Son passati quarantacinque giorni ed a metà dei fatidici cento che, nella tradizione, danno il segnale dell’indirizzo del quadriennio presidenziale, Joe Biden ha messo a segno il super provvedimento di 1900 miliardi a supporto del rilancio dell’economia ed a sostegno dei lavoratori messi in crisi dalla pandemia; ha iniziato, in risposta alla “occupazione” dell’ex presidente Trump del partito repubblicano, una decisa azione per allargare la platea elettorale ed un alleggerimento delle restrizioni anti migratorie del suo predecessore. La politica estera non sembra “rivoluzionata” anche se il ritorno nel sistema multilaterale, a cominciare dalla Conferenza sul Clima e da una differente accentuazione della difesa dei diritti umani e delle libertà politiche e l’accentuato rispetto delle convinzioni religiose hanno apportato certamente un sollievo al cupo pessimismo indotto dall’oltranzismo “imperialista” trumpiano.
Cina, Russia e Medio Oriente restano al centro dell’attenzione di Washington, mentre, pur con migliore linguaggio, i rapporti con l’Europa e nella NATO sono oggetto di un imponente lavoro delle diplomazie.
Nell’articolo di oggi mi soffermerò soprattutto sulle odierne attività diplomatiche e militari statunitensi in Asia e particolarmente nei confronti della Cina, Taiwan, Corea del Sud e del Nord, Giappone ed Afghanistan.
A Washington non sfugge certamente che i moderni conflitti si combattono anche rispondendo ai cyber-attacchi su larga scala contro agenzie e società governative americane, scoperte già alla fine dello scorso anno. L’amministrazione Biden ha individuato dopo la Russia un altro potenziale grande avversario Usa: la Cina. E le risposte che Washington fornirà su questo duplice fronte, ha riferito l’8 marzo il New York Times, definiranno meglio la strategia che la nuova amministrazione statunitense intende adottare in questo conflitto informatico che, secondo le autorità, vede Mosca e Pechino impegnate nel tentativo di sfruttare regolarmente le vulnerabilità del governo e delle aziende americane per spiare, rubare informazioni e potenzialmente danneggiare componenti critiche delle infrastrutture della nazione. La prima iniziativa importante di Biden è prevista nelle prossime tre settimane, secondo fonti citate dal quotidiano, con una serie di azioni clandestine contro reti russe, che saranno ben evidenti al presidente Vladimir Putin ed ai suoi servizi militari e di intelligence, ma non al resto del mondo. Queste azioni saranno combinate con una sorta di sanzioni economiche e con un ordine esecutivo di Biden per accelerare il potenziamento delle reti del governo federale dopo l’hackeraggio russo, passato inosservato per mesi fino a quando fu scoperto da una società di sicurezza informatica privata. La questione ha assunto un’ulteriore urgenza alla Casa Bianca, al Pentagono e presso le agenzie di intelligence negli ultimi giorni dopo l’esposizione pubblica di una grave violazione nei sistemi di posta elettronica Microsoft utilizzati da piccole imprese, governi locali e, secondo alcune fonte, anche da importanti appaltatori militari.
Microsoft ha identificato gli intrusi come un gruppo cinese sponsorizzato dallo Stato e si è affrettata a rilasciare una patch per consentire agli utenti del suo software di eliminare la vulnerabilità del sistema. Ma ciò ha innescato una “competizione” tra i responsabili delle patch dei sistemi (quella porzione di software che aggiornano o migliorano i programmi eliminando bug ed aumentando la sicurezza) ma, secondo Microsoft, nonostante i miglioramenti effettuati, una serie di nuovi attacchi sono stati compiuti fino a questa settimana da molti altri gruppi di hacker cinesi.
