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Dell’individualizzazione del consumo e di alcune sue conseguenze

La premessa, per quanto rivoluzionaria, è quasi banale.

Definisco “individualizzazione del consumo”, nel senso più lato, qualunque modifica di un sistema vigente che favorisca o permetta l’accesso al consumo di una merce riducendo o addirittura annullando qualunque fattore intermedio, per quanto possibile.

In altri termini, parlo di qualunque passaggio tecnologico o sociale che consenta all’utente – consumatore di scegliere quando, dove e in che condizione accedere al consumo di una specifica merce, senza dovere necessariamente accettare delle condizioni o delle mediazioni non determinate da lui.

Deve essere ben chiaro che, perché il concetto dimostri e mantenga il suo valore dirompente, qualunque atto umano può rientrare nella casistica immensa delle “individualizzazioni del consumo”.

Qualunque, persino l’atto più banale.

Al momento della pausa – pranzo io posso decidere se recarmi alla mensa con i colleghi o conservare il ticket per spenderlo alla Conad pochi giorni dopo.

La trasformazione è epocale. La conquista della mensa aziendale (unitamente al controllo sociale sulla sua qualità) ha fatto per decenni parte delle richieste sindacali, finendo per assumere un valore ben più esteso e significativo di quello materiale, pur importante.

Il riconoscimento del diritto al cibo all’interno del salario ha comportato con sé una dimensione ulteriore. La mensa è socializzante, permette di condividere con gli altri lavoratori un momento importante, è spesso, nella sua percezione fisica, il luogo dove svolgere assemblee, far crescere la consapevolezza e sviluppare strumenti di lotta.

Nella mia giovinezza sarda ho spesso sentito paragonare con ammirazione la socialità operaia di Ottana, costruita anche attorno al rito della mensa, contro l’individualismo del pastore che (come ben noto) mangia da solo o al massimo con un amico.

Ora, invece, sembra essersi affermato un diritto più complesso e meno meccanico: non rinunciare, se possibile, alla mensa ma poter scegliere senza danno se usufruirne o meno.

Il necessario consumo del pasto si è trasportato dal sistema complessivo all’individuo.

Per diverse decine di anni l’unica possibilità di consumare immagini in movimento è stata legata alla sala cinematografica e alla distribuzione dei film.

Successivamente una gran parte di questo fascia di consumo si è parzialmente individualizzata attraverso la televisione e i mezzi di conservazione e riproduzione connessi al mezzo tecnico (VHS, DVD) pur restando comunque collegata alla distribuzione di quella specifica tipologia di merce.

Pochi giorni fa agli eventuali aspiranti al consumo di “E’ stata la mano di Dio” è stata semplicemente offerta la scelta tra la positività di vederlo in sala (socializzazione, alta qualità) alle condizioni determinate da altri e quella di farlo in casa (comodità e libertà) pur scontando i limiti comunque legati al mezzo.

In mensa tutti assieme o in Conad con tua moglie?

Va anche detto che ogni volta in cui si è presentata una opzione di individualizzazione del consumo, essa ha prevalso travolgendo tutte le altre (lo ha fatto, diciamolo, anche il cinema con il teatro leggero e non).

Quando, a metà del ‘400, un orafo tedesco inventò i caratteri mobili per la stampa forse nemmeno lui poteva immaginare le conseguenze che il suo atto avrebbe innescato.

Sino a quel momento il rapporto con Vecchio e Nuovo Testamento era saldamente nelle mani della struttura di mediazione, rappresentata ovviamente dalla Chiesa di Roma.

Era di fatto vietata non soltanto la lettura autonoma, ma persino il possesso del Sacro Testo.

La “facile” riproducibilità del libro (di tutti i libri) fu alla base di una immensa diffusione di consumo individualizzato, con tutte le possibilità interpretative che esso comportava.

Senza i caratteri mobili a stampa non vi sarebbe stata la Riforma Luterana e tutte le immense conseguenze storiche che ne derivarono.

Quel che, in sintesi e un poco rozzamente, sto cercando di sostenere è che nessuna per quanto eroica resistenza può fermare l’individualizzazione del consumo quando essa si rende, talora a sorpresa, disponibile ed efficace.

Risulta dunque sciocco ed inutile opporsi a tali processi?

Occorre prendere atto che nella difesa dei moduli di consumo preesistenti vi sono anche valori fondanti che non possono essere facilmente dimenticati.

La battaglia per il consumo del film in sala che, anche causa COVID, appare oggi alle fasi conclusive si è fondata anche sul rispetto e sulla attenzione per un linguaggio fortemente connotante, che aveva elaborato complesse e necessarie forme espressive.

Rinunciarvi esaltando banalmente la modernità non sembra la cosa migliore da fare.

Come nel pedestre esempio della mensa aziendale occorre, in tutti i campi della vita umana, prendere atto dei cambiamenti imparabili e trarne le migliori conseguenze.

