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I nodi da sciogliere su Silvia Romano

Riguardo alla vicenda della cooperante italiana liberata in questi giorni, Silvia Romano, molto ma non tutto è stato detto e si dirà ancora per qualche giorno. Poi tutto o quasi ricadrà nel dimenticatoio, nell’ombra in cui cadono fatti e persone nel ritmo incessante degli avvenimenti.

I nodi che si collegano a questa vicenda si presentano ingarbugliati e rivestono aspetti di rilievo che non si possono riassumere in poche parole e che analisti politici stanno vagliando cercando di scioglierli.
Qualsiasi tentativo di sovrapporsi a questo lavoro appare riduttivo, scorretto impreciso e strumentale.
Verrebbe da dire, suggerire, “a ciascuno il suo”, approcciandosi anche da “giornalista con occhi di donna”. Uno sguardo non sprovveduto ma sicuramente di genere che penso debba essere più generoso di quelli che le sono stati fino ad oggi rivolti.

La protagonista di questa vicenda è una giovane donna di 20 anni che, come altri giovani o meno, credono alla  possibilità di partecipare alla creazione di una vita migliore per altri meno fortunati.
La cooperazione internazionale nasce infatti per sostenere lo sviluppo nei paesi più svantaggiati attraverso progetti mirati all’assistenza sanitaria, allo sviluppo del territorio, alla formazione ecc. A questo lavoro partecipano soggetti diversi di organizzazioni locali, non governative, associazioni.

Silvia Romano abbraccia la mamma

Per una giovane non c’è dubbio che un’esperienza in un’attività di volontariato internazionale in loco rappresenti un elemento di crescita personale da non rifiutare e che la Romano si sia recata in quel luogo con entusiasmo, sottovalutandone i risvolti negativi o pericolosi. Alla capacità di adattamento alle condizioni di vita del posto, che ad alcuni sembrano insostenibili, concorrono appunto le capacità fisiche e mentali di chi le applica e le vive.
Le varie onlus che si avvalgono di questi apporti, richiedono alcuni requisiti non difficili da possedere. La conoscenza di una lingua utile, la maggiore età, una formazione sul progetto e sui metodi della sua realizzazione.
Niente di opinabile o incomprensibile nell’accettare un impegno in questo ambito. In caso contrario dovremmo negare il bisogno di una politica di cooperazione che investe la nostra politica internazionale, il nostro Ministero degli Esteri nonché l’unità tecnica predisposta.

Appoggiata da una delle tante Onlus che opera nei territori altri (quelli di cui diciamo ‘aiutiamoli a casa loro’ per intendersi), si sostiene che la Romano sia stata mandata allo sbaraglio. La realtà di queste piccole “aziende” di cooperanti, spesso è inadeguata nel suo complesso, sempre alla ricerca di sovvenzioni che permettano loro di portare avanti progetti che sono stati comunque approvati precedentemente da commissioni statali preposte alla selezione. Fondi che spesso sono mal calcolati o ridotti per garantirsi l’appalto e che poi si dimostrano insufficienti. E’ evidente che in questa realtà, contare anche sul volontariato di giovani che non vedono l’ora di mettersi alla prova pressoché gratuitamente non può che essere ben accetto. Il viaggio e il mantenimento in loco della Romano, sicuramente faceva parte di questa metodologia.

D’altra parte, l’esperienza più o meno consistente, gratificante e professionale che si acquisisce in questi soggiorni dipende anche dall’individuo e da come la elabora.
Assodato dunque che questa ragazza si sia trovata in queste circostanze, non possiamo negare che comunque lo spirito che l’ha mossa è del tutto rispettabile, al contrario di alcune nostre connazionali che hanno sposato o seguito combattenti musulmani, esponendo i loro stessi figli e il governo del loro paese d’origine.

Eppure il tiro al piattello su Silvia Romano, è lo sport di questi giorni: abbigliamento, forma fisica, segreti ecc., domande a cui si risponde arbitrariamente con illazioni di ogni genere.
L’immaginario collettivo, le false notizie, il giornalismo ad effetto, l’uso irresponsabile e inappropriato dei social, hanno fatto il resto. Ed ecco che Silvia Romano è diventata il pungiball dove ognuno scatena la propria fantasia, di chi avendo paura del male, lo esorcizza immaginandolo sugli altri.