I funzionari americani cercano di capire quale sia stata la reale portata dell’attacco cinese e hanno acquisito consapevolezza del fatto che sia stato più grave e ramificato di quanto si ritenesse in un primo momento. Secondo le stime iniziali, sarebbero stati coinvolti circa 30.000 sistemi, principalmente quelli gestiti da aziende o enti governativi che utilizzano software Microsoft e gestiscono i propri sistemi di posta elettronica internamente. Il governo degli Stati Uniti non ha reso pubblica alcuna indicazione formale sui responsabili dell’hacking, ma alla Casa Bianca e presso la struttura di Microsoft a Redmond, nello stato di Washington, il timore è che l’attività di spionaggio e il furto d’informazioni possano essere stati il preludio ad azioni molto più distruttive, come la modifica dei dati o la loro cancellazione.
La Casa Bianca ha sottolineato la gravità della situazione in un comunicato emesso dal Consiglio di sicurezza nazionale. “La Casa Bianca ha intrapreso una risposta complessiva del governo per valutare e affrontare l’impatto” dell’intrusione in Microsoft, è scritto, precisando che tale risposta è guidata da Anne Neuberger, un ex alto funzionario dell’Agenzia per la sicurezza nazionale e vice consigliere per la sicurezza nazionale per le tecnologie informatiche. “Questa è una minaccia attiva ancora in via di sviluppo, e invitiamo gli operatori di rete a prenderla molto sul serio”, è l’avvertimento del Consiglio. Quanto alle iniziative di rappresaglia, il consigliere per la Sicurezza nazionale di Biden, Jiack Sullivan, ha spiegato che un mix di sanzioni pubbliche e di azioni private rappresenta la combinazione più probabile. “In realtà credo che una serie di misure chiare ai russi, ma non visibili al resto del mondo, sia in realtà la più efficace in termini di chiarimento di ciò che gli Stati Uniti ritengono rientri nei limiti o sia fuori dai limiti, e su cosa siamo pronti a fare in risposta agli attacchi”, ha aggiunto.
In questo ambito, l’amministrazione Usa si attiene anche a quanto disposto dall’ordine esecutivo firmato da Biden il giorno del suo insediamento alla Casa Bianca che, tra le altre cose, mantiene in vigore un documento segreto firmato dall’ex presidente Donald Trump nell’agosto 2018, e conferisce al Cyber Command degli Stati Uniti autorità più ampie di quelle che aveva durante l’amministrazione Obama per condurre quotidianamente azioni nel cyberspazio, spesso senza esplicita autorizzazione presidenziale. Secondo il nuovo ordine, in particolare, il Cyber Command potrà disporre operazioni di dimensioni e portata significative, consentendo al Consiglio di Sicurezza Nazionale di modulare tempi e operazioni. È probabile che l’imminente operazione contro la Russia e qualsiasi potenziale risposta alla Cina rientrino in questa categoria.
La politica americana non si modificherà in Asia: la Cina resta il pericolo maggiore alla leadership mondiale degli USA, che -dopo essere stata messa a nudo dalla prepotenza dell’amministrazione Trump che l’ha isolata mostrando il volto non simpatico del potere, non intaccato ma solitario e scontroso al punto di mettere in discussione alcuni importanti “miti” che hanno accompagnato la simpatia e la convinzione di alleanze cementate da due guerre mondiali e dallo scontro ideologico del XX secolo- cerca oggi recuperare rapporti non facili da ricostruire nella loro integralità, intaccata anche dal machiavellismo della politica estera guidata da Obama e Hillary Clinton.
Per Pechino il principio della “Unica Cina è universalmente riconosciuto” ed è la “linea rossa” che non deve essere oltrepassata nelle relazioni tra Pechino e Washington sulla delicata questione di Taiwan; questione che coinvolge direttamente Washington nella testimonianza “attiva” dei suoi rapporti ispirati a lealtà nei confronti degli alleati.
