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Gli italo-americani che hanno americanizzato il giornalismo in Italia: Benny Manocchia

Di Dom Serafini

Benny era l’ultimo della dinastia dei Manocchia giornalisti. Ora é rimasto attivo suo nipote, il giornalista di Rai Sport Giampiero (il figlio 63enne del fratello Franco). Dopo oltre 60 anni nella carta stampata, Benito (Benny) é stanco e dalla sua residenza nel Connecticut  (dove vive con la figlia Sandra e i suoi tre figli), promette: “ho scritto sei libri, ora basta!” Ma la tentazione di scrivere é rimasta ed ogni tanto spunta su Internet qualche suo articolo. Una passione iniziata con “Il Corriere dello Sport” nel 1952 a Giulianova in Abruzzo, suo paese nativo, all’età di 18 anni. Passione riaccesa nel 1956, un anno dopo aver raggiunto a New York il fratello maggiore Lino (1921-2017). 

Foto recente di Benny Manocchia

            Ad iniziare con il giornalismo era stato suo padre Francesco (“Il Popolo d’Italia”), seguito da Lino e poi Franco (1926-2012) da Roma con il “Corriere della Sera”. Mentre il quarto fratello, Omero, era deceduto nel 1947 all’età di 17 anni. 

            La carriera “attiva” di Benny si é fermata la prima volta nel 1999, dopo che la francese Hachette aveva acquistata Rusconi, casa editrice in cui era entrato 37 anni prima, dopo un tirocinio con il settimanale ABC (rivista chiusa nel 1981). In seguito, fino al suo secondo stop avvenuto nel 2002, Benny ha collaborato con “Gente”, “Gioia”, “La Notte” e “Gente Motori”, mentre il fratello Lino aveva collaborato con  “Rombo”, la rivista concorrente di automobilismo fondata dal teramano Marcello Sabbatini. Mentre con Franco Benny aveva un rapporto quasi paterno, con il fratello Lino (Pasquale, chiamato Pasqualino e quindi abbreviato a “Lino”), il più famoso della famiglia, il rapporto era più competitivo e poi Lino riteneva Benny un “irrequieto”. Per forza, commenta ora Benny, “voleva fare sempre il duce, ma era bravo in fondo”. Nel suo libro più recente “Cronache Americane”, pubblicato in Italia nel 2017 (il suo primo libro fu pubblicato nel 1971), Benny ha scritto: “Mi é mancata mia madre [e] mio fratello Franco, che per me é stato anche un padre, da quando avevo nove anni e perdemmo il nostro sotto un bombardamento. ”Il padre morì a causa di uno dei tanti bombardamenti angloamericani su Giulianova; la bomba, caduta il 29 febbraio del 1944, aveva centrato in pieno il loro palazzo, si salvarono la madre e tre fratelli, nonostante Benito fosse stato colpito da ben 30 schegge (invece Lino era prigioniero di guerra in Germania).

I fratelli Manocchia, da s. a d.: Franco, Benny e Lino

            A livello di amicizia personale, questo giornalista può dire che Lino non era una persona “facile”, e come molti della sua generazione a New York –– e posso citarne molti, come Renato Pachetti di Rai Corp. (1926 – 2003), Lucio Caputo di Italian Wine & Food Institute (1935-2019), Luigi Marini (classe 1937) della Banca d’Italia e prima ancora Generoso Pope (1927-1988), fondatore de “Il Progresso” –– non aveva filtri. Diceva tutto ciò che gli passava nella mente in quel momento senza pensare alle conseguenze. Ho oramai dimenticato il numero delle volte che Pachetti mi ha buttato fuori dal suo ufficio perché scontento di qualche mio articolo (poi ci riappacificavamo subito), mentre il suo vice presidente, il collega corrispondente da New York per Moondo, Umberto Bonetti, sghignazzava nell’ufficio adiacente. Questi erano i personaggi che per primi hanno replicato l’Italia negli Usa, con programmi radio-TV (Rai Corp), il quotidiano italiano (“Il Progresso”), la Scuola d’Italia (dall’asilo al liceo), l’importazione di vini e prodotti italiani, e varie iniziative comunitarie (Banca d’Italia).

Benny mentre intervista il vice presidente Usa, Hubert Humphrey nel periodo 1965-69 sotto Lyndon Johnson.

