Una misura costrittiva di cui la giustizia ha fatto, secondo molti addetti ai lavori, molto uso e talora abuso è stata quella degli arresti domiciliari. L’epidemia del Coronavirus (in termini scientifici: covid 19) scoppiata in Cina, ma insediatasi nel Bel Paese con un numero di contagiati superiore a quello di ogni altro Paese al mondo ha costretto ad arresti domiciliari sui generis tutti i cittadini italiani.
Naturalmente, sui social circa la drammatica vicenda si è fatta molta “dietrologia”, altrimenti detta “fantapolitica”. Sono stati immaginati “complotti” ideati o da misteriose Spectrefleminghiane, o da laboratori di ricerca, secondo le vedute politiche dei narratori, ora cinesi, ora americani, ora addirittura multinazionali, e ciò sia per l’origine sia per la propagazione del morbo.
V’è stato chi ha tentato soltanto di capire se non vi fosse qualche interesse “a cavalcare la tigre” della paura popolare, se, cioè, si fosse voluto provocare un eccesso di terrore (pur comprensibile nelle sue motivazioni) per raggiungere altri, misteriosi e inafferrabili obiettivi, economici o politici.
Poi s’è capito che si stava effettivamente vivendo un momento di rischio reale: almeno sotto il profilo dell’inadeguatezza del servizio sanitario nazionale a far fronte alle necessità di terapie intensive che il covid 19 richiedeva; certamente, in misura maggiore rispetto a una normale influenza (e anche a polmoniti virali causate da altri ceppi).
Nessuno ha tratto da una tale esperienza altre suggestioni e timori; né si è posto altri interrogativi di natura politica.
Eppure, la prima domanda che ci si doveva porre era se l’essere membro dell’Unione Europea avesse comportato, negli ultimi decenni, l’impossibilità di adeguare il servizio sanitario nazionale italiano alle esigenze di un pianeta che galoppa verso gli undici miliardi di abitanti. E se la necessità di liberarsi dalla camicia di Nesso sul pareggio di bilancio e sull’austerity, avrebbe dovuto imporre ai governanti degli Stati Membri di chiedere con determinazione all’Unione Europea di rivedere le norme dei Trattati Europei, non lasciando solo nelle mani dell’Ultradestra tale importante battaglia di libertà e democrazia.
Il presupposto della richiesta era abbastanza chiaro: se avessimo potuto investire più fondi per avere un sistema sanitario in grado di soddisfare le più consistenti richieste di terapie intensive, l’epidemia di corona virus rispetto ai ceppi degli anni precedenti sarebbe rimasta pur sempre di maggiore gravità ma non avrebbe messo il Paese letteralmente in ginocchio.
La seconda domanda che ci si doveva porre riguardava la necessità di chiedere e ottenere lo sforamento della percentuale del 3% oltre i limiti della richiesta fatta dal Governo all’Unione Europea; la presenza di una calamità come quella del coronavirus lo imponeva. Il semplice buon senso avrebbe dovuto fare ritenere inconcepibile che uno Stato non potesse neppure garantire la salute dei propri cittadini perché a vietarglielo erano i tecnocrati di Bruxelles. Non si trattava di “nazionalismi” risorgenti e di ritorno all’Europa degli anni Trenta ma di “sovranità” senza la quale uno Stato, che voglia dirsi tale, non ha alcuna ragione di essere.
Per fortuna, il sospetto che l’eco mass-mediatica e l’allarmismo sociale arrivato a vertici mai visti prima, servisse a far toccare il diapason alla crisi mondiale della nostra civiltà “industriale” (fabbriche ferme tranne quelle che producono disinfettanti e altri prodotti per contenere l’epidemia o beni e servizi adatti a una lunga conservazione tra le mura domestiche di cibi, oltre quelle dei fabbricanti di cyclette e tapis roulant, dei sistemi di comunicazione digitale, soprattutto per la telemedicina) si rivelava sempre più un boomerang per il capitalismo finanziario. Se attraverso la stampa loro asservita, Wall Street e la City intendevano cavalcare la tigre del coronavirus per determinare una situazione di arresto drastico e clamoroso della produzione industriale (oltre a cadute azionarie a ripetizione) non avevano avuto molto di cui rallegrarsi.
E’ vero che l’evento del morbo avrebbe costretto tanta gente a indebitarsi e le Banche avrebbero tratto vantaggio (non a caso, si stavano già adoperando per “attrezzarsi” in misura adeguata). Vi sarebbe stato anche l’effetto dell’apertura di molti gli occhi foderati di prosciutto. L’idea di utilizzare l’occasione dell’epidemia (e del terrore che essa provocava) per dare un colpo mortale al sistema industriale e rafforzare il capitalismo finanziario, come ultima spesa di sopravvivenza mi sembra che abbia perduto colpi.
Resta il fatto, però, che l’epidemia ha consentito di sperimentare, per un tempo prolungato, la possibilità di far cambiare radicalmente le abitudini della gente, riducendo la sua presenza in luoghi di lavoro produttivo comune e o di consumo collettivo nonché i contatti interpersonali (diradandoli drasticamente).
Lo stile di vita dei cittadini, anche dopo la fine dell’epidemia, non sarà verosimilmente più lo stesso che si era sviluppato nella civiltà industriale. Esso favorirà quel ritorno all’”arroccamento” e alla chiusura in “compartimenti stagni” che fu proprio del feudalesimo e che potrebbe tornare utile anche alla rinascita di quel medioevale fenomeno socio-economico nella sua “modernissima” e “avveniristica” (secondo i suoi fautori) versione finanziaria.
Intanto nel mondo, a parte Trump (e probabilmente Johnson, ma i segnali non vi sono ancora) i leader politici erano restati tutti in surplace. E molti di essi certamente senza loro danno.
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