Oggi la nostra terminologia dell’accomodamento e della rinuncia italica a ogni proposito, sia pure incerto e vago, di cambiamento s’è arricchita di un nuovo vocabolo: discontinuità. Altro che rivoluzione, estranea alla nostra vocazione pacifica: basta la discontinuità!
E’ vero che chi ne parla e ne scrive non si è mai preso la briga di consultare un dizionario ma è anche indubbio che così facendo ha creato un neologismo diverso dal significato del lessico originale che, a causa dell’analoga idiosincrasia di molti italiani per il Vocabolario, ha avuto una grande fortuna.
La discussione, però, che intorno a tale parola si è sviluppata merita un commento. Per il Partito Democratico discontinuità significherebbe “rottura” con tutto l’operato di un governo precedente e radicale cambio di rotta con una sua conversione a trecentosessantagradi; per il Movimento Cinque stelle, invece, vorrebbe dire “prosecuzione” con il Conte 2 dell’opera intrapresa dal Conte 1 per portare a compimento il meraviglioso programma di governo, da esso concordato con la Lega. E’ chiaro che in tal senso la “discontinuità, c’è solo tra ciò che dice Zingaretti e ciò che afferma Di Maio; e ciò, nel senso vero e originario del termine, inteso come incoerenza, contraddizione e irregolarità (per lo più, vistose) nelle varie fasi successive della manifestazione di un pensiero.
In tutto il discorso dei giorni delle consultazioni si è fatto solo qualche accenno indiretto alla cosiddetta volontà popolare. Ora, sarà pure vero ciò che sostengono Gino & Michele, Matteo Molinari che “Anche le formiche nel loro piccolo s’incazzano”, ma è altrettanto incontestabile che della loro “incazzatura” si preoccupano poco le tigri, le pantere, per non dire gli elefanti e i rinoceronti.
Fuor di metafora, gli Italiani, schiacciati dalla politica economica dell’Unione Europea (a sua volta “prigioniera” del Sistema degli Anonimi dell’Alta Finanza e del Mondo delle Banche) possono pure “incazzarsi”, bene a ragione, perché si sentono inchiodati da tale politica alla crescita zero, ma come per gli insetti di Gino & Michele e Matteo Molinari, la loro “incazzatura” interessa poco o punto le bestie feroci e di grande “stazza” e robusta corporatura che abitano le “dorate” stanze di Wall Street, della City e di palazzo Europa.
Così, come, a voler credere alla storia di Davide e Golìa, narrata dalla Bibbia, è pur credibile che un gigante alto e robusto possa essere affrontato da un ragazzo smilzo e mingherlino che ha nella mano solo una fionda (senza rosario con croce annessa, che lo impiccerebbe nei movimenti), ma a condizione che il giovane virgulto sappia scagliare il sasso con forza e precisione e ammazzare, in un solo colpo, il nemico filisteo, fracassandogli la testa, senza possibilità di reazioni; e pur senza l’aiuto del Cuore Immacolato di Maria.
Ancora fuor di metafora, la battaglia iniziata dal nostro Davide leghista, Matteo Salvini, è apparsa subito oltre che improba destinata a un sicuro insuccesso. E ciò non tanto perché l’uomo era del tutto inesperto nell’uso della fionda, quanto perché non ha capito di trovarsi di fronte un Golia non solo alto e grosso, ma soprattutto dotato, a differenza di quello biblico, di corazzature impenetrabili e di elmi inattaccabili a causa dei cospicui mezzi finanziari profusi nella loro realizzazione. Inoltre, non si è resto conto che la tenzone sarebbe avvenuta nel fragore prodotto da una rete gigantesca di altoparlanti mass-mediatici, controllati dal gigante, che facevano un grande schiamazzo, ignorando e coprendo, con filtri “sofisticati” gli urli di guerra del giovane sfidante.
Inoltre, e sempre fuor di metafora, Matteo Salvini non doveva minacciare al nemico fuochi e fiamme, disponendo solo di “bengala”, né annunciare la “flat tax”, lo sgravio fiscale dei contribuenti italiani per una robusta ripresa produttiva, sulla linea di quanto era avvenuto nel Bel Paese all’epoca del boom degli anni cinquanta-sessanta e secondo la teoria dell’economista Milton Friedman, molto seguita nel mondo anglosassone, facendo per converso solo le riforme demagogiche e sinistrorse dei suoi “compagni” di governo (quota Cento, reddito di cittadinanza e così via). Certo: era difficile capire e soprattutto affermare che i suoi alleati, fossero venuti alla ribalta politica solo grazie al sostegno economico di entità “misteriose” e che fossero, quindi, soltanto la “quinta colonna” dei banchieri.
