Giuseppe Di Vittorio e lo scontro con Togliatti sulla condanna dell’invasione sovietica in Ungheria. Il tempo dimostrerà che Togliatti, il migliore, aveva torto!
23 ottobre 1956: a Budapest una manifestazione popolare di solidarietà con i lavoratori di Varsavia a favore di Gomulka, eletto il giorno prima a capo del partito comunista polacco contro la volontà russa, si trasforma in una rivolta: gli ungheresi vogliono che torni a capo del governo Imre Nagy, sotituito tre anni prima dall’Unione Sovietica con Rakosi.
Nella notte Nagy riceve l’incarico di formare un nuovo governo. La polizia interviene, ci sono parecchi morti per le strade, viene richiesto l’intervento delle truppe sovietiche.
Il 24 tutta l’Ungheria è in rivolta: nascono i comitati operai rivoluzionari. La polizia spara: un centinaio di morti. Il giorno successivo a Mosonmagyarovar muoiono nelle strade altre 120 persone. I consigli operai chiedono il ritiro delle truppe sovietiche, ciò che avviene. Il 31 ottobre però l’Unione Sovietica decise l’invasione dell’Ungheria: Rakosi diviene prima ministro e Nagy è arrestato ed accusato di tradimento. Processato e condannato, viene fucilato nel giugno dell’anno successivo: sarà riabilitato solo nel 1989, quando gli verranno tributati funerali di Stato.
Il contraccolpo degli avvenimenti ungheresi nel mondo fu fortissimo: non mancò chi nei partiti comunisti occidentali condannò subito l’intervento sovietico rischiando di mettere in crisi i rapport; internazionali nel mondo comunista.
In Italia voci di dissenso si erano fatte sentire già nel giugno 1956, quando erano stati proclamati i primi scioperi a Poznam, in Polonia, a favore del ritorno al potere di Gomulka. A favore degli scioperanti si era levata subito la voce di Giuseppe Di Vittorio, segretario generale della C.G.I.L.: Togliatti, segretario del P.C.I., aveva risposto con un articolo nel quale si sottolineava la “presenza del nemico” tra gli scioperanti.
II 27 ottobre, mentre in Ungheria divampava la guerriglia nelle strade, il socialista Giacomo Brodolini, della segreteria della C.G.I.L., predispose un documento che venne sottoposto il giorno stesso a Di Vittorio, da lui approvato e immediatamente reso pubblico: premessa la constatata condanna storica e definitiva di metodi antidemocratici di governo e di direzione politica che determinano it distacco tra dirigenti e masse popolari, chiara condanna questa del regime di Rakosi, si deplorava che “sia stato richiesto e si sia verificato in Ungheria I’intervento di truppe straniere”.
Per il P.C.I. del tempo, in una situazione di piena “guerra fredda”, una simile posizione politica era inaccettabile: non c’era solo la condanna dell’Unione Sovietica, la nazione guida del comunismo mondiale, ma anche l’accusa per il regime di un paese del “socialismo reale” di essere antidemocratico.
La riunione della direzione del P.C.I. del 30 ottobre, di cui faceva parte anche Di Vittorio, fu una sorta di processo politico al Segretario generale della C.G.I.L.: la sua posizione era agli occhi di Togliatti aggravata dal fatto che “Trybuna Ludu”, quotidiano del partito comunista polacco, aveva accolto come critiche amichevoli i rilievi di Di Vittorio a proposito delle manifestazioni di Poznam.
Di Vittorio fu costretto a fare una parziale autocritica del sua comportamento, giustificandolo con la necessità di trovare una posizione comune con la componente socialista della C.G.I.L., ma resto fermo nel respingere le manifestazioni di Budapest come antirivoluzionarie. Il dibattito che si svolse rese evidenti, al di la della volontà dei protagonisti, la contrapposizione tra due modi diversi di intendere il rapporto tra
governanti e governati, ed insieme le contraddizioni che cominciavano ad emergere
nel mondo comunista: quella di Di Vittorio non era infatti una posizione isolata. Un “manifesto” firmato da 101 intellettuali comunisti, critici verso le posizioni di Togliatti, l’uscita dal P.C.I. di alcuni di essi (ad esempio, Antonio Giolitti, Antonio Maccanico), l’espulsione di altri (Fabrizio Onofri), erano tutti segni che il segretario della C.G.I.L. non era isolato: in una lettera inviata a Mosca Togliatti parlo addirittura della spinta di alcuni settori del P.C.I. alla sua sostituzione con Di Vittorio.
