Ieri Il Boston Globe ha scritto un articolo che ha per titolo “Oggi è la giornata più importante della carriera politica di David Cicilline”. L’agenzia Bloomberg aveva scritto nel gennaio del 2019: “La persona più importante del mondo delle tecnologie è allora David Cicilline?”. Insomma – a seguire nel dettaglio la stampa americana – si avrebbe dovuto avere qualche indizio su questa figura politica del Parlamento USA dal nome con evidente origine italiana. La rete – in pochi secondi – ci spiega tutto.
David Nicola Cicilline è nato il 15 luglio del 1961 a Providence nel Rhode Island, da una donna ebrea, Sabra Peskin, e da un avvocato italo-americano, John Francis (detto “Jack”) Cicilline, dichiaratamente cattolico. Quello che ci dice Wikipedia è che il padre negli anni ‘70 e ’80 difendeva esponenti mafiosi del territorio. E quel che ci dice ancora la sua biografia è che lui, David Nicola, è uno dei quattro parlamentari americani che hanno fatto apertamente coming out omosessuale sostenendo le cause dei diritti LGBT.
Frequenta Scienze Politiche alla Brown University insieme al figlio di John Kennedy. Prenderà poi alla Georgetown University un dottorato in legge che gli aprirà le porte del posto di “Public Defender Service” del Distretto di Colombia. Nel 1995 approda nelle file democratiche alla Rhode Island House of Representatives; nel 2003 è il 36° sindaco di Providence (al posto di John Lombardi); nel 2011 è in Parlamento al posto del figlio di Ted Kennedy, Patrick. Nel 2017 è co-presidente della Commissione parlamentare sulle comunicazioni; due anni dopo nel 2019 – sempre sotto Nancy Pelosi – ne diventa presidente.
In un anno accumula 1 milione e trecentomila documenti (questo ce lo dice Repubblica del 30/07) che argomenterebbero “una concentrazione di potere incompatibile con la democrazia” dei quattro giganti del web: Amazon, Google, Apple e Facebook. Nel suo ruolo ora di presidente del Sottocomitato Antitrust della Commissione Giustizia della Camera dei Rappresentanti USA ha avuto il potere e la forza di chiamare a rispondere di questo “sospetto” i quattro capi indiscussi dei colossi dell’economia digitale americana e planetaria Jeff Bezos (Amazon, patrimonio personale 180 miliardi), Tim Cook (successore di Steve Jobs in Apple), Sundar Pichai (ingegnere indiano poi laureato anche a Stanford, ad di Google) e il più giovane della compagnia, Marck Zuckerberg, 36 anni, ideatore di Facebook (con patrimonio personale stimato di 87 miliardi). Sempre Repubblica, con la corrispondenza da Londra di Francesco Guerrera, analizza i presunti tratti anticoncorrenziali di questo soprammondo dell’economia globale e racconta la reazione della Commissione Europea finora concentrata nel regolare i derivati aspetti fiscali, mentre l’azione aperta dal Parlamento USA investe adesso in modo generale e complessivo il nodo costituzionale per eccellenza della tradizione regolatoria americana attorno alla logica di trust.
Anna Lombardi su Repubblica dà conto della linea di difesa davanti alla Camera. Linea che esce dagli stretti profili giuridici per porre al sistema politico oggi la fedeltà al sistema americano di questi colossi, la fiducia dei cittadini-utenti-clienti nelle loro prestazioni, la diga alta e forte che nell’interesse dell’America e dell’Occidente questo gruppo di aziende rappresenta ora rispetto alla sfida che viene dalla Cina e in particolare che viene sulla trincea dell’evoluzione prossima ventura, quella del 5G. In relazione a cui gli Stati Uniti hanno un ritardo calcolato in almeno due o tre anni che significa nessun cedimento, nessun indebolimento di sistema e ogni sforzo di rallentamento internazionale per permettere appunto all’Occidente di entrare alla pari nella sfida del millennio. Argomento che, come si sa, ha avuto in Europa la Gran Bretagna sensibile, ma non sensibile la Francia.
E’ il primo che, parlando con documentata forza istituzionale ai grandi imprenditori, abbia fatto sintesi in modo così duro: “La concentrazione di potere e influenza delle vostre piattaforme è incompatibile con il nostro ideale di democrazia. Già eravate colossi dell’economia. Con la pandemia, emergerete più potenti di prima”.
