I dati sono il mare nel quale navighiamo. E il dato è stato lì da sempre, perché è quell’elemento senza il quale non si può costruire. Se oggi si vuole disegnare un nuovo progetto di Europa, dobbiamo fondarlo su una filosofia che ne abbia compreso l’importanza.
Le basi della geometria che si studia alle scuole elementari e che si usa nella vita quotidiana ci sono state lasciate dal più giovane discepolo di Platone, Euclide. Negli Elementi, Euclide raccolse organicamente le regole che per anni hanno disciplinato triangoli, cerchi, rette, cilindri e numeri (anche quelli irrazionali), tuttavia aveva intuito che gli elementi geometrici non bastavano da soli. Per costruire un triangolo, per spiegare come tutto funzionasse c’era bisogno di altri elementi: i dati. Ecco perché scrisse un libro ad essi dedicato, i Dedomena appunto, che poi venne tradotto dai latini in Dati. Per Euclide i dati erano fondamentali, ma in realtà lo si sapeva da prima, tanto che per conservarli e trasmetterli li avevamo trasformati in segni con la scrittura qualche millennio prima, passando dalla preistoria alla storia. I dati sono sempre stati lì ancora prima della scrittura, quando qualcuno li dipingeva sui muri delle grotte della Dordogna per rappresentare le attività della sua tribù. E anche divinamente, all’inizio di tutto, nella Genesi, prima che il Verbo (Logos in greco) fosse creato, il datum (come interpretazione diaforica, in quanto cosa distinta da un’altra) era presente: infatti l’assenza del Verbo, prima della creazione del Verbo, è un dato.
I dati sono quindi costitutivi della nostra esistenza. Tuttavia fino ad ora non ci siamo resi conto della loro importanza perché essi erano conservati su un supporto che ne inglobava sia la struttura (la sintassi) che il significato (la semantica). Solo grazie alla nascita dell’informatica, che possiamo far risalire concettualmente ad Alan Turing, si è cominciato a strappare il dato dal suo supporto e a riorganizzarlo logicamente, separando quindi la struttura dal significato, la sintassi dalla semantica. Le tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT) hanno avuto bisogno di tempo per svilupparsi e diffondersi, ma la loro imposizione al mondo è stata fulminea solo negli ultimi decenni. Siamo passati da una funzione geometrica di sviluppo ad una iperesponenziale. Se prima eravamo noi (inteso in senso largo del mondo naturale) a creare i dati, poi sono state le macchine digitali a creare dati su di noi. E quando queste hanno cominciato a comunicare tra di loro, con strumenti connessi in permanenza (che chiamiamo “Internet of Things”) la quantità di dati è letteralmente esplosa. Per avere un’idea, se tutti i dati creati fino al 2005 fossero la Luna, quelli creati negli ultimi quindici anni equivarrebbero al Sole. E si prevede che nei prossimi 5 anni i dati cresceranno, arrivando a triplicare la dimensione del Sole.
I dati sono quindi separati dal loro senso, sono tanti e in costante crescita. Noi siamo stati abituati a pensare ai dati come supporto della nostra attività; invece oggi sono l’essenza del nostro sistema.
Eppure i dati in sé sono aridi. Non servono a molto se non vengono trasformati in informazioni. La maniera più semplice che conosco per spiegare l’informazione è dire che è il risultato dell’incrocio di dati elementari, puliti e ben organizzati. Se scrivo su una lavagna “Luca” e “42”, la maggior parte delle persone cercherà di dare un senso a questi due valori. Come se noi uomini fossimo spinti dalla brama di semantizzazione. Alcuni mi diranno che Luca è il nome di una persona che ha 42 anni. E si stupiranno allo scoprire che Luca porta il 42 di scarpe o che sto citando un verso biblico. Solo due valori per tre significati. Questo ci porta a dire che essendoci tanti dati, possiamo scoprire un numero enorme di loro combinazioni. E oggi i dati sono molti, molti di più. Cosa facciamo per dare un senso a tutti questi dati, per “semantizzarli”, per trasformarli in vera informazione? Il loro volume oltrepassa le nostre capacità cognitive.
Gli uomini non possono comprendere o interpretare tali quantità. I dati sono troppi. Allora li analizziamo… anzi li facciamo analizzare da alcuni strumenti statistici un po’ più complessi (ma non difficili), come l’intelligenza artificiale (AI). L’AI trova combinazioni alle quali noi non avremmo mai pensato, però a volte queste combinazioni sono dei veri e propri nonsense per gli uomini. Per riprendere l’esempio precedente, l’AI potrebbe interpretare che nella cittadina maltese di Luca (Ħal Luqa) oggi ci sono 42 gradi centigradi oppure che 42 è la somma delle lettere degli LP di una rock band giapponese che si chiama Luca (ルカ). Insomma, incrociare i dati fornisce allo stesso tempo informazioni semantiche, che hanno un senso, e pseudo informazioni, che benché sintatticamente corrette, nemmeno sono informazioni. È come la cucina, tecnicamente possiamo incrociare tutti gli ingredienti, ma il risultato deve passare il test del nostro gusto, altrimenti cucinare o mangiare non avrebbe più senso.