La strappo venne ricucito nel segno dell’unità del partito ma il rapporto Togliatti — Di Vittorio risulterà incrinato per sempre: fu solo l’epilogo di due vicende personali e politiche molto diverse e che pure si erano snodate in parallelo per molti anni. Togliatti era stato socialista e poi comunista fin della fondazione del partito (1921). Di Vittorio era arrivato al P.C.I. qualche anno più tardi (1924) ma per una via molto diversa.
Nato nel 1892 a Cerignola, figlio di un povero bracciante, alla morte del padre fu costretto a lasciare la scuola (frequentava la seconda classe elementare) per andare a lavorare nei campi. A dieci anni partecipò alla prima manifestazione dei braccianti. Due anni dopo, durante una manifestazione per uno sciopero generale, vide morire accanto a se l’amico Ambrogio, colpito da un proiettile della polizia: l’anno successivo, a quattordici anni, ne commemorò la morte sulla piazza di Cerignola.
Lavorava e studiava: la notte, a lume di candela, leggeva seguendo i consigli del suo vecchio maestro della scuola elementare. Net 1907 fondò a Cerignola il circolo giovanile socialista, l’anno successivo entro nel direttivo della lega dei braccianti di Cerignola e nel 1911 divenne segretario della Camera del lavoro di Minervino Murge.
Temi della contrapposizione tra braccianti e proprietari delle terre erano il contratto, l’orario di lavoro e a tariffa, cioè la paga giornaliera. La lega del braccianti di Cerignola, tra il 1907 e il 1909 riuscì ad ottenere l’orario di nove ore, la tariffa fissa, un vitto migliore, ma tutto questo in uno scenario di violenze, di soprusi, di illegalità, di manifestazioni duramente represse.
E’ in questo quadro che avvenne la formazione politica e sindacale di Di Vittorio. II suo punto di riferimento era la conquista della “cittadinanza”, cioè della parità con gli altri cittadini, dei braccianti. Ottenne la scuola serale gratuita, dove lui stesso conseguì il diploma di terza elementare, convinse i braccianti ad abbandonare il tabarro, segno di una condizione sociale, per indossare il cappotto, come gli altri “cittadini”, creo una organizzazione sindacale stabile, diffusa nel territorio, che ottenne una serie di piccoli benefici per i braccianti. Il suo orientamento politico era quello del sindacalismo rivoluzionario, visto più come azione di trasformazione delle condizioni di vita dei contadini che come strumento di distruzione delle strutture del capitalismo.
Tra il 1907 e il 1908 il movimento dei lavoratori dei campi in Puglia cresce fortemente. Al congresso contadino di Cerignola (21 aprile 1920) sono 20.000 i contadini rappresentati dai loro delegati: l’anno dopo, al congresso di Spinazzola sono 65.000.
I legami con la Federterra, organizzazione nazionale aderente alla C.G.L. si allentano. Il 25 aprile 1909 venne fondato il Circolo giovanile socialista di Cerignola: Di Vittorio ne divenne segretario e presto ne spostò la collocazione dal P.S.I. al sindacalismo rivoluzionario, che aveva il suo centro di riferimento nella Federazione giovanile sindacalista di Parma, dove Alceste De Ambris, segretario della Camera del lavoro locale, pubblicava “L’Internazionale”.