Il governo cinese sa bene quale sia il valore simbolico di Taiwan ed il ministro degli Esteri Wang Yi ha lanciato un monito duro e diretto agli Usa, in merito ai suoi crescenti rapporti con Taipei, notando che l’isola “è parte inalienabile del territorio cinese” e le due sponde dello Stretto di Taiwan “devono e saranno sicuramente riunificate”. Questa, ha detto Wang nella consueta conferenza stampa durante i lavori annuali del parlamento, “è la tendenza della Storia e la volontà collettiva dell’intera nazione cinese. Non sarà e non potrà essere cambiata”. Il ministro, però, ha ribadito la disponibilità ad avere un “dialogo aperto” con Washington fissando diversi paletti. “Essendo due Paesi con sistemi sociali diversi, Cina e Usa hanno naturalmente differenze e disaccordi. Ciò che conta di più è gestirli in modo efficace attraverso una comunicazione schietta per prevenire errori di calcolo strategici e per evitare conflitti e confronti”. Wang ha definito i requisiti di base per la “giusta strada di crescita sana e costante” delle relazioni: dopo gli scontri con l’amministrazione Trump, la speranza è che quella di Joe Biden cambi passo. Innanzitutto, con la “non interferenza negli affari interni” di altri Paesi, un dialogo alla pari e il reciproco rispetto. Pechino “non accetterà mai una stigmatizzazione infondata e non tollererà l’aggressione ai suoi interessi su Hong Kong, Taiwan e Xinjiang”. Gli Stati Uniti devono “riconoscere il fatto che, per un bel po’ di tempo, hanno interferito intenzionalmente negli affari interni di altri Paesi in nome della democrazia e dei diritti umani”, ha attaccato ancora Wang, Il popolo cinese è “nella posizione migliore per dire se la Cina sta facendo un buon lavoro. Il popolo cinese può decidere meglio qual è la cosa giusta da fare”. L’elenco della cooperazione con gli Usa “è proprio davanti a noi e include la lotta al Covid-19, la ripresa economica e i cambiamenti climatici. Ci auguriamo che gli Usa si muovano nella stessa direzione, togliendo le irragionevoli restrizioni il prima possibile, senza creare nuovi ostacoli”. Sulle accuse di genocidio contro la minoranza uigura di fede musulmana nella regione di nordovest dello Xinjiang, Wang le ha definite “ridicolmente assurde” e “una menzogna completa”. Mentre sull’ulteriore stretta a danno di Hong Kong, il miglioramento del sistema elettorale della città (sic!) punta “a rafforzare il modello “un Paese, due sistemi” e a mantenere la stabilità”. Non è possibile, in altri termini, essere “una parte della Cina e non essere patriottici verso la madrepatria”. Per questo, il consolidamento “del principio dei “patrioti che amministrano Hong Kong” è costituzionale, legittimo, corretto e ragionevole”. Cina e Ue, invece, non sono rivali sistemici e Pechino sostiene l’integrazione europea: le due parti “possono raggiungere grandi risultati”. Abile dichiarazione ma non molto scaltra, perché rende evidente non soltanto agli americani, ma anche agli europei che la rottura degli accordi su Hong Kong sono chiaramente espressione dell’autoritarismo che accompagna l’espansionismo economico, politico e militare della Cina popolare; i dati economici cinesi confrontati a quelli occidentali testimoniano la differenza tra la crisi in atto e la buona salute cinese. Il surplus commerciale di gennaio-febbraio 2021 si è attestato a 103,25 miliardi di dollari, rimbalzando dai 7,09 miliardi di deficit del primo bimestre 2020, colpito dalla crisi del Covid-19, battendo il consensus degli analisti di 60 miliardi. L’export è salito del 60,6% con l’elettronica legata allo smart working (+54,1%) e i prodotti tessile-medicali (+50,2%) di contrasto alla pandemia del nuovo coronavirus, come le mascherine. L’import è salito del 22,2%.
I cinesi sanno bene qual è la posta in gioco ed intendono accelerare la realizzazione di un piano una volta considerato un sogno impossibile a realizzarsi: essere davvero, non soltanto essere considerata, una potenza globale, obbligatoriamente concorrente degli Stati Uniti.