E ritorniamo al senso e al desiderio costante di semantizzazione, la più rilevante caratteristica dell’uomo (in quanto agente informativo).
Allora per vivere in un progetto Europeo del futuro dobbiamo ridisegnare il senso dell’Unione, altrimenti c’è il rischio che una valanga di pseudo informazioni inquinino l’idea di Europa (ciò che in effetti sta avvenendo da tempo). Per farlo servono gli strumenti giusti del pensiero.
Nella nostra era, che è teoricamente iniziata negli anni 50 ma praticamente l’altro giorno, dobbiamo apprendere a dare senso ai dati e ai risultati del loro incrocio. Non è più l’era delle grandi invenzioni o delle grandi scoperte. Oggi è l’era dell’incrocio corretto dei dati, o del design concettuale che ci permetta di ridisegnare il nostro universo.
Lo strumento principe del design concettuale è la filosofia; ma una filosofia giusta per la nostra epoca, che si faccia domande alle quali si possa rispondere. Attualmente quella che sembra più promettente è la filosofia dell’informazione di Luciano Floridi, che nella sua opera Principia Philosophie Informationis supporta una logica, un’etica e una politica fondate sull’informazione. È assolutamente necessario avere una base concettuale che ci permetta di leggere i problemi al giusto livello di astrazione, per non essere tritati dalla valanga di pseudo informazioni o vecchi paradigmi. Dobbiamo utilizzare il coltello della semantica per creare e disegnare un mondo di Qualità (nel senso classico, dove “La Qualità non è una cosa. È un evento”; e nel senso informativo in cui “La Qualità non è un’ontologia. È una relazione”).
Il discorso potrebbe sembrare astratto, ma oggi più che mai la filosofia è importante. Perché ci da gli strumenti per capire quello che sta avvenendo. Se nel mondo storico, quando l’informazione era ancora un blob di dati e senso amalgamati sullo stesso supporto fisico, il nostro modo di pensare rispettava delle regole fisiche; nel mondo attuale (che chiameremo iperstorico), dove i dati viaggiano autonomi e costruiscono nuovi sensi (o pseudo sensi), le nostre capacità cognitive non riescono più a carpire il reale. Questo non è un problema se invece di cercare una spiegazione, passiamo alla realizzazione. Se dall’azione quotidiana (praxis), passiamo alla costruzione (Poiesis).
Per iniziare a costruire insieme bisogna farsi le domande giuste e alle quali è possibile darsi una risposta. Perché le altre domande rischiano di essere un mero passatempo. Delle domande, lo ricordo, del nostro tempo, dove la scienza non può essere contraddetta con un’opinione. Dove un dato può essere interpretato solo rispettando rigorosamente la logica dell’informazione. E dove l’uomo, in quanto agente di senso, abbia un valore superiore ad un dato. Dove l’approccio epistemologico sia l’abbecedario di un qualsiasi discorso, e l’umanità il fine ultimo di qualsiasi scelta.
Ognuno di noi dovrà collaborare per porre le domande giuste. Intanto, eccone alcune che da aspirante filosofo dell’informazione mi faccio da tempo. Da queste semplici domande inizia la mia ricerca di senso per l’Europa di domani.
L’ultima domanda è la più complicata, e non saprei ancora come rispondere in maniera esaustiva, ma la lascio lì, aperta. Quando si parla di filosofia penso al giovanissimo figlio del filosofo che chiede al padre: “Papà, se sei dottore di filosofia, allora la filosofia è una malattia?”. Forse si, lo è; ma se è leggera può essere un vantaggio, mentre a grandi dosi può diventare invalidante. Floridi la paragona al sale: “Un po’ al momento giusto è sufficiente, ma non si può mangiare solo sale!” Quindi da aspirante filosofo, dico, la filosofia va usata da chi sa trasformare il pensiero in azione; perché alcuni filosofi sanno solo pensare senza agire, mentre altri agiscono senza pensare. Sta sempre là, in medio, la soluzione.
Quello che resta essenziale è l’etica: l’Orsa Maggiore che guida l’azione. Un’etica che sia presente prima dell’azione e non un bollino da aggiungere a danno fatto.
Nelle mie vite (perché siamo in un’epoca dove si hanno più di una vita) da consulente, da informatico, da formatore, da imprenditore, da ricercatore … ogni scelta è stata ispirata dalla filosofia, anche se molti pensano che queste attività siano agli antipodi. Tuttavia, quando programmi e scegli una condizione o quando disegni un’interfaccia puoi essere centrato (come un piccolo Eichmann) sul sistema o (kantianamente) sull’uomo. Se il fine resta l’uomo, allora anche la scelta del colore di un pulsante diventa più chiara.
L’Europa che spero di costruire è un’Europa che sia proiettata nuovamente in avanti. Un’Europa che si focalizzi sui processi, non domandandosi cosa si può fare e cosa non si può fare, ma cosa si dovrebbe fare e si dovrebbe evitare per garantire ai suoi cittadini la dignità che meritano.
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