Il 19 novembre 1910 il circolo di Di Vittorio cambia nome (“XVI maggio 1904”, per ricordare un eccidio di sei anni prima) ed aderisce alla Federazione degli “internazionalisti”. Al congresso regionale socialista unitario di Andria (3 dicembre 1911) ottiene un successo sulla corrente restata legata al P.S.I. e nel 1911 partecipa a Firenze al Congresso nazionale dei sindacalisti rivoluzionari, dove chiede l’allargamento del diritto di elettorato, si dichiara fermamente antimilitarista e critica la corrente riformista. Tuttavia in Puglia non rompe i rapporti con i riformisti che nella regione sono in maggioranza, in nome della unità nelle quasi quotidiane esperienze di lotta sindacale.
Nel 1912, in seguito alla partecipazione ad una manifestazione di braccianti, viene arrestato e rinchiuso per alcuni mesi nel carcere di Lucera: non partecipa per questo motivo al congresso costitutivo dell’Unione Sindacale Italiana, alla quale aderisce la Camera del lavoro di Cerignola, e viene eletto nel comitato centrale della nuova organizzazione.
La sua posizione politica si va sempre pia distinguendo da quella dei “riformisti” del P.S.I., pur sempre tenendo fermo il principio della necessaria unità dei lavoratori nella lotta di classe.
Nel giugno 1914, durante la “settimana rossa”, uno sciopero generale indetto a Bari dalla C.d.l. degenera in violenti scontri di piazza: Di Vittorio si sottrae all’arresto fuggendo a Lugano.
La guerra è alle porte: i socialisti si spaccano sulla questione dell’intervento italiano.
Di Vittorio appare incerto: ritiene imbelle il neutralismo ma teme che sul fronte opposto trionfi il militarismo e si dichiara favorevole ad una insurrezione, che è mera utopia e che cela la sua adesione, pur con molti dubbi, all’intervento.
Dichiarata la guerra, viene arruolato, destinato al I° reggimento bersaglieri, e nel 1916 ferito gravemente. Dichiarato inabile al combattimento, viene trattenuto alle armi come sorvegliato speciale prima a Roma poi in una compagnia di disciplina in Sardegna ed infine a Porto Badia, il più lontano presidio Italiano in Cirenaica.
Tomato in Italia con la fine della guerra, riprende nell’inverno 1919 il suo posto di segretario della Camera del lavoro di Cerignola.
Lo stesso anno, al III° Congresso dell’Unione Sindacale, tornò ad insistere per l’unita di tutti i lavoratori in comitati locali facenti capo ad una organizzazione nazionale, ma la sua proposta non ebbe seguito: internazionalisti e riformisti restarono separati in una lotta che si fece più aspra per l’entrata in campo, specie in Puglia, delle organizzazioni fasciste, schierate con i proprietari terrieri.
Molte Camere del lavoro furono incendiate: il 20 marzo 1921 tocca a quella di Cerignola. Il 10 aprile successivo Di Vittorio venne arrestato e nuovamente rinchiuso nel carcere di Lucera. Nel mese successivo fu candidato alle elezioni per la Camera dei deputati nella lista socialista a condizione che non gli si chiedesse l’iscrizione al partito: fu eletto ma a questa punto sorse il problema della incompatibilità fra la nuova carica e quella di aderente all’U.S.I. II problema fu risotto con la dichiarazione di Di Vittorio di impegno a “non fare il deputato” (un solo intervento in tuta la legislatura): l’alternativa era tornare in carcere.
Tomò a lavorare in Puglia e nello stesso anno divenne segretario della Camera sindacale di Bari, impegnandosi ancora per l’unità dei lavoratori con la costituzione della sezione di Bari della Alleanza del lavoro in cui erano confluiti a livello nazionale Ia C.G.d.I. e I’U.S.I. (Unione italiana del lavoro), oltre ad altre organizzazione sindacali di categoria.
