Il deserto dei tartari (D. Buzzati), desolata immagine della condizione umana tout court e di una disperata ricerca metafisica per dare senso alla vita .
La storia del “Deserto dei Tartari”di D. Buzzati è la storia di Giovanni Drogo, un giovane di grandi aspirazioni. Egli vedrà, però, sfumare tutti i suoi desideri rimanendo inconsapevolmente prigioniero della fortezza Bastiani dove arriva per la sua prima destinazione da ufficiale e dai cui non riuscirà ad andar via come stregato da una magica attrazione/repulsione. La sua vita sarà solo una sequenza sempre uguale e inutile di giorni. Il giovane tenente “partì una mattina di settembre dalla città…. Quel viaggio, atteso da anni, appare, però, subito come inevitabilmente carico di un triste presentimento di cose fatali, quasi fosse un viaggio verso il nulla e senza ritorno”.
Il romanzo del genere mitopoietico, per la sua sospensione cronotopica, diventa metafora di una condizione psichica. L’anonimia dei luoghi e l’indeterminatezza del tempo fanno si che esso funzioni come esemplificazione di una esperienza esistenziale e si trasformi in un elemento chiave per la definizione di una realtà mentale “ridotta” che annichilisce, paralizza emotivamente e condanna ad una vita in perenne attesa di un’epifania che possa contrastare il proprio vuoto esistenziale. Nella storia questa epifania è rappresentata dall’arrivo del leggendario popolo dei Tartari che si spera possa rompere la monotonia persistente di un’attesa infinita e dare senso ad un non senso, vita ad una non vita.
La fortezza rappresenta i confini entro cui si sta “al sicuro”; è un luogo dove si aspettano gloriose imprese ma, come una gabbia, condanna all’isolamento e alla solitudine. Entro le sue mura si resta in perenne agguato, in attesa di un nemico di cui non si sa nulla se non notizie vaghe e contrastanti. Essa si colloca a metà strada tra la città, luogo di incontri, di vita frenetica, di amori, di rinunce ma anche di conquiste e il deserto, luogo “vuoto” ed emblema di persistente aridità esistenziale che, paradossalmente, vede nel nemico un elemento salvifico dal sapore misterioso e attraente perché arriva da un lontano non ben identificato, da un mondo ignoto a garantire l’ora del riscatto. Giovanni Drogo è il protopico dell’uomo moderno, prigioniero di logiche meccaniche disumanizzanti che all’azione e alla scelta della bellezza degli “incontri” preferisce restare sulle difensive e attendere ma nell’attesa brucia tutte le sue opportunità di felicità e di cambiamento.
Annichilito dall’indecifrabilità del suo deserto esistenziale e da una condizione storica su cui non sa intervenire è una sorta di anti Sisifo. È come un grande masso sul ciglio di una via che nessuno scalfisce ma che resta fisso al suo posto incapace di ogni azione , di incamminarsi verso un progetto di vita che dia senso alla serie sempre uguale dei suoi giorni fino a quando “ad un certo punto, quasi istintivamente ci si volta indietro e si vede che un cancello è stato sprangato alle spalle nostre chiudendo la via del ritorno”. E così, alla fine di tutto, tragicamente realizza che l’attesa della grande occasione è stata vana, tutta la vita è trascorsa inutilmente e quello che resta è la morte come ultima prova finale ma, soprattutto, che per tutta la vita non ha fatto altro che fuggire solo da se stesso, da quell’IO che inevitabilmente incontrerà nell’atto finale della sua vita.
È possibile che l’autore, vissuto nell’era dei totalitarismi, abbia voluto metaforicamente parlare dell’uomo del suo tempo, prigioniero di meccanismi mentali, di costruzioni ideologiche che avevano trasformato il mondo in una fortezza disumanizzante e capace di rispondere solo al richiamo di leggi astratte che non facevano distinzione tra un militare ed un uomo, tra il valore di una parola d’ordine e quella di un amico e/o di un fratello come ci racconta l’episodio di Agustina, fucilato proprio da un caro amico perché costretto da un regolamento che non ammetteva eccezioni.
Ma è molto probabile anche che Buzzati con la sua opera voglia metterci in guardia da ogni tipo di prigionia mentale per invitarci ad agire e alla riflessione critica, affinché alla fine della vita, non ci si abbia da pentirsi di aver vissