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Chi vuol fare il sindaco di Roma?Avanti, c’è posto

A pochi mesi dall’appuntamento elettorale, siamo ancora al “carissimo amico”.

Nessun Messia in arrivo per il Pd; tante chiamate, nessuna risposta. Quanto basta per chiudere definitivamente la partita del “grande nome”, dichiarandone il fallimento.

Dal centro-destra, silenzio tombale. Segno che il populismo all’Alemanno o, meglio, alla Meloni non attacca più. Mentre non si vedono in giro i “manager” lanciati da Tajani e sognati dagli opinionisti di mezza tacca.

Dal centro, il silenzio sdegnoso ma un po’ comico di Calenda. Non si candida, dice, perché il Pd non lo vuole anzi ce l’ha con lui (e perché mai dovrebbe volerlo? N.d.R ) .

Rimangono, per ora, le primarie organizzate dal Pd ma, curiosamente, affollate di candidati intenti a prenderne le distanze: perché, a loro dire, trascurati; perché intenti a curare, in primo luogo, la loro base di consenso; e, infine, perchè insistono a dichiararsi “esterni” (se non estranei) al partito, alle sue pratiche e, soprattutto, al suo bilancio come amministratore della città. E’ lecito, a questo punto, chiedersi su quali basi e su quali proponimenti si basi questa presa di distanza. Ma, a tutt’oggi, non lo sappiamo (e vedremo tra poco perché).

Qui e ora tantissime chiamate; ma pochissime e comunque inadeguate risposte.

Pesa innanzitutto il fatto che la sindacatura non è più (semmai lo fosse stata) la pedana di lancio verso un destino nazionale. Lo è stata per Renzi, anzi no; perche il Nostro si fa o si disfa da solo. Per gli altri, Rutelli e Veltroni sono discesi verso un vuoto popolato di parole; mentre Bassolino, Chiamparino, Orlando, De Magistris, Pisapia sono misteriosamente scomparsi lungo il percorso. A sostituirli i presidenti di regione, pardon Governatori: perché più visibili, perché dotati di maggiori risorse e poteri e, infine, perché questi poteri, per una serie di ragioni, sono assai poco controllabili, dallo stato come, e soprattutto, dai cittadini.

Pesa il fatto che, per essere credibili come nuovi, occorre fare i conti con il passato, spiegando, o almeno cercando di spiegare, le cause del degrado della città pubblica e le strategie atte a porvi fine e a risalire la china. Un’operazione ad un tempo penosa e difficile. Anche perché nessuno, ma proprio nessuno, è in grado di scagliare la prima pietra. O di rivendicare meriti particolari. E soprattutto, di fare le necessarie autocritiche.

Pesa, infine e soprattutto, il fatto che, per salvare la patria, occorrono carisma, potere e risorse. Requisiti che, allo stato, non esistono. Il carisma non è a disposizione del primo che passa ma va conquistato; il potere è stato regalato ad altri e va rivendicato; le risorse ci sono ma vanno riscoperte.

Se non lo si fa, la conclusione è che Roma sia ingovernabile. Per colpa di tutti e di nessuno. E che, a partire da questa resa, la scelta tra gli aspiranti a governarla sia, comunque, irrilevante.

Un verdetto scontato quanto terrificante. Perché, in questo caso, a essere irrilevante è la democrazia. E nel suo primo e naturale habitat. Le comunità cittadine.

A questo punto, però, una cosa è chiara: le prossime elezioni non si giocheranno né sulle credenziali degli aspiranti sindaci, né sui programmi, né sulle promesse, né sulle retoriche populiste a un tanto al chilo ma su una riflessione, anzi su di un bilancio del passato. Riassunti in due semplici ma essenziali domande: tutto è andato storto, ma come e perché? E ancora: cosa si deve fare per iniziare la risalita? Fino ad ora nessuno si è posto queste due domande. Ma, statene assolutamente certi, molti se le porranno, fino a porle al centro del loro discorso alla città.

Al centro di questo discorso una idea-forza. La crisi originata dalla scomparsa/rinuncia del comune e del pubblico ad esercitare il proprio ruolo di agente essenziale della crescita della comunità cittadina; il loro ritorno in campo, a partire dal ripristino di una capacità progettuale in grado di fare appello alle tante risorse disponibili e tuttora inesplorate.

Si tratta, ora, di porre queste idee al centro del confronto elettorale. Riuscirvi sarà, comunque vadano le cose, una grande vittoria. E per tutti.

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Alberto Benzoni

Ha lavorato all’Iri dal 1958 al 1996, per oltre trent’anni all’Ufficio studi e poi a quello Internazionale. Iscritto al Psi dal 1957 al 2013. Viceresponsabile del settore esteri dal 1987 al 1992. Consigliere comunale di Roma dal 1971 al 1985, vicesindaco dal 1976 al 1981 nella giunta di sinistra di Argan e poi di Petroselli. Collaboratore di «Avanti!» e di «Mondo Operaio», di «Ragioni del Socialismo» e di numerosi altri periodici di area. Autore di una storia del Partito socialista e, assieme ad altri, di La dimensione internazionale del socialismo italiano (Roma 1993). Ha scritto anche Il craxismo (Roma 1991) e, assieme a Luca Cefisi, Il pacifismo (Roma 1995). Autore infine, assieme alla figlia Elisa, di Attentato e rappresaglia. Il Pci e via Rasella (Venezia 1999), di Le vie dell’Italia (Milano 2009) e, infine, di La storia con i se (Venezia 2013).

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