Nel settembre 1923 si iscrisse al P.S.I. aderendo alla corrente che si richiamava alla “terza internazionale”. II 15 febbraio successivo lasciò con altri cinque deputati il gruppo parlamentare del P.S.I. e nel 1924 si presentò candidato alla Camera dei deputati nella lista del P.C.I., ma non fu eletto. Nel 1924, insieme ad altri della corrente “terzina”, si iscrisse al P.C.I. e venne chiamato a fare parte della sezione agraria per curare in particolare l’organizzazione dell’Associazione di difesa dei contadini meridionali cercando adesione non solo fra i braccianti, ma fra tutti i lavoratori della terra, compresi i piccoli proprietari.
Tra agosto e settembre 1925 Di Vittorio, nel clima di intolleranza per i sindacati seguito alla instaurazione del nuovo regime, venne arrestato altre due volte per poi essere scarcerato per mancanza di indizi. Nel mese di dicembre per sottrarsi alla condanna al confino di polizia per quattro anni (l’anno dopo il Tribunale speciale lo condannerà a 12 anni di carcere e tre di vigilanza speciale), fuggi in Francia, dove sarà raggiunto poco dopo dalla moglie e dai due figli.
A Parigi Di Vittorio assunse l’identità di Marco Nicoletti ed organizza i Comitati proletari antifascisti, di ispirazione comunista che si contrapponevano alla concentrazione antifascista degli esuli appartenenti agli altri partiti antifascisti.
Nel 1927 fu espulso dalla Francia per la partecipazione alle proteste per l’esecuzione negli Stati Uniti di Sacco e Vanzetti e perchè falsamente indicato come mandante della uccisione del Vice Console italiano a Parigi. Nel 1928 fu inviato dal P.C.I. a Mosca presso il Krestinter, l’organizzazione mondiale dei contadini comunisti, ma non fu una esperienza felice: l’internazionale contadina era già da tempo in declino e la collaborazione con Misiano e Miglioli al Soccorso operaio per l’Italia era una collocazione di scarsa rilevanza nel mondo comunista. Nel 1930 tornò a Parigi e il 20 marzo nella riunione che si tenne a Liegi del Comitato centrale del P.C.I., Di Vittorio, saldamente schierato sulle posizioni di Togliatti (che erano quelle del partito
comunista sovietico di condanna delle socialdemocrazie, equiparate al fascismo)
divenne membro effettivo del Comitato stesso. Nel maggio successivo fu cooptato nel direttivo della CGL clandestina, create a Milano il 20 febbraio 1927 per reagire alla decisione di alcuni dirigenti della Confederazione del lavoro come Rigala e D’Aragona di cessare l’opposizione al fascismo e sciogliere la Confederazione.
A Parigi anche l’ultimo segretario della C.G.d.L., il socialista Bruno Buozzi, aveva però costituito una C.G.d.L. in esilio che aveva ottenuto it riconoscimento della Federazione sindacale internazionale.
La situazione della C.G.L. di ispirazione comunista era molto difficile sul piano internazionale: alla III conferenza della C.G.L. (agosto 1930) venne decisa l’adesione all’I.R.S. (Terza internazionale), pur dichiarandosi Di Vittorio favorevole ad un “fronte unico di classe”. Nell’articolo apparso su “Stato Operaio” nel 1930 con il titolo “Il lavoro di massa nel P.C.I.” aveva compiutamente esposto il suo pensiero circa la funzione del sindacato, indicato come “strumento principale del partito per il lavoro di massa”: la conseguenza era che, come scrisse Togliatti (Lo Stato Operaio, 1931, n. 10) il sindacato doveva riproporre in ogni luogo la lotta di classe per non essere un duplicato del partito.
A questa conclusione Di Vittorio oppose una sorta di resistenza passiva: l’antico sindacalista rivoluzionario non poteva accettare lo schema leninista, riproposto da Togliatti, della subordinazione del sindacato al partito. Già nel 1935 però, ancora una volta fu costretto a fare autocritica su “Stato Operaio”: affermando che il sindacato doveva essere “la base fondamentale del lavoro di massa”, a contatto con la vita quotidiana dei proletari.
