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El Pibe

Non dovrei mai parlare di calcio perché non me ne intendo e perché la suscettibilità dell’interlocutore è massima. Se ti coglie impreparato o si infastidisce o ironizza.

La rete ha ormai dimostrato che siamo nati tutti scienziati, sappiamo tutto di tutto (e ne straparliamo) ma del calcio poi…..
E infatti non voglio occuparmi di football, voglio trattare del fenomeno Maradona (le due parole vanno obbligatoriamente abbinate).
Sei pagine (come nel caso dei terremoti più devastanti) sui principali quotidiani forse si spiegano, oltre che per la fenomenalità del medesimo, con l’entusiasmo dei mezzi di informazione per avere -almeno per un giorno- una notizia alternativa al Covid.

In tanta sobrietà e compassatezza ho così scoperto che Diegoarmando quando giocava non praticava una disciplina sportiva ma sfoderava puro estro artistico e che i suoi piedi comunicavano una profonda filosofia.
Per riempire tutto quello spazio informativo, la sua vita è stata organizzata per capitoli: il gioco giocato, la politica estera, la teoria della liberazione, le due rivoluzioni (la cheguevariana e la fidelcastriana) che come noto sono diverse, l’orgoglio napoletano, le signorine e i figli illegittimi, la cocaina, la camorra, la generosità e beneficenza, i rapporti con il Papa.

Del gioco si è parlato pochissimo, forse perché tutti se lo ricordavano a memoria. Infatti un giornalista sportivo che guardava scorrere le immagini ha subito riconosciuto il gol degli “undici tocchi”. Immagino siano i dribbling, gli scarti consecutivi prima della rete. Effettivamente una grande prestazione, visto che gli avversari sono 11, compreso il portiere.

Il pezzo forte è stato il racconto del suo terzomondismo, dimostrato soprattutto dai tatuaggi dei suoi eroi che portava addosso.
Del periodo napoletano i ricordi erano soprattutto di pizzaioli, posteggiatori, paparazzi, cantanti melodici, a dimostrazione che la sua vita sociale era quella classica dei calciatori. Mancava un barbiere, sintomo che i capelli dei campioni di allora non erano ancora assuefatti ai tagli e alle tinture strampalate di oggi.

Ma veniamo all’aspetto che mi ha colpito e che mi spinge a parlarne.
Tutti coloro che ne hanno scritto o parlato in questi giorni, hanno sentito il dovere di partire dalla doppia personalità di Maradona, eroe e mascalzone.
Lo sentivano come un obbligo etico, una onestà culturale.
Era come se le anime belle e pure, che fanno la morale ogni giorno al Paese, provassero il bisogno di una licenza prima di abbandonarsi ai superlativi, alle adorazioni.

Se sei a disagio, meglio parlare di calcio e basta, piuttosto che inventare qualunque giustificazione che permetta poi di assolverlo e di assolverti.
Si cominciava sempre dalle sue debolezze che, poco per volta, venivano scusate con il suo folclore, esagerazione, generosità, empatia, voglia di piacere.
Non capisco l’inutile fatica.

Queste celebrazioni si sa che devono per forza arrivare alla santificazione. Lo pretendono la forza narrativa, il pathos, il lieto fine liberatorio, il rimpianto del tempo andato.
A Maradona è bastato il suo talento per conquistarsi la legittimazione.
E poi nessuno più si stupisce e si scandalizza se una star del calcio fa uso di sostanze, ha una vita movimentata, si fa irretire dal corteggiamento di ambienti irregolari e fuori legge.

Non c’è bisogno di fare sociologia e partire dalla povertà e disperazione della famiglia che sono le stesse di tutti i campioni provenienti dal sudamerica.
Così come scomodare la psicanalisi per il tradizionale collegamento genio e sregolatezza. Avere delle dote eccezionali in qualche campo non porta con se’ automaticamente il destino del buio e del vizio in tutti gli altri.

Roberto Saviano si è molto speso, è stato intervistato da chiunque, in forza della sua napoletanita’ e del suo rigore anticamorresco.
Ma se l’è cavata teorizzando la predisposizione del personaggio, la sua vocazione antiistituzionale, anti élite e solidale con gli ultimi.
Mai come in questo momento abbiamo bisogno di eroi ma gli eroi sono stucchevoli se senza difetti. Siccome sono molto meglio di noi nel lato positivo, che ci assomiglino almeno in quello negativo, l’ideale è che siano addirittura peggio.

E poi perché non dovresti perdonare uno che per anni ti ha fatto divertire, emozionare, persino sognare.

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Gianluca Veronesi

Nato ad Alessandria nel 1950, si laurea in Scienze Politiche, è Consigliere comunale ad Alessandria per tre legislature, Assessore alla cultura ed al teatro, poi Sindaco della città. Dirigente Rai dal 1988 al 2018, anni in cui ricopre vari incarichi:Assistente del Presidente della RAI, Direttore delle Pubbliche relazioni, Presidente di Serra Creativa, Amministratore delegato di Rai Sat. E' stato consigliere dell’istituto dell’autodisciplina Pubblicitaria e del Teatro Regionale Alessandrino.

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