Il ministro degli Esteri cinese, Wang Yi, ha avvertito, sempre durante la sua conferenza stampa del 7 marzo, l’amministrazione Biden che considera necessario l’annullamento della “pratica pericolosa” dell’ex presidente Donald Trump di mostrare sostegno a Taiwan, la democrazia insulare che Pechino rivendica come proprio territorio. La rivendicazione cinese su Taiwan è una “linea rossa insormontabile”, ha precisato Wang Yi. Gli Stati Uniti non hanno relazioni ufficiali con il governo democraticamente eletto di Taiwan, ma ampi legami informali. Trump, che ha lasciato l’incarico a gennaio, ha infastidito Pechino inviando funzionari di Gabinetto in visita in segno di sostegno. “Il governo cinese non ha spazio per compromessi o concessioni sulla questione di Taiwan”, è il messaggio del ministro. “Esortiamo la nuova amministrazione degli Stati Uniti a comprendere appieno l’alta sensibilità della questione di Taiwan” e “cambiare completamente le pratiche pericolose della precedente amministrazione di “oltrepassare il limite” e “giocare con il fuoco”.
Wang non ha fornito indicazioni su come Pechino potrebbe reagire se la politica degli Stati Uniti non dovesse cambiare, ma il Partito comunista al governo ha minacciato di invadere Taiwan se dichiarasse l’indipendenza formale o ritardasse i colloqui per l’unione con la “madrepatria”. Biden afferma di volere una relazione più civile con Pechino, ma non ha mostrato alcun segno di ammorbidire le misure di Trump su commercio, tecnologia e diritti umani. I sondaggi mostrano che gli atteggiamenti del pubblico americano stanno diventando più negativi nei confronti della Cina, che è vista come un concorrente economico e strategico.
Così il governo cinese moltiplica i messaggi: “Gli Stati Uniti farebbero bene a realizzare il prima possibile (la necessità di un cambio di passo, ndr), altrimenti il mondo continuerà a soffrire di instabilità”, ha aggiunto il ministro. Le divergenze, ha poi detto Wang, “devono essere gestite con attenzione” e le due parti dovrebbero “puntare a una sana competizione, non a scambi di accuse a somma zero”. Parole che giungono dopo che il nuovo presidente Usa Joe Biden ha sottolineato come “la crescente rivalità con la Cina” sia la piu’ grave minaccia che la sua amministrazione è chiamata a fronteggiare. Si tratta del medesimo approccio seguito dal suo predecessore, Donald Trump, sotto la cui presidenza i rapporti Usa-Cina hanno raggiunto i minimi storici.
IN RISPOSTA ALLA CINA BIDEN HA ATTIVATO UN NUOVO INTERESSE ED IMPEGNO NEI CONFRONTI DEI DUE MAGGIORI ALLEATI, IL GIAPPONE E LA COREA DEL SUD, ED UN CAMBIO DI PROSPETTIVA VERSO LA COREA DEL NORD
Il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, intende ospitare il primo ministro del Giappone Yoshihide Suga alla Casa Bianca già nel mese di aprile. Lo ha riferito il sito d’informazione “Axios”, il 7 marzo 2021, specificando che Suga sarà il primo leader straniero ad incontrare Biden di persona: dal suo insediamento alla Casa Bianca, lo scorso 20 gennaio, Biden si è infatti confrontato con capi di Stato e di governo solamente in video conferenza, a causa della crisi pandemica globale. L’incontro previsto il prossimo aprile- se l’imminente quarta ondata globale di coronavirus non costringerà le diplomazie a rinviare l’incontro alla tarda primavera – alimenterà l’enfasi dell’alleanza tra Stati Uniti e Giappone, cruciale per Washington nel contesto del deciso riorientamento del contenimento strategico della Cina. Intanto sono in corso i preparativi per la prima visita ufficiale a Tokyo dei segretari di Stato e della Difesa Usa, Antony Blinken e Lloyd Austin, prevista per la metà del mese di marzo. I due segretari saranno i primi funzionari dell’amministrazione del presidente Usa Joe Biden a visitare il Giappone, dove si terrà la prima ministeriale nel formato “2+2” dall’insediamento del nuovo presidente alla Casa Bianca, lo scorso 20 gennaio. Blinken e Austin hanno in programma con le loro controparti giapponesi, Toshimitsu Motegi e Nobuo Kishi, anche colloqui separati.