Venne il momento di mutare atteggiamento nei confronti dei socialisti, secondo la
mozione approvata dal Komintern nel suo VIII° congresso (luglio 1935), ratificato
subito dopo dal comitato direttivo della C.G.L.: nel marzo 1937 fu trovato un accordo tra l’organizzazione sindacale comunista e quella socialista, accogliendo la pregiudiziale di Buozzi a proposito della adesione alla Federazione internazionale dei sindacati (F.S.I.).
Al momento dell’accordo Di Vittorio era gia in Spagna, nell’autunno 1936 commissario politico della XI brigata internazionale. Lasciò la Spagna nel febbraio 1937 e tornò a Parigi dove assunse la direzione della “Voce degli italiani”, organo della Unione popolare italiana, organizzazione a prevalenza comunista, destinato agli italiani residenti in Francia. E nella redazione del giornale che conobbe Anita Contini, che divento la sua compagna (la moglie era morta a Parigi ii 12 marzo 1935): la sposerà nel 1946 a Cerignola.
Sono gli anni dello statalismo più duro e dei processi ai “traditori” in Unione Sovietica. Di Vittorio si schiero su posizioni di rigida ortodossia stalinista: all’interno del P.C.I. si alleò con Giuseppe Berti, inviato a Parigi dal Komintern per verificare il rigore ideologico dei comunisti italiani e che sposerà la figlia di Di Vittorio, Baldina, futuro deputato del P.C.I. per diverse legislature.
Incaricato con Berti, Greco e Roasio della direzione del centro estero, dopo un breve soggiorno a Bruxelles al momento della occupazione tedesca di Parigi tornò a Parigi dove fu arrestato il 10 febbraio 1941.
Sei mesi dopo fu estradato in Italia ed inviato a Ventotene per scontare la condanna a cinque anni di confino irrogatagli prima della fuga in Francia.
Venne liberato ii 22 agosto 1943 e alla fine del mese nominato dal governo Badoglio
Vice commissario della Confederazione dei lavoratori agricoli. II 29 agosto la direzione comunista ricostituita a Roma non comprendeva Di Vittorio: gli fu affidato solo il modesto compito di coadiuvare Giovanni Roveda, responsabile del settore sindacale.
II 21 dicembre Roveda venne arrestato. Di Vittorio ne prese il posto nelle trattative con Buozzi per i socialisti e Giovanni Gronchi per i cattolici per dare vita ad un sindacato unitario.
L’accordo, il patto di Roma che diede vita alla C.G.I.L., fu firmato il 9 giugno 1944, ed accolto con qualche critica per la sua genericità da parte dei comunisti più intransigenti.
Nel prima convegno della nuova organizzazione che si svolse a Roma nel settembre 1944 Di Vittorio, consapevole della fragilità del patto, insiste sulla autonomia dai partiti, nel rifiuto di una concezione meramente strumentale del sindacato.
Al congresso di Napoli (20 gennaio — 1 febbraio 1945) della C.G.I.L. svolse una relazione che trovò poi riscontro nello statuto: punti fondamentali erano la centralizzazione della stipulazione dei contratti per favorire la omogeneità delle rivendicazioni e dare una garanzia politica alle minoranze, la riforma agraria e la nazionalizzazione dell’industria elettrica.
Malgrado la forma paritetica della segreteria confederale (un segretario per ogni componente politica di riferimento) Di Vittorio, di fatto, assunse la leadership della C.G.I.L. Togliatti sembro inizialmente lasciargli ampi spazi. Nel 1946 Di Vittorio entrò a far parte del comitato centrale e della direzione del P.C.I., ma già nel settembre 1946 la sintonia con il partito si incrinò: Togliatti avanzò l’ipotesi di un nuovo corso che desse spazio all’iniziativa privata e vedesse lo Stato lottare contra la speculazione e guidare la ripresa economica.
