Sino a qualche anno tra i segnali stradali relativi ai comportamenti da seguire compariva frequentemente il divieto di usare il clacson dell’auto.
Si supponeva, non a torto, che tale divieto si applicasse alle situazioni di normalità. Un clacson prolungato faceva pensare a una partoriente trasportata in ospedale o alla vittima di un incidente nella stessa situazione. Un suono breve e convulso comportava un segnale di pericolo, atto ad evitarlo.
Anche la vittoria in un derby significativo giustificava, con un certo malumore dei perdenti, un uso del clacson prolungato e di tipo collettivo.
Ora, da un certo tempo, i segnali anti – clacson sono scomparsi e si è invece diffusa una abitudine a farlo risuonare assai di frequente, generalmente come forma di protesta contro un rallentamento del traffico, di qualunque origine e natura esso sia.
Scomparsa del divieto, dunque, e diffusione di un comportamento. Non vale qui chiedersi quale sia causa e quale sia effetto, chi precede e chi segue.
Piuttosto va osservato che questo tipo di utilizzazione dell’avvisatore sonoro ha, per chi vi si dedica, un significato ben più vasto della situazione che apparentemente lo genera.
Lo strombettio del clacson non viene vissuto più come fornitore di una informazione a vantaggio dell’ascoltatore, ma piuttosto viene rivolto “contro” di lui. In tale accezione esso significa “Io sono qui” oppure “Io esisto” oppure “Io esisto e ti vedo!”.
Se cammini troppo piano, io esisto e non mi sta bene. Se hai svariato sulla tua carreggiata, io esisto e ti voglio immediatamente superare. Se sei felice e tranquillo, sappi che io esisto… e non lo sono.
Ora, nella fase che siamo vivendo, è diventato normale e quasi obbligante affermare la propria esistenza in negazione di quella degli altri. Non vi è contenitore televisivo in cui chi più insulta non venga riutilizzato e apprezzato per questa caratteristica.
L’uso dei cosiddetti “social” (che di sociale non hanno niente) ha implementato e trasferito a livello di massa questa forma di diritto all’esistere. Se un noto intellettuale può riprendersi sul cesso e diffondere le immagini conseguenti, perché non potrei farlo io? Forse che le mie feci hanno un valore minore delle sue?
Il diritto ad esistere e a manifestarsi con qualunque mezzo, a qualunque livello e con qualunque espediente si basa sul fatto che quel famoso cartello non esiste più in alcuna situazione, non solo autobilistica.
Solo così si spiega l’impunità creduta da chi compie un atto offensivo, quando non illegale, e poi allegramente ne posta le immagini su Facebook. Fate caso alla faccia stupita di chi fa deliberatamente cadere un ciclista nella cunetta, ne diffonde rendendosi riconoscibile le immagini e non riesce poi a spiegarsi perché la Polizia di Stato lo fermi e un magistrato lo incrimini.
Con il suo stupore egli ci dice: “…ma come, io non ho nascosto niente, ho addirittura filmato quel che facevo…”. Ci dice, insomma, che egli considera la affermazione della sua identità, come capace di giustificare l’atto commesso.
Quel filmato è il suo modo di dire “io sono” ed è, inoltre, la rivendicazione del diritto ad esistere e manifestarsi comunque.
Ora, noi veniamo da un percorso storico peculiare per cui la proclamazione (e soprattutto il diritto) di esistere con le proprie peculiari caratteristiche era legata generalmente ad una appartenenza sociale, politica o culturale.
Si poteva essere comunisti o fascisti, cattolici o liberi pensatori, siciliani o alto atesini, romanisti o laziali, e così via. Ogni appartenenza si presentava attraverso una serie di manifestazioni anche esterne, che permettevano il riconoscimento (che poteva essere anche negativo) di quella identità organizzata ed espressa in un discorso più ampio ed organico di quello strettamente individuale.
Non è qui il momento di riflettere sul fatto che ogni appartenenza comportava una estesa concezione del mondo e un corrispondente sistema di valori. Quel che ora interessa è che grazie a quell’universo linguistico il singolo poteva ottenere di essere facilmente riconosciuto.
In esso si realizzava direttamente il vecchio saluto africano: “Io ti vedo”.
Oggi, però, le grandi appartenenze sono scomparse e anche le piccole non stanno troppo bene. Al loro posto la società offre direttamente all’individuo una miriade di forme di autorappresentazione.
Sia che si tratti di “social”, di tatuaggi, di vestiario e di chissà cos’altro, è evidente che la spinta a proclamare la propria esistenza tende inevitabilmente a sfociare nelle punte più estreme. Se l’obiettivo è rendersi percepibili (e tutti contemporaneamente vi si dedicano), va di conseguenza che occorre massimizzare la differenziazione.
Se il tale ha ottenuto l’attenzione tingendosi di verde, io mi tingerò anche di giallo. E se lo ha fatto dicendo una parolaccia, io ne dirò almeno tre. E così via.
In questo contesto il clacson appare come il più democratico tra gli strumenti atti a gridare “Io ci sono!”. Esso è perfino indipendente dal mezzo semovente in cui si colloca: il clacson di una vecchia Panda, quando ti colpisce alle spalle, è chiassoso quanto quello del più possente Suv.
Urla il diritto ad esistere insieme all’insoddisfazione per come va il mondo (almeno in quel momento e in quel tratto di strada), ma, soprattutto, è labile; non condiziona il futuro né di chi lo usa né di coloro contro cui viene usato. Non lascia tracce né effetti secondari ed è una dipendenza da cui si può guarire.
Magari verrà un giorno in cui, del clacson e del suo significato, parleremo pieni di rimpianto.
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