Indiscrezioni riportate dalla stampa statunitense hanno confermato che diplomazie e stati maggiori della Difesa tengono colloqui preparatori in videoconferenza, discutendo questioni di comune interesse relative all’ambiente di sicurezza nell’Indo-Pacifico e alla cooperazione nel campo della difesa. In aggiunta, secondo anticipazioni fornite dalla stampa giapponese, la ministeriale in programma questo mese sarà probabilmente incentrata sulla crescente potenza militare della Cina (la cui flotta militare ha oramai superato per numero di navi e capacità di fuoco quella statunitense); sulla necessità di rafforzare l’alleanza tra Stati Uniti e Giappone a fini di deterrenza nella regione. Altri argomenti di analisi congiunta sono le incursioni navali cinesi al largo dell’atollo conteso delle Senkaku; la militarizzazione del Mar Cinese Meridionale da parte di Pechino; lo stato dei diritti umani a Hong Kong e nella regione cinese dello Xinjiang.
Il think tank Csis, Center for Strategic and International Studies, in collaborazione con l’Istituto giapponese di studi internazionali, ha ospitato il 3 marzo 2021 la 27ma edizione dell’Us-Japan Security Seminar. Il contenuto dei lavori è stato reso pubblico da una nota del Dipartimento di Stato Usa; questo non è un abituale ed è servito a rafforzare le dichiarazioni dell’assistente segretario di Stato per gli Affari dell’Asia Orientale e del Pacifico, Sung Kim. Il funzionario ha ricordato che lo scorso anno Stati Uniti e Giappone hanno celebrato il 60mo anniversario della firma del Trattato di cooperazione e difesa reciproca: “Nell’arco di sei decenni, l’alleanza tra Giappone e Stati Uniti è stata la chiave di volta della pace, della sicurezza e della prosperità nell’Indo-Pacifico e nel mondo”, ha dichiarato il segretario. “Quando il presidente Joe Biden ha delineato la sua visione del ruolo dell’America nel Mondo, durante il suo discorso al dipartimento di Stato dello scorso 4 febbraio, il ruolo giocato in tale contesto dall’alleanza tra Stati Uniti e Giappone non poteva essere illustrato in modo piu’ chiaro”, ha aggiunto Sung. “La diplomazia è tornata al centro della nostra politica estera. Rafforzeremo le nostre alleanze e il nostro coinvolgimento nelle dinamiche globali, non per far fronte alle sfide di ieri, ma a quelle di oggi e di domani”.
Tra i valori condivisi dai due Paesi alleati, Sung ha citato “la difesa delle libertà, il sostegno all’opportunità e ai diritti universali, il rispetto dello stato di diritto e la dignità di ogni individuo”. Il funzionario ha anche ricordato la dimensione militare concreta dell’alleanza difensiva tra i due Paesi: il Giappone “ospita approssimativamente 55mila militari statunitensi, il piu’ grande continente delle forze Usa al di fuori degli Stati Uniti. Il quartier generale della Settima flotta è a Yokosuka, dove è di stanza la portaerei Uss Ronald Reagan, l’unica portaerei della Marina in spiegamento avanzato”. Nel corso del suo intervento, Sung ha inoltre ribadito il sostegno di Washington alle rivendicazioni di Tokyo sulle isole Senkaku, ribadendo che quell’atollo del Mar Cinese Orientale rientra a pieno titolo nell’ambito del trattato di mutua difesa in vigore tra i due Paesi.