Poco tempo dopo, al Comitato centrale del Partito (19 — 21novembre 1946), il Segretario comunista criticò duramente la C.G.I.L. affermando che essa doveva abbandonare la strada delle mediazioni per accentuare la spinta rivendicativa, ed accusò il suo Segretario Di Vittorio di un metodo di lavoro accentratore e dispersivo. Ciò non incise però sulla popolarità dell’ex bracciante pugliese: nell’agosto 1945 si era recato in Russia per tentare di dare una risposta a proposito dei prigionieri di guerra italiani, la C.G.I.L. fu ammessa nella Federazione sindacale mondiale, che riuniva organizzazioni sindacali nazionali comuniste e non (Di Vittorio ne divento Vice presidente nell’ottobre 1945) e diede un rilevante contributo alla scelta in favore della Repubblica al referendum del 2 giugno 1946.
Eletto deputato all’Assemblea costituente, Di Vittorio fu relatore sui temi sindacali alla “Commissione dei 75” che predispose il testo della nuova Costituzione: venne sancito ii diritto di sciopero (e non di serrata) senza limiti costituzionali, stabilita la libertà della organizzazione sindacale e l’obbligatorietà per tutta la categoria interessata dei contratti collettivi di lavoro, ma non la riserva della stipula di essi al sindacato maggioritario, tesi questa sostenuta da Di Vittorio e non accolta in quanta avrebbe riservato alla C.G.I.L. il monopolio della contrattazione sindacale. Al tempo stesso pero si andava accentuando all’interno della confederazione la divaricazione tra cattolici e marxisti: malgrado gli sforzi di mediazione di Di Vittorio, si fece sentire nel sindacato l’accentuarsi, dopo la esclusione (1946) dei comunisti dal Governo, la contrapposizione politica tra il centro democristiano e la sinistra comunista e socialista.
Il problema della adesione o meno al piano Marshall, tenacemente avversata dal P.C.I., fu superato (dicembre 1947) con l’affermazione che non spettava ai sindacati esprimersi in proposito, ma i rapporti interni erano ormai compromessi.
Alle elezioni del 18 aprile 1948 Di Vittorio fu tra coloro che guidarono la campagna
elettorale del Fronte popolare (comunisti e socialisti): la sconfitta elettorale rafforzo i
sindacalisti cattolici (come il segretario confederale Giulio Pastore) favorevoli alla scissione sindacale.
L’occasione fu lo sciopero generale proclamato dalla C.G.I.L. il 14 luglio 1948, dopo l’attentato a Togliatti: Di Vittorio incontrò il Presidente del Consiglio De Gasperi che lo convocò al Vicinale e fece tutto quanto possibile per far rientrare i moti insurrezionali che seguirono all’attentato. Fu fissata la fine dello sciopero per il mezzogiorno del 16 luglio, ma invano: la componente democristiana della C.G.I.L., con una lettera di Pastore, dichiarò di aver scelto di non partecipare alle riunioni della segreteria e rivendicò la sua piena autonomia. Nella riunione del comitato esecutivo della C.G.I.L. del 26 luglio i dirigenti sindacali democristiani furono dichiarati decaduti. Era la fine dell’unita sindacale: l’anno successivo furono costituite la C.I.S.L. e la U.I.L.
La C.G.I.L. accentuò i contatti con le organizzazioni sindacali comuniste. Nel giugno 1949 si svolse a Milano il secondo congresso della F.S.M., da cui erano uscite le organizzazioni sindacali inglesi e americane con il conseguente aumento dell’influenza sovietica: Di Vittorio fu eletto presidente della federazione, carica nella quale fu confermato nel successivo congresso di Vienna del 1953.
Crebbero le tensioni sociali: nel 1949 iniziò il movimento di occupazione delle terre da parte dei braccianti soprattutto nelle regioni meridionali, aumentò la disoccupazione, divennero più frequenti le manifestazioni, anche cruente, di piazza. Al secondo congresso della C.G.I.L. (Genova, 4 — 9 ottobre 1949) Di Vittorio lanciò l’idea di un “piano del lavoro”, fondata sulla nazionalizzazione delle imprese elettriche nella prospettiva di un forte impulso alla produzione di energia, sulla riforma agraria e su nuovi investimenti nell’edilizia pubblica e nelle infrastrutture. Il piano, centrato sulla sfiducia nel capitalismo e sull’intervento pubblico nell’economia proprio nel momento
in cui l’industria al nord iniziava a decollare, ebbe più critiche che consensi anche tra
le forze politiche progressiste per la sua astrazione rispetto alle lotte che in quel periodo operai e contadini conducevano nelle fabbriche e nelle campagne.
