Molti anni fa Giovanni Bechelloni descrisse i funzionari e dirigenti RAI paragonandoli ai meravigliosi Moschettieri regalatici da Dumas.
Pronti, cioè, a sostituire la divisa e le insegne al cambiamento del committente. Con il Re, con la Regina, con il duca di Buckingham e talvolta, seppure soffrendo, persino con il Cardinale.
Così gli apparivano allora i dirigenti della televisione pubblica: intenti a spiare le dinamiche del potere politico e pronti a mutar casacca nell’eventuale bisogno.
A riguardare, con la consapevolezza dell’oggi, quella stagione emergono dei fatti e delle evidenze allora non percepibili.
L’accostamento con i Moschettieri era perfetto, ma andava approfondito.
Essi si liberavano del soprabito e della fusciacca di ordinanza per compiere azioni ed imprese diverse a seconda dei momenti, ma restavano (fervidamente e fermamente) Moschettieri.
Operavano, cioè, secondo un esplicito e ben conosciuto sistema di valori, basato su un preciso concetto di onore, al quale avevano giurato fedeltà venendo accettati come Moschettieri.
Quando le svolte o i trabocchetti della politica chiedevano di tradire quel sistema essi deponevano la divisa. Resisi liberi, restavano Moschettieri.
E, in effetti, in modo analogo funzionava generalmente in viale Mazzini.
I dirigenti, tra loro tante differenze culturali e caratteriali, condivideva prima di tutto la concezione della RAI come servizio pubblico.
Erano illuminati, cioè, dal dover sostenere l’Italia nella sua crescita, aiutandone la consapevolezza e favorendo ogni modificazione necessaria a seconda dei passaggi da affrontare.
Naturalmente molte e diverse opinioni potevano maturare ed essere esposte rispetto a queste necessità.
Era differente sottolineare le arretratezze rispetto alle punte più avanzate. Era differente pensare di agire attraverso l’intrattenimento piuttosto che con espliciti percorsi formativi.
Mille opinioni potevano maturare e cambiare di momento in momento; quel che tuttavia non si può non riconoscere alla grande maggioranza di quel ceto dirigenziale che costruì la RAI è la adesione profonda all’idea di lavorare, sempre, per l’interesse collettivo.
In questo contesto si collocava la relazione con le forze politiche: strumenti necessari a poter svolgere la propria funzione e obbedire al proprio dovere secondo le proprie convinzioni.
Ciò poteva spesso portare a dover mediare con ristrette esigenze di carattere politico e, ovviamente, lo si faceva.
Raramente, però, per non dire mai si vide la RAI rinunciare alla propria autonomia e non difendere ad oltranza la propria funzione di strumento volto all’interesse collettivo e non di parte.
Va detto ancora che ad essa corrispondeva un sistema politico che condivideva di fondo quella funzione.
I partiti politici, che ne detenevano il governo, premevano e litigavano fra loro per piazzare i propri uomini nei posti di maggiore importanza e rilievo.
Ad essi veniva assegnato il compito di far crescere e rafforzare il servizio pubblico sulla base di quelle strategie comunicative che corrispondevano ai principi istitutivi di ciascuna forza politica.
In nessun caso un partito poteva coscientemente mandare in quelle delicate posizioni figure deboli o incapaci. Nei casi, non insoliti, di errori valutativi la destituzione (magari un poco morbida) era immediata.
Vi era, insomma, una profonda corrispondenza iniziale fra un sistema politico esplicitamente basato sulla dialettica tra differenti concezioni della realtà italiana nel suo sviluppo e un servizio pubblico capace di rappresentarle tutte e di ciò incaricato.
Non è qui possibile soffermarsi sui motivi che portarono storicamente alla distruzione del modello democratico italiano.
Limitandosi, però, alla osservazione delle conseguenze sul sistema pubblico, alcune cose appaiono ben chiare.
Sotto l’ipocrita slogan “fuori i partiti dalla RAI” si è favorita la crescita e il rafforzamento di una casta dirigenziale spesso indifferente ai risultati conseguiti dalla azienda e, soprattutto, alla sua funzione di carattere collettivo.
Contemporaneamente i partiti, che continuavano a designarne i vertici, hanno smesso di giudicare i propri uomini sulla base della strategia di interesse pubblico e si sono limitati a pretendere la rappresentanza dei propri slogan.
Del resto, anche i partiti stavano mutando (e non in meglio).
Non si consideravano più portatori di strategie complessive ma semplici rappresentanti di pulsioni, spesso momentanee, su cui raccogliere il consenso altrettanto momentaneo.
Inoltre, e non come ultima cosa, nel momento in cui è l’isterica presenza sui cosiddetti social a determinare il successo, poco e rozzo interesse si ha per gli stabili assetti del sistema comunicativo in cui, che piaccia o non, il servizio pubblico radiotelevisivo è stabilmente inserito.
Oggi questa contraddittoria situazione si riflette perfettamente nello scontro tra Draghi e i partiti che lo sostengono (sia pur obtorto collo).
Il premier, sulla base delle sue valutazioni, ha fatto il suo dovere; ha indicato figure fortemente responsabili con il compito di raddrizzare la situazione di una azienda pubblica.
Si deve auspicare che ciò avvenga in un clima di chiarezza e convinzione sulla esistenza del servizio pubblico radiotelevisivo.
I partiti devono, se lo ritengono, contestare radicalmente tali scelte o serenamente aggiungervi le loro indicazioni.
In breve tempo occorre offrire ai nostri “ex moschettieri” un quadro di riferimento strategico e unitario al quale riferirsi non come strumento di difesa personale ma come forma di appartenenza condivisa. Una appartenenza, come era una volta, orgogliosa e lucida.
Il passaggio, in fondo, è tutto qua. Non ci sono più i Moschettieri di un tempo perché non ci sono più nemmeno i Poteri di un tempo. Aramis è morto ma neanche Buckingham sta troppo bene.
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