Le Forze armate di Stati Uniti e Corea del Sud hanno intrapreso l’8 marzo, una annuale esercitazione informatica simulata dei centri di comando (Ccpt). Lo ha annunciato lo stato maggiore congiunto delle Forze armate sudcoreane. L’esercitazione, che si protrarrà per dieci giorni, si svolge in formato ridotto, col coinvolgimento di un “livello minimo di truppe” rispetto agli scorsi anni e nessuna manovra sul campo. Le Forze armate dei due Paesi hanno discusso l’entità e le modalità dell’esercitazione sino alla scorsa settimana, come confermato nei giorni scorsi dal portavoce del ministero della Difesa sudcoreano, Boo Seung-chan. “La Corea del Sud e gli Usa hanno discusso come condurre le esercitazioni tenuto conto della Covid-19 e di altre circostanze”, aveva dichiarato il funzionario, riferendosi allo stallo dei negoziati sulla denuclearizzazione con la Corea del Nord, e alla revisione delle politiche nei confronti di Pyongyang intrapresa dall’amministrazione del presidente Joe Biden.
La notizia, che in qualche misura riguarda anche i paesi membri della NATO, è che i governi degli Stati Uniti e della Corea del Sud hanno raggiunto un accordo di principio in merito alla condivisione dei costi di stazionamento delle forze Usa nella Penisola coreana, un nodo che pesava ormai da anni sulle relazioni bilaterali. Lo ha annunciato il governo della Corea del Sud, a margine della visita a Washington del capo negoziatore per i colloqui sulla condivisione dei costi di stazionamento delle forze Usa nella Penisola Coreana, Jeong Eun-bo. L’accordo, secondo la stampa sud coreana, prevede un aumento del contributo finanziario della Corea del Sud; il ministero degli Esteri sudcoreano ha riferito che ulteriori dettagli verranno forniti in accordo con l’iter procedurale di adozione dell’accordo. Sino ad oggi Seul si era detta disponibile ad aumentare il proprio contributo ai costi di stazionamento delle truppe Usa del 13 per cento rispetto al livello del 2019, a 920,7 milioni di dollari. Jeong aveva dichiarato lo scorso 4 marzo che Seul e Washington avrebbero potuto raggiungere una intesa di massima entro lo scorso fine settimana. Jeong ha incontrato il 5 marzo la sua nuova controparte statunitense, Donna Welton: si e’ trattato del primo faccia a faccia tra i due funzionari dall’insediamento alla Casa Bianca del presidente Joe Biden, lo scorso 20 gennaio.
Il diplomatico sud coreano Jeong, lo ha riferito il ministero degli esteri di Seul, aveva sollecitato la controparte statunitense, Donna Welton, durante il primo incontro tra i due funzionari dall’insediamento del presidente Joe Biden alla Casa Bianca, lo scorso 20 febbraio, ad accelerare gli sforzi tesi a giungere a un’intesa dopo oltre due anni di trattative infruttuose. L’incontro è avvenuto in videoconferenza. Washington e Seul discutono da anni la ridefinizione del contributo di Seul ai costi di stazionamento del contingente Usa in Corea, che conta 28.500 militari. “Le due parti hanno avuto discussioni nello spirito della loro alleanza, per far fronte alle divergenze esistenti e lavorare ad un accordo reciprocamente accettabile”, sostiene la nota diffusa dal ministero degli Esteri sudcoreano. “Le due parti hanno anche concordato di lavorare assieme per contribuire a rafforzare l’alleanza tra Corea del Sud e Stati Uniti, come fulcro della pace e della prosperità nella Penisola Coreana e nell’Asia Nord-Orientale”.
Il governo della Corea del Sud preme sulla nuova amministrazione statunitense perché riconosca la validità dell’accordo sottoscritto al termine del summit di Singapore del 2018 tra il presidente uscente, Donald Trump, e il leader nordcoreano Kim Jong-un. Lo ha scritto il quotidiano sudcoreano “JoongAng Ilbo”, secondo cui Seul spera di poter preparare il terreno per un riavvio del dialogo sulla denuclearizzazione tra Washington e Pyongyang, nonostante l’uscita di Trump dalla Casa Bianca. Secondo il quotidiano, che cita fonti governative sudcoreane anonime, “un messaggio è stato inviato all’amministrazione Biden, col suggerimento di riprendere i colloqui con la Corea del Nord tornando allo spirito di Singapore”. La dichiarazione congiunta firmata da Trump e Kim a Singapore, nel giugno 2018, impegnava la Corea del Nord a lavorare per la denuclearizzazione completa della Penisola Coreana, in cambio della successiva normalizzazione delle relazioni con gli Stati Uniti. I progressi sul fronte negoziale si sono interrotti però dopo il successivo summit di Hanoi, nel febbraio 2019. Diversi esperti sudcoreani ritengono che l’avvento della nuova amministrazione presidenziale può aprire una finestra di opportunità per tornare allo spirito della dichiarazione di Singapore; Seul auspica che Biden possa far tesoro delle lezioni degli ultimi anni, per definire una nuova e realistica “road map diplomatica” in grado di rilanciare il dialogo.
