I Decreti del Presidente del Consiglio (DPCM) con i quali sono state stabilite misure per contrastare la pandemia del coronavirus e che hanno pesantemente inciso su alcuni diritti di libertà (di riunione, di culto, di circolazione, e l’elenco potrebbe continuare) hanno violato o no la Costituzione Repubblicana?
Coloro che hanno condiviso la scelta del Presidente del Consiglio (non è da escludersi che sia stato anche per un diniego del Capo dello Stato di sottoscrivere Decreti Legge che incidevano sulle libertà costituzionalmente garantite) sottolineano che la situazione di emergenza esistente, la necessità di provvedere rapidamente ad un pericolo protrattosi nel tempo ed il contenimento delle misure adottate entro lo stretto necessario, non legittimano le accuse di incostituzionalità dei provvedimenti adottati.
Il Presidente della Corte Costituzionale Marta Cartabbia, in una recente intervista, è apparsa meno sicura che sul piano generale l’urgenza di provvedere possa legittimare l’adozione di misure amministrative lesive di libertà costituzionalmente garantite se destinate a valere oltre il tempo strettamente necessario. Quello della Cartabbia è apparso più come monito per il futuro che come una indicazione della linea che la Corte Costituzionale intenderebbe seguire in proposito: la Professoressa è al termine del suo mandato e certamente non potrà influire sulla decisione della Corte in proposito (ammesso che ce ne sarà una): tuttavia il suo è un parere autorevole che tenta di superare in nome del buon senso un problema che oggettivamente esiste. Nessuna norma infatti della Costituzione indica quali conseguenze possano derivare da una situazione di emergenza a proposito dei poteri degli organi costituzionali e del governo in particolare.
Quella effettuata nel 1946, quando l’Assemblea Costituente discusse ed approvò la Costituzione Repubblicana fu una scelta consapevole: l’Assemblea, ben cosciente di quanto era avvenuto nel secolo precedente, durante il Regno d’Italia, quando la programmazione dello stato d’assedio, motivata da situazioni di emergenza aveva portato al tentativo di instaurare un regime autoritario (1900, governo Pellaux) volle ridurre a decreto legge, da sottoporre immediatamente al Parlamento, lo strumento di intervento straordinario del Governo. Fu una scelta precisa, in polemica aperta con il passato ed in particolare con quella Legge n. 100 del 1925 che aveva consentito al governo fascista di governare per più di 20 anni a prescindere dal Parlamento e solo con atti amministrativi: si trova un eco di ciò negli scritti di Costantino Mortati, che nell’Assemblea Costituente svolse un ruolo di primo piano.
Nessuno ritenne allora che i decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri potessero costituire una valida alternativa al Decreto Legge: al massimo vi fu chi, come Carlo Esposito altro illustre giurista del tempo, ritenne che con il Decreto Legge si potesse anche derogare alla Costituzione, fermo restando la competenza della Corte Costituzionale ad una verifica in proposito, naturalmente se investita della questione.
I Decreti del Presidente del Consiglio emanati da Conte hanno reso evidente la falla ma al tempo stesso creato un precedente pericoloso a proposito degli strumenti giuridici per far fronte ad una situazione di conclamata urgenza ed è questo il loro aspetto più preoccupante. Il problema non è tanto se il Presidente del Consiglio abbia in questo caso abusato dei suoi poteri, questione sulla quale potrà pronunciarsi il Parlamento sul versante politico e la Corte Costituzionale su quello giuridico: ciò che è da sottolineare è lo strappo operato: c’è il pericolo che la scelta compiuta possa essere fatta valere per il futuro nel caso di provvedimenti amministrativi lesivi delle libertà costituzionalmente garantite dei cittadini. Per evitarle c’è una sola strada: una norma costituzionale che prenda in considerazione lo stato di emergenza e fissi i poteri degli organi costituzionali in proposito, e quelli del governo in particolare. E’ una norma necessaria, anzi essenziale, per evitare di doversi trovare in futuro ad esprimere un inutile rammarico per non averla adottata.
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