La C.G.I.L. si venne a trovare su posizioni di obiettiva debolezza, anche per i margini sempre più ristretti degli spazi rivendicativi dinanzi alla dura chiusura del mondo imprenditoriale ed alla politica repressive delle manifestazioni di piazza del ministro degli interni Scelba: le fu necessario assumere posizioni eminentemente difensive.
Nel III Congresso della C.G.I.L. (Napoli, 26 novembre — 3 dicembre 1952) Di Vittorio formulò per la prima volta la richiesta di uno “Statuto dei diritti, delle liberta e delle dignità del lavoratori nell’azienda”, il futuro Statuto del lavoratori: non fu sufficiente ad evitare la crisi della organizzazione che divenne acuta dopo le elezioni politiche del 1953, malgrado la vittoria elettorale ottenuta dalle sinistre.
La sviluppo economico aumentava gli spazi della contrattazione aziendale, in contrasto con la linea sempre propugnata da Di Vittorio della contrattazione unica ed accentrata, mentre la vertenza sul conglobamento, conclusasi con un accordo tra Confindustria da una parte e C.I.S.L. e U.I.L. dall’altra e con il ritiro della C.G.I.L. dal tavolo della trattativa, l’esito negativo delle elezioni dei delegati sindacali alla FIAT (1955) dove in un anno la C.G.I.L. passò dal 60 per cento al 36 per cento del voti e fu sorpassata dalla C.I.S.L. che ottenne il 40 per cento, furono le tappe di una crisi che si arresterà solo negli anni ’60.
Di Vittorio nel comitato direttivo della confederazione dell’aprile 1955 fece una
serrata autocritica fissando due nuovi obiettivi (limiti dell’orario di lavoro e
sottoposizione a regolamentazione collettiva da parte delle commissioni interne di tutte le forme di retribuzione ad incentivo) che significavano in pratica la fine della politica centralistica seguita fino a quel momento.
Mentre si preparava ii IV congresso della Confederazione, che avrebbe dovuto ratificare la nuova linea Di Vittorio ebbe un prima infarto (dicembre 1955) e il P.C.I. ne preparò la successione al vertice della C.G.I.L. Il prescelto fu Secondo Pessi, segretario del P.C.I. in Liguria, che venne cooptato nella segreteria della C.G.I.L. e tenne la relazione principale al congresso di Roma (febbraio — marzo 1956).
Di Vittorio intervenne al Congresso con un breve discorso per illustrare la svolta da lui propugnata dopo tempo prima. I rapporti con il P.C.I. dopo le posizioni assunte sui fatti d’Ungheria divennero molto difficili: all’VIII congresso del P.C.I. (8 — 14 dicembre 1956) Di Vittorio ribadì la sua posizione a favore degli insorti affermando che la classe operaia “è composta di uomini in carne ed ossa” e che l’azione dei comunisti in tutti i paesi deve essere condotta col libero consenso e con la collaborazione diretta e creatrice delle masse” per non esporsi “a tutte le degenerazioni burocratiche e alle peggiori catastrofi”.
A sottolineare la rottura con il partito, dopo trentatre anni di militanza, fu la posizione assunta da Di Vittorio a proposito del M.E.C., vista come un esigenza obiettiva da appoggiare a determinate condizioni (Comitato esecutivo C.G.I.L. del 19 luglio 1947) in contrasto con le posizioni di netta chiusura assunte dal P.C.I.: ribadirà la sua tesi nell’ottobre 1957 a Lipsia, al IV congresso della F.S.M.
Fu l’ultimo intervento pubblico di Di Vittorio: morì per un infarto ii 3 novembre 1957 a Lecco dove si era recato per inaugurare la Camera del lavoro.
Bibliografia
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