Ciò che è stato fantasticato in questo lungo periodo di detenzione è sicuramente uno scenario terribile e solo il fatto che ne sia uscita viva e apparentemente in buona salute, la conversione rivendicata come scelta libera e un’apparente condiscendenza vero i rapitori, hanno prodotto una delusione cocente per chi si aspettava di inzuppare la propria morbosità in scenari di cupa violenza.

Non a caso la prima cosa che è circolata sui social è stata la presunta gravidanza della ragazza.
Perché nell’immaginario, troppo spesso nel reale, l’ostaggio donna non può che rappresentare un corpo da violentare. E le violenze terribili subite da tanti altri rapiti, alcuni mai ritornati, ma uomini, non danno il gusto della sopraffazione di un corpo di donna violentato dal maschio, a maggiore ragione se è nero, brutto, puzzolente ed armato.

Perché la donna è prima di tutto corpo ed è inevitabile, accettabile, che possa-debba essere usato-abusato. Una gravidanza avrebbe suscitato tanta pietà, per lei e per il bambino, considerandoli due poveri disgraziati da escludere ma compatire. Perché questi terribili pensieri non si rivolgono solo a Silvia ma a tutte le donne, comprese quelle violentate nel nostro Paese e i loro figli.

Siamo dunque una società egoista o solidale? Vogliamo costruire un futuro di sostenibilità o di esclusione? Pensiamo di fare ricorso alle tecnologie per avanzare in favore dell’umanità o per osservare nuovi e violenti cambiamenti di potere?
Certo è che una vicenda come questo sequestro, non è stata raccontata con generosità e molte delle risposte sono state fornite dalle immagini che tantissimi reporter e giornalisti, a prova di coronavirus, hanno scattato al suo ritorno. E l’immediato, senza veli e filtri, dice molto di più delle verità manipolate.

Sono stati gli occhi di Silvia a parlare. Non quella palandrana che sembrava più un sacco condominiale che un abito, a farci cogliere, la prova del tempo e della qualità della segregazione. Non limpidi, rossi forse di pianto, smarriti, increduli, ma anche sfuggenti ai flash, ai richiami. Per qualcuno hanno parlato le mani a protezione della pancia gravida. Ma c’era vento, e la palandrana volava e si spostava ed è normale per una donna, trattenere i propri abiti che le sfuggono. No, doveva per forza essere una pancia! La stessa che chissà quanti “corpaccioni” avrà dovuto sostenere su di sé, accettando una sessualità non voluta, ma poi chissà, magari si è pure innamorata. Perché il corpo di una donna è debole e una donna resta “femmina” e implicitamente “puttana”.
Ma non è incita e non racconta violenze, che delusione!

La conversione poi dove la si mette? Può darsi che sia stata imposta ma, sinceramente, davanti alla perdita della vita si può inneggiare anche al diavolo. Può darsi che ci sia arrivata per scelta, e niente da obiettare, fatti suoi. Che abbia sposato un islamico e si sia adeguata ma lo sposo manca.

Infine a chi va il merito della trattativa, pur con i limiti del tempo che ha richiesto?
Il balletto per intestarselo non è mancato. Ma utilizzare mediaticamente la bruna Silvia Romano, forse per fare dimenticare le molte questioni aperte, come se fosse “la bionda della birra”, è solo una conferma dell’involuzione del costume politico.
D’altra parte si sa, quello che mette tutti d’accordo è il corpo della donna, non il cuore o la mente.

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Marta Ajò

Marta Ajò, scrittrice, giornalista, si è occupata di politica nazionale e internazionale, società e cultura. Proprietaria, fondatrice e direttrice del Portale www.donneierioggiedomani.it (2005/2019). Direttrice responsabile della collana editoriale Donne Ieri Oggi e Domani-KKIEN Publisghing International. Ha vinto diversi premi. Ha scritto: "Viaggio in terza classe", Nilde Iotti, in "Le italiane", "Un tè al cimitero", "Il trasloco", "La donna nel socialismo Italiano tra cronaca e storia 1892-1978”.

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