Sostenere che questi ultimi avessero sostenuto i raduni oceanici del loro leader Beppe Grillo (divenuto, nel frattempo anche fautore dei governi tecnici di deprecata memoria) e degli enigmatici Casaleggio era impresa superiore alle forze di un Movimento nato con le ingenuità connesse ad antichi riti fluviali. Ciò che, però, potevano comprendere era che il Movimento Cinque Stelle, fosse gauchiste come il PD e seguisse lo stesso percorso disinvolto e spregiudicato di Matteo Renzi. Non era difficile accorgersi che con i suoi postulati tardo-comunisti fosse seguace della stessa linea d’azione. L’Italia, a causa delle misure, costose e improduttive, che facevano la gioia di Luigi Di Maio, non riusciva a risalire la china in cui l’Unione Europea l’aveva sospinta.
Intanto, nel mondo dei ricchi Paperoni mondiali avveniva ciò che Eduardo De Filippo racconta in una sua commedia. Il drammaturgo napoletano fa dire, a un certo punto, al protagonista che quando i “milioni” entrano in ballo, lanciano un semplice urlo di richiamo, e tutti i “milioni” sparsi nel mondo si ricongiungono prontamente. Ciò, con buona evidenza, è avvenuto, nella giungla politica del Bel Paese.
Mentre le “incazzate” formiche italiane affidavano al Davide, leghista, il compito di liberarle dalla presenza incombente del gigante Golia, rappresentante dei Paperoni mondiali, gli uomini politici sensibili alle lusinghe dei doni degli istituti bancari (e dei prestiti, in minor misura, elargiti a mass-media che curavano il loro sostegno nella lotta politica), hanno percepito chiaramente il richiamo della giungla finanziaria occidentale e hanno risposto alla chiamata alle armi; si sono mobilitati; hanno messo nel dimenticatoio vecchie ruggini; hanno mandato alle ortiche il loro senso del pudore (politico) e si sono dati all’orgia omicida della distruzione del “nemico”.
Quale futuro per il Bel Paese dopo i giorni terribili della “discontinuità”? Chi è incline all’ottimismo pensa che bisognerebbe evitare di “svendere” definitivamente l’Italia all’Unione Europea; chi tende, invece, a una visione più realistica e cruda della situazione odierna, ritiene che il Bel Paese, dopo aver fatto tre guerre d’indipendenza dall’Austria, veri e propri conflitti con le armi in pugno (combattuti con il sostegno dell’Inghilterra liberale e dell’Impero francese di Napoleone III) dovrebbe ora fare la quarta per liberarsi dall’Egemonia franco-tedesca, dominante in Europa, con la sola arma del cervello e di scelte popolari e politiche adeguate.
I fautori delle seconda linea di pensiero non si nascondono che perché essa abbia successo mancano in Italia le condizioni basilari: un partito a) laico non solo a-confessionale ma anti-cattolico, per l’innegabile vicinanza della politica della banca vaticana (IOR) a quella degli istituti di credito dell’Unione Europea e per l’impossibilità di conciliare lucidità di giudizi con trappole fideistiche irrazionali; b) antifascista, per evitare di cadere dalla padella di un autoritarismo soffuso alla brace di un totalitarismo ideologico, già avvertito come insopportabile dagli Italiani; c) anticomunista, più che per le stesse ragioni di cui al punto precedente (ormai superate dagli eventi del tonfo) per il dichiarato e compatto schieramento di tutta la Sinistra Occidentale con le posizioni del Gran Capitale Monetario, dopo il crollo dell’Unione Sovietica (e del Bolscevismo nel mondo con i suoi addentellati social-comunisti, socialdemocratici, cristiano-sociali e via discorrendo).
Senza tali condizioni – concludono gli aspiranti secessionisti – sarà ben difficile per il Bel Paese riprendere il controllo della propria azione politica, autonoma e indipendente, ed evitare di subire crisi di governo pilotate e dirette da Bruxelles (ma sostanzialmente da Berlino e da Parigi) che, ritardando o evitando agli Italiani, per il tempo più lungo possibile, di partecipare a libere elezioni, impongono (fingendo di suggerirli a orecchie discrete nelle ovattate stanze del potere) governi di salute pubblica (c’è sempre un Annibale alle porte), affidati a tecnici (ora anche con la benedizione del “rivoluzionario Vaffa”) e uomini politici di sicura fede europeista e filo-monetarista che hanno la virtù magica di operare sullo spread, sulle pagelle delle agenzie di rating e su altre diavolerie finanziarie.
In conclusione, “addio sogni di gloria, castelli in aria, e brindisi con bicchieri” comunque colmi: teniamoci la nostra paralisi politica e continuiamo a dire “Franza o Spagna, purché se magna!” E’ il nostro destino!
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