            Il mio primo (ed unico) incontro con Benny fu a casa di Lino, a quei tempi residente in un duplex nel Bronx. Negli anni 1968-72 andavo a trovare Lino ogni domenica per aiutarlo a preparare articoli per varie testate in Italia e per registrare programmi radio per “Voice of America”. Nel 1948 Lino aveva sposato Ada Di Michele, una cugina di mia madre che era nata negli Usa. Ricordo che in quel periodo Benny veniva descritto sia da Lino che da Ada come un personaggio strano e misterioso sempre in giro per il mondo. Ricordo anche che a parlare spesso di Benny era anche la madre Filomena, di origini toscane, quando veniva a trovare mia madre e mia zia Ester a Giulianova, anche se ora Benny afferma che il figlio prediletto era Omero. “Non so nemmeno di cosa sia morto”, confessa “mia madre é stata così devastata dalla sua morte, che non ha mai voluto parlarne!” 

            Lino aveva conosciuto Ada quando questa era andata a trovare i parenti a Giulianova ed era stata ospite di mia zia, che ricordava sempre la corte ossessiva di Lino; da allora Filomena ed Ester erano sempre rimaste in contatto.

            In uno dei 40 capitoli del suo libro “Cronache Americane”, Benny chiarisce: “non mi sono mai considerato un grande del giornalismo. Ho fatto il mio lavoro. Meglio che potevo, come stava bene a chi mi pagava per farlo… Il mio mestiere l’ho imparato bene […] e mi ha permesso di parlare con gli intervistati in maniera molto particolare creando con loro una sorta di familiarità. Queste persone capivano che non intendevo ‘provocare la notizia’ a loro danno”, poi spiega anche che “una parte importante del mio lavoro ha avuto a che fare con Hollywood. Un settore molto richiesto in Italia, [ma] un muro durissimo da sfondare. Hollywood ha sempre dimostrato disprezzo, che forse era anche un po’ invidia, nei confronti del cinema italiano”. Infine si abbandona a sentimenti nostalgici: “l’America non é il paradiso e nemmeno un paradiso. Era certamente migliore negli anni ’50 e ’60. Oggi proprio no”.

Copertina del libro, “Cronache Americane”

            A conclusione della nostra chiacchierata telefonica, Benny ricorda come il periodo più bello sia stato quando nel 1991 é tornato in Italia per quattro anni e ha potuto “scoprire l’Abruzzo in lungo e in largo”.

            Come scrive il nipote pescarese Giampiero nella prefazione di “Cronache Americane”: “Benny ha superato la lontananza dall’Italia e non [ha più la] fresca familiarità con la nostra lingua”, da parte mia aggiungerei che ciò che rimane fresco e rilevante é il tipo di giornalismo che ha contraddistinto Benny, Lino ed altri corrispondenti da New York della loro generazione (incluso il più noto Ruggero Orlando) e che ha contribuito a far crescere l’Italia e farla rispettare.

Benny mentre intervista il vice presidente Usa, Hubert Humphrey nel periodo 1965-69 sotto Lyndon Johnson.

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Dom Serafini

Domenico (Dom) Serafini, di Giulianova risiede a New York City ed è
il fondatore, editore e direttore del mensile “VideoAge” e del quotidiano fieristico VideoAge Daily", rivolti ai principali mercati televisivi e cinematografici internazionali. Dopo il diploma di perito industriale, a 18 anni va a continuare gli studi negli Usa e, per finanziarsi, dal 1968 al ’78 ha lavorato come freelance per una decina di riviste in Italia e negli Usa; ottenuta la licenza Fcc di operatore radio, lavora come dj per tre stazioni radio e produce programmi televisivi nel Long Island, NY. Nel 1979 viene nominato direttore della rivista “Television/Radio Age International” di New York City e nell’81 fonda il mensile “VideoAge”. Negli anni successivi crea altre riviste in Spagna, Francia e Italia. Dal ’94 e per 10 anni scrive di televisione su “Il Sole 24 Ore”, poi su “Il Corriere Adriatico” e riviste di settore come “Pubblicità Italia”, “Cinema &Video” e “Millecanali”. Attualmente collabora con “Il Messaggero” di Roma, con “L’Italo-Americano” di Los Angeles”, “Il Cittadino Canadese” di Montreal ed é opinionista del quotidiano “AmericaOggi” di New York. Ha pubblicato numerosi volumi principalmente sui temi dei media e delle comunicazioni, tra cui “La Televisione via Internet” nel 1999. Dal 2002 al 2005, è stato consulente del Ministro delle Comunicazioni italiano nel settore audiovisivo e televisivo internazionale.

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