Gli argomenti dei “quattro cavalieri” hanno tuttavia l’aria di avere una certa presa politica nell’America di oggi (malgrado i tuoni anche di Trump che, con il suo stile comunicativo, twitta: “Se il Congresso non regolerà Big Tech ci penserò io a colpi di ordini esecutivi”). Prima di tutto perché sono guidati da americani non sprovveduti, secondo perché la guerra contro il nemico invisibile ha omologato l’idea che in questo periodo la ragion di Stato conta più della ragione. E tuttavia l’evento oggi in prima pagina su Repubblica (mentre, curiosa differenza editoriale, il Corriere la racconta con il suo corrispondente dagli USA Massimo Gaggi, ma in taglio basso e in 14° pagina, facendo notare nel titolo “l’imbarazzo di Zuckerberg e la gaffe di Bezos”) contiene – grazie all’indefesso lavoro istruttorio dell’italo-americano Cicilline – un elemento di novità politica rilevante. Elemento che dà voce a una comunità pensante nello stesso sistema delle comunicazioni in Occidente circa i rischi della “digitalizzazione forzata” che proprio in questi giorni viene raccontata come una compensazione solo positiva della grande guerra a Coronavirus. Per esempio da noi, proprio di recente, sono aumentate le voci della comunità professionale dell’informazione che non arrivano a negare gli argomenti positivi della velocizzazione della trasformazione digitale, ma che mettono parimenti in guardia circa una sorta di ineludibilità senza discussioni portatrice di rischi per la libertà e la democrazia. Appunto gli argomenti che hanno mosso i dem alla Camera USA a costruire un confronto che ha echi nel mondo.
Due parole quindi su di noi.
In una recente rilevazione condotta tra operatori nel sistema dell’informazione e della comunicazione, parte di un libro ora concluso [1], ho percepito una tendenza in questa fase in cui con moderato pessimismo (si potrebbe così anche leggere al contrario) si guarda all’insufficienza di politiche pubbliche capaci di affrontare tutti gli aspetti di “digital divide” che sono visibili tra una grande sperimentazione forzata e una dinamica a regime delle opportunità per l’apprendimento, per il lavoro e per la vita dei processi digitali. La “piovra” liberticida non appare insomma come il pericolo dietro alla porta che si dovrà aprire una volta che la minaccia Covid-19 sarà definitivamente eclissata (non ora quindi, a “stato di emergenza” ulteriormente protratto).
Eppure in quello stesso mondo professionale si alzano voci che, non per luddismo ma per “patto culturale tra rete, cittadinanza e libertà”, riflettono sul carattere della “forzatura”, ovvero sull’ineludibilità di trasformazioni che portano con sé il rischio di fuoriuscire dalla “discutibilità”.
Lo fa, ad esempio, nella fase due del primo allentamento del lockdown Marco Bracconi, giornalista di Repubblica e già al supplemento culturale Robinson ora dedicato agli “speciali” di Milano, che immagina in una lettera al Virus stesso (“per dodici settimane sei stato dappertutto e da nessuna parte”, così comincia il suo piccolo e intenso libro), che riassume le inquietudini di ciò che considera una “mutazione avvenuta” [2].
Il trattamento narrativo stesso – lettera personale a Coronavirus – toglie aggressività nei confronti dell’epidemia (una storia della natura), compiange persino il titanico nomadismo del virus, ma lo vuole rendere complice della critica ad una scelta che dipende un po’ dal caso (la guerra contro l’invisibilità) e un po’ dai poteri (il restringimento oligarchico delle decisioni sull’evoluzione digitale). “Hai promosso la Rete – scrive Bracconi a Covid-19 – come avrebbe potuto fare il migliore degli influencer e intanto lei, aiutandoci a stare separati l’uno dall’altro, ti ha ridotto alla fame. Alla fine tu sei mezzo morto e i sacerdoti del digitale sono passati all’incasso”.
E’ proprio lo stile epistolare che permette all’autore il crescendo narrativo. Prima di arrivare al “caveat” politico e civile mette in sequenza tante cose di senso comune. I dubbi della società umanistica di un tempo che vuole (o voleva?) discutere prima di assegnare in bianco deleghe alla tecnologia: “Quando tutto è nuovo, tutto diventa possibile”; oppure:” Tu non sai nulla dell’altra infezione che ci stava flagellando da molto prima che arrivassi: la perdita della memoria”. Il libro di Bracconi infatti riguarda più il tempo 2 che la fase drammatica della crisi: “A un certo punto il lockdown è finito quando ancora non era finito. Archiviata la pratica paternalistica, abbiamo cominciato a essere ossessionati da un solo argomento: quando e come avremmo ricominciato a marciare”.
In questa cornice irrompono, nel suo racconto, tutte le inevitabilità in cui il sacrificio della privacy – oggi per lo più ammesso – assume il peso minore tra le conseguenze. Come nei libri gialli non si racconta la parte investigativa cosiddetta “criminale”, altrimenti nessuno leggerà più il libro. Che invece ha una forza civile che va sostenuta perché – “separati davanti al potere, uniti di fronte al desiderio” dice l’autore – noi magari non vediamo che il quadro politico italiano, preso da vecchie diatribe, non ha messo ancora sul tavolo nemmeno uno di quel milione e rotti di documenti che oggi in America hanno raggiunto l’apice della notizia.
[1] Stefano Rolando, Comunicazione pubblica, laboratorio pandemia, Edizioni Scientifiche (ora in stampa, in uscita a metà settembre 2020).
[2] Marco Bracconi, La mutazione, Bollati Boringhieri, luglio 2020
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