L’amministrazione USA intende invece procedere passo passo. Da una parte solidificare il rapporto di alleanza militare e concertazione diplomatica con Seul, soprattutto in chiave anti cinese, dall’altra mantenere una pressione costante sulla Corea del Nord, come già annunciato lo scorso gennaio dal segretario al Dipartimento di Stato, Blinken. Il Segretario annunciò che il presidente Joe Biden intende rivedere completamente le politiche e l’approccio adottato dal presidente Usa uscente, Donald Trump, nei confronti della Corea del Nord.
Secondo Blinken, già nel corso della sua prima audizione al Senato per la conferma della sua nomina a segretario, il problema rappresentato dal programma nucleare nordcoreano “è peggiorato” durante i quattro anni appena trascorsi: “Penso sia necessario rivedere, e intendiamo rivedere per intero l’approccio e la politica nei confronti della Corea del Nord, perché si tratta di un problema che ha segnato amministrazione dopo amministrazione”, ha dichiarato Blinken. Il segretario ha risposto così all’ipotesi di sostenere un “accordo progressivo” per la revoca di alcune sanzioni a carico di Pyongyang in cambio di un congelamento verificabile del programma di armamenti nordcoreano. Il funzionario ha dichiarato che l’amministrazione presidenziale intende “studiare le opzioni a nostra disposizione, e quale possa essere efficace in termini di accresciuta pressione sulla Corea del Nord affinché sieda al tavolo dei negoziati, così come in termini di eventuali altre iniziative diplomatiche eventualmente possibili”. Blinken ha evidenziato che tale processo include i principali alleati regionali degli Stati Uniti, a cominciare da Corea del Sud e Giappone.
Il portavoce del Dipartimento di Stato Usa, Ned Price, ha comunque sminuito le preoccupazioni espresse da alcuni analisti e giornalisti, in merito alla decisione dell’amministrazione del presidente Joe Biden di non tentare contatti con la Corea del Nord. Price ha affermato che l’amministrazione in carica non si preoccupa che l’assenza di contatti possa innescare eventuali provocazioni da parte di Pyongyang: “Saremmo più preoccupati dalla prospettiva di non coordinare strettamente le nostre iniziative con i nostri partner – in questo caso specifico, ovviamente, la Repubblica di Corea e il Giappone”, ha dichiarato il portavoce. Secondo Prince, “il rischio di muoversi troppo rapidamente, si tratti della questione dell’Iran o della Corea del Nord, è superiore a quello di non muoverci in maniera coordinata coi nostri alleati e partner”. L’amministrazione del presidente Usa Joe Biden ha espresso l’intenzione di rivedere interamente la politica dell’ex inquilino della Casa Bianca, Donald Trump, nei confronti della Corea del Nord. Price ha dichiarato che il Dipartimento di Stato sta rivedendo le proprie politiche concentrandosi sulle priorità di dare adeguato spazio alle istanze degli alleati, e “migliorare le vite delle persone della Corea del Nord e del Sud”, assieme all’impegno a conseguire la denuclearizzazione di Pyongyang. Il portavoce non ha però fornito alcun dettaglio in merito ai potenziali nuovi indirizzi della politica Usa nei confronti della Penisola Coreana.
