista, scrittore e critico cinematografico nella cui biografia compare la co-scrittura dell’intellettualissimo libro Io, un altro: strategie di uno sguardo filmante alla scoperta del mondo, che già dal titolo fa scattare la sindrome di Calimero in un culturalmente normodotato come me –, e il direttore esecutivo l’olandese Mariette Rissembeeck – studi umanistici e una vita nella produzione televisiva e cinematografica -, prendono il coraggio a piene mani e annunciano al mondo la loro correttissima rivoluzione di genere.
Le rivoluzioni, lo insegna la storia, iniziano sempre con le parole.
Scritte o recitate, ma comunque sempre combustibile a miccia rapida per anime e cuori che si spingono oltre l’ostacolo e che trasformano uomini e donne in rivoluzionari abili a muoversi nella società come pesci nell’acqua (Mao Zedong dixit).
I due, Chatrian e Risseembeeck, maneggiano ovviamente le parole che hanno a portata di mano e, consapevoli del vantaggio mediatico di cui godono per posizione acquisita e stipendiata, si mettono al vento del mainstream, cambiano nome a due premi assegnati dalla Berlinale – questo il vezzeggiativo dall’eco bohemien con il quale è comunemente chiamato il Festival – e ne sopprimono un altro, a dire il vero quest’ultimo già messo in naftalina lo scorso anno.
Ebbene accade che l’Orso, con buona pace della natura, non ha genere, o comunque non può averlo a Berlino.
Accade, accadrà dalla prossima edizione del 2021, che il Festival non assegnerà più l’Orso d’Argento per miglior attore e l’Orso d’Argento per la migliore attrice, ma semplicemente li assegnerà alla migliore interpretazione protagonista e alla migliore interpretazione non protagonista, rigorosamente e neutralmente in terza persona.
Accade che sensibilità, carattere, emotività, talento, bravura, dedizione, sacrificio, impegno, soddisfazione, studio, ambizione, immedesimazione e mestiere della recitazione, a Berlino, o meglio nella repubblica autonoma della Berlinale, per decreto non sono più declinabili al maschile e al femminile.
Accade anche che l’Alfred Bauer Prize, istituito nel 1987, sia definitivamente soppresso e sostituito dal Premio della Giuria – Orso d’Argento in virtù, a quanto è dato sapere, di compromissioni di Alfred Bauer con il regime nazista, compromissioni evidentemente sfuggite a Norimberga e che singolarmente non gli impedirono di essere consulente del governo militare britannico dopo la guerra.
Soprattutto, e questo con il senno di poi deve aver fatto balzare sulla sedia i nostri Chatrial e Rissembeeck, compromissioni che non hanno impedito ad Alfred Bauer di essere inopinatamente direttore della Berlinale dalla prima edizione del 1951 al 1976, ovvero ventisei anni sotto i riflettori del mondo in cui il Festival è cresciuto e diventato uno dei riferimenti del cinema mondiale.
Non sappiamo se Chatrial e Rissembeeck siano sostenitori della correttissima mobilità in monopattino, ma certo li dobbiamo immaginare in enorme ed esistenziale difficoltà dinanzi ai milioni di autovetture Volkswagen che, nonostante la fondazione nel 1937 della casa automobilistica per soddisfare la precisa volontà politica di motorizzare il popolo tedesco, impunemente circolano sulle strade della Germania.
Ebbene, da questa ventata di politicamente corretto che spira dalla Berlinale ci aspettiamo però qualche cosa in più.
Ci aspettiamo un moto di adesione da parte del mondo del cinema, ci aspettiamo che registi, produttori, attori e attrici (qui li possiamo ancora distinguere per genere) che negli anni sono stati premiati o con l’Alfred Bauer Prize o con le odiose e soppresse diciture, proclamino pubblicamente il loro sdegno e restituiscano l’Orso ricevuto, o quanto meno lo portino alla fusione con tanto di fotografia social, oppure lo deturpino, lo ghigliottinino e lo espongano, sempre a mezzo social che altrimenti non vale, al dileggio condiviso.
Ci aspettiamo anche che qualche emulo nostrano proponga la soppressione della Coppa Volpi assegnata dal Festival del cinema di Venezia, o magari potrebbe essere lo stesso Chatrial a lanciare la crociata italica, perché il buon Giuseppe Volpi conte di Misurata, oltre a essere stato Presidente della Biennale di Venezia e principale fautore del Festival fondato nel 1932, è stato anche Governatore della Tripolitania, Ministro delle Finanze oltre che, caron dimonio con occhi di bragia fatto persona, persino massone.
Orsù, voi che pensate che i conti con la storia debbano rimanere sempre in sospeso, voi che anzi i conti chiusi a fatica volete proprio riaprirli, voi che siete talmente introflessi sul passato che non perdete mezzo minuto a prefigurare il futuro, abbiate un impeto, un sussulto di coerenza, restituite tutto, premi, diplomi, coppe, targhe.
Soldi no, quelli li avrete già spesi, pardon, investiti in attività correttissime, eque e solidali, perché spendere soldi è un po’ volgare.
Se non lo farete, però, dovrete avere almeno la dignità di rimanere in silenzio e di non accodarvi al plauso e al commento compiaciuto del superamento di genere e del politicamente corretto.
Va bene essere attori, ma la maschera ogni tanto è bene toglierla.
A chi invece guarderà con stupore la rivoluzionaria decisione di Chatrial e Rissembeeck, a chi non ne sentiva la mancanza, a chi pensa che le uniche differenze di genere da superare siano quelle tra piaggeria e dignità, tra servilismo e indipendenza di giudizio, tra ignoranza e conoscenza, tra degrado e bellezza, vorrei dire che non è più tempo di rimanere a guardare e che ogni gesto e ogni parola, in pubblico e in privato, sono argine dinanzi al crepuscolo culturale paventato da una minoranza mediaticamente rumorosa.
La domanda, sempre in attesa di risposta, è la stessa.
Cosa state facendo?!
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