Vi sono cose che servono anche in presenza di nuove forme di consumo.

La forza, anche di carattere psicologico, dei processi di individualizzazione è la convinzione (che si diffonde facilmente) che nello sviluppo della società umana vi sia sempre meno bisogno di complessi strumenti di mediazione ed elaborazione.

Veniamo da anni recenti in cui è stato esplicitamente sostenuto che “1 vale 1”, negando ogni significato alla conoscenza e all’approfondimento.

Abbiamo sentito sostenere che la diffusione della Rete avrebbe determinato nuove possibilità di democrazia diretta.

Ciò avrebbe permesso una partecipazione individualizzata alla lotta politica che avrebbe reso desueti ed inutili i Partiti come mediazione composta anche di valori, identità e culture.

Se torniamo per un attimo al vecchio Gutenberg scopriremo che questa illusione di superamento delle strutture di mediazione ed elaborazione, si presentò immediatamente anche allora.

Se io posso, giustamente e finalmente, possedere e compulsare la mia copia della Bibbia che bisogno ho di chi me la interpreta e me la sviscera?

Molte e degnissime persone fecero il salto dalla possibilità tecnica al tentar di qualcosa di più profondo.

Ma possedere un testo scritto non equivale affatto a saperlo interpretare, non configura e non consegna all’individuo quella immensa quantità di studi e ricerche che vi sottostanno.

Offre, certamente, una grande possibilità in più ma la complessità non è affrontabile senza la complessità.

Siamo, dunque, a questo passaggio.

Da una parte il modificarsi degli assetti economici rende necessario, per chi è chiamato a governare la società e lo Stato, un sempre più elevato livello di conoscenza e di disponibilità alla complicazione.

Dall’altra la frenetica individualizzazione del consumo (in questo caso) di politica, tende a negare questo aspetto e considera come autoritario e antidemocratico ogni richiamo a una dimensione generale.

In questa tempesta i gruppi politici (che non vorrei più chiamare Partiti, per l’onore che attribuisco a questa parola) passano il tempo a negare se stessi.

Pretendono governare in una logica di interesse collettivo che non riescono tuttavia ad individuare e a rappresentare.

Di conseguenza, vivono giorno per giorno, chiusi nell’hinc et nunc, intenti a negare oggi quello che hanno detto ieri.

Come guerriglieri impazziti colpiscono freneticamente ma non pensano più a vincere la guerra. Devono sopravvivere, pensano, e inseguono chi, di volta in volta, sembra garantire questa possibilità.

La domanda finale è se impareremo a governare questo presente che sa tanto di futuro. La mia personale risposta è che lo faremo (e non sono un ottimista). Lo  abbiamo fatto, a ben guardare, come specie umana nel corso di molti e molti millenni. Ogni cambiamento di lungo periodo ha rappresentato, alla fine, una qualche forma di estensione ed individualizzazione del consumo di qualcosa.

La mia camera da letto è ornata da una riproduzione dello “Sposalizio della Vergine” di Raffaello Sanzio, il cui originale è conservato a Milano. È la stessa riproduzione, con la stessa cornice, che ornava la stanza matrimoniale di mio nonno. Egli, Giuseppe Attene detto Peppino, si sposò in prime nozze nel 1908 e posso ragionevolmente escludere che si sia mai recato alla Pinacoteca di Brera. Quel quadro, o meglio quella riproduzione, è il frutto di un mini percorso di individualizzazione del consumo iniziato più di un secolo fa.

Certo, non sarà la stessa cosa del vedere direttamente la autentica tavola su olio, ma forse l’importante è non dimenticare chi era Raffaello o, peggio, illudersi che un mio disegno sulla parete avrebbe lo stesso valore e significato.

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Beppe Attene

Sardo, 1949, socialista da sempre e per sempre. Buttandosi nella politica professionale ha gettato al vento il suo precedente lavoro (Storia del Pensiero Economico presso Facoltà di Filosofia di Cagliari, come assistente di Paolo Spriano). Uscito dalla politica professionale, è stato Direttore di Cinecittà (Produzione filmica) dall’84 al ’90. Dal ’90 al ’93 è stato Direttore Generale del Luce. Ha compendiato gli anni di politica attiva in un libro intitolato “Politica e società civile, un matrimonio difficile” con prefazione di Riccardo Lombardi. Dopo la apertura della caccia ai socialisti è stato produttore e distributore, con alterne fortune e sfortune, per diversi anni. Quasi senza accorgersene nel 2000 ha vinto un Festival di Cannes. Ha diretto per alcuni anni le Grolle d’Oro di Saint Vincent. È stato giurato in numerosi festival italiani ed internazionali Ha diretto, come autore, un doc su Bruno Mussolini intitolato “Bruno e Gina” e uno intitolato “1945, l’anno che non c’è”. Ha appena pubblicato un libro intitolato “Una lunga catena di unione”. Ha visto momenti peggiori ma anche migliori.

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