Prendiamo confidenza con la sigla SW, smart working. Terrà compagnia alle prossime generazioni.
Era un tipo di lavoro già praticato da alcune élite intellettuali (i famosi e misteriosi “consulenti”) e consiste nel non avere orario, luogo e organizzazione di lavoro precisi.
Hai solo un progetto da sviluppare, obiettivi concordati da raggiungere e tempi certi entro cui consegnarli.
L’epidemia ha costretto ad una drammatica accelerazione in questa direzione, con una evidente forzatura (dovuta al divieto di mobilità): farlo apparire un “home” working.
Si lavorerà invece dove si vorrà e sarà un mix di attività in remoto e in presenza.
Lo prevede -obbligatoriamente- la legge che norma la materia ma sono concordi anche i comportamenti e le strategie delle aziende interessate.
Naturalmente la presenza sarà funzionale al tipo di prestazione: in alcuni casi due giorni alla settimana, in altri una intera settimana al mese.
La legge lo definisce lavoro “agile” ma si sa che il legislatore e il burocrate che lo assiste amano mostrare creatività, cultura e delicatezza che è poi la base del “politicamente corretto”. Certo che sarà difficile superare la famosa “obliterazione” del biglietto.
La legge sottolinea due obiettivi da raggiungere che possono apparire contrapposti e che io, invece, vedo sinergici e complementari: incrementare la competitività delle imprese (la famosa flessibilità) e agevolare la conciliazione di tempi di vita e di lavoro dei dipendenti.
In fondo alle aziende non dovrebbe dispiacere che i loro dipendenti lavorino non dico più felici ma almeno più comodi, a loro agio.
Tutte le grandi aziende che hanno dovuto riconvertirsi in fretta e furia – bisogna riconoscere il merito, soprattutto ai loro capi del personale- hanno già dichiarato che non si tornerà più indietro.
Ora ci sarà una fase di trattativa tra imprese e sindacati per ribilanciare le conseguenze economiche di queste novità: l’impiegato risparmierà sui trasporti (e sui tempi morti) ma perde la mensa o il buono pasto, e via di questo passo.
Le aziende abbandoneranno le sontuose sedi centrali per organizzare una rete di modesti luoghi decentrati, organizzati per riunioni di gruppo e dotati del più aggiornati e celeri strumenti di connettività.
Ne risentirà il mercato immobiliare che dovrà tenere conto anche del mutamento di
forme e dimensioni degli appartamenti che dovranno ospitare l’attività di due o tre persone collegate in contemporanea con uffici, scuole e intrattenimento (di chi, in quel momento, non lavora).
Tutto bene quindi?!
Non esattamente, suggerirei io.
Apparentemente, in assenza di orario, lavorerai quando vuoi tu ma in realtà quando vorranno tutti gli altri che ti cercano. Non sei sempre alla scrivania ma sei sempre reperibile. Per cui alcune aziende cominciano a proteggere certe fasce orarie (ad esempio vietano l’organizzazione di riunioni dalle 13 alle 14.30 e l’invio di mail ai dipendenti dopo le 18).
Questo nuovo scenario è possibile grazie alle tecnologie. Sono loro il terminale che collega l’individuo al lavoro. E tutti i dati in esse contenute dovranno essere a disposizione dell’azienda, in tempo reale, per verificare il buon andamento di un processo operativo non più garantito dalla vicinanza fisica.
Oggi però in ufficio ti occupi di lavoro e a casa -su altri strumenti- della tua vita. Domani, per motivi di spazio o di risparmio, potrebbe ingenerarsi qualche confusione, con pericoli per la riservatezza di dati sensibili che riguardano te oppure -al contrario- riguardano l’azienda.
Così come capita per le donne che recandosi in ufficio dividono i loro ruoli di lavoratrici da quelli di madri, cuoche e casalinghe. Lavorando in casa tutto si riunifica.
Il buon equilibrio interno alla famiglia è dovuto anche agli spazi di libertà che ciascun membro consuma esternamente durante la giornata. Una stimolante vivacità intrafamiliare non basta a sostituire l’arricchimento che ti proviene dalla intelligenza, ironia, fascino di decine di colleghi e colleghe, clienti, fornitori. Che non sono altrettanto apprezzabili in versione on line.
Oggi il momento del lavoro contribuisce plasticamente ad articolare non solo la nostra giornata ma anche la nostra personalità. Se sei super capo, capo, capetto, semplice dipendente, metti in scena quello che ti compete.
Se hai un ufficio spazioso e la segretaria, ti vesti da capo e ti comporti di conseguenza. Calibri continuamente il tuo atteggiamento verso chi sta sopra di te e chi sta sotto di te. Ti rappresenti proporzionale al tuo ruolo, sapendo che la forma è sostanza.
Ma se presiedi una videoriunione in cui tutti -te compreso- sono in tuta e pantofole, la tua autostima crolla. A tal proposito gli esperti annunciano novità nei profili gerarchici, nelle competenze necessarie alla leadership.
Considerando che la mediazione delle tecnologie un po’ falsa e standardizza la “temperatura” della comunicazione, si prevede il successo di personalità trascinatrici, dotate di confidenza e attitudine televisiva. I nuovi capi dovranno “bucare lo schermo” e sapere fare spettacolo. Pause, accelerazioni, battute, sapersi prendere in giro.
Essendo la strumentazione enormemente invasiva, il gruppo di lavoro può ampliarsi notevolmente e quindi la platea, l’audience necessita di un palcoscenico e del relativo showman.
Forse da qui la parola smart?
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