Anthony Blinken, nel corso di una intervista televisiva concessa all’emittente “Nbc”, ha dichiarato che l’amministrazione del presidente Joe Biden si riserva di imporre nuove sanzioni a Pyongyang in coordinamento con gli alleati degli Stati Uniti, ma è anche pronta a concedere non meglio precisati “incentivi diplomatici” per spingere il Nord a compiere progressi verso la denuclearizzazione. Alla domanda se sia tempo di prendere atto della situazione sul campo, e riconoscere alla Corea del Nord lo status di potenza nucleare, Blinken ha dichiarato che “quello che ci troviamo a gestire è un problema molto grave, che è peggiorato nel tempo. E sono il primo a riconoscere che il problema è peggiorato attraverso piu’ amministrazioni”. Blinken ha spiegato che “la prima cosa che il presidente ci ha chiesto di fare è di rivedere la politica, per assicurarci di utilizzare gli strumenti piu’ efficaci per far avanzare la denuclearizzazione”. Il segretario ha evitato di smentire o confermare la possibilità di un futuro incontro tra Biden e il leader nordcoreano Kim Jong-un. Blinken ha anche riferito che la sua prima visita estera sarà “probabilmente in Europa o in Asia, dai nostri alleati e partner piu’ stretti”.
Negli USA si comincia a paventare il rischio connesso alle probabili offensive dei Talebani dopo il loro ritiro militare.
In una lettera inviata al presidente afghano, Ashraf Ghani, il segretario di Stato americano, Anthony Blinken, ha avvertito che secondo le informazioni in suo possesso i Talebani potrebbero lanciare velocemente delle offensive militari in Afghanistan una volta che le truppe Usa e Nato si saranno ritirate. Sembra una lettera scritta perché suocera intenda, non perché il governo afghano non sappia cosa sta per accadere, probabilmente con la complicità di alcuni suoi esponenti e di tanto conosciuti quanto poco graditi politici e militari pachistani. Problemi complessi che non vedono certamente assenti né i russi né i cinesi.
A gennaio, l’amministrazione Biden annunciò che avrebbe rivisto l’accordo di pace con i Talebani concluso durante la presidenza di Donald Trump. Secondo questa intesa, i 10 mila soldati Usa che sono ancora nel Paese dovrebbero ritirarsi entro il primo maggio in cambio di alcune garanzie da parte dei Talebani. La Casa Bianca rende adesso noto che intende assicurarsi che i Talebani rispettino gli impegni presi prima di lasciare il Paese. Washington chiede, in particolare, che i Talebani siano meno violenti e che non abbiano piu’ legami con i terroristi. Nella lettera di Blinken, che ha potuto visionare la Bbc, si chiede una riduzione della violenza nei prossimi 90 giorni. Nella missiva, Blinken auspica anche un ulteriore sforzo della comunità internazionale per raggiungere la pace nel Paese con un “cessate il fuoco ampio e permanente”.
In realtà la lettera sembra scritta più ai posteri che dovranno pronunciare l’ardua sentenza sulle cause, le ragioni profonde, il metodo seguito nel lungo conflitto afghano, piuttosto che seriamente mettere in discussione quanto già deciso prima da Trump e poi dallo stesso Biden: l’uscita prima che sia possibile dall’Afghanistan.
Vero è che Blinken preme per riavviare negoziati di pace, ma confermando la scadenza del 1 maggio per il ritiro delle truppe Usa non dimostra di avere possibilità negoziali.
Il Segretario di Stato ha proposto una serie di iniziative per riavviare i negoziati di pace tra il governo afgano e i talebani ma l'”impegno confermato al completo ritiro dei circa 2.500 soldati statunitensi” ha indebolito il presidente, nonostante Blinken abbia sottolineato nella citata lettera che Washington è impegnata in uno “sforzo diplomatico di alto livello” per arrivare ad un cessate il fuoco “completo e permanente” chiedendo alle Nazioni Unite di convocare i ministri degli Esteri e gli inviati di Russia, Cina, Pakistan, Iran, India e Stati Uniti per “discutere un approccio unificato per sostenere la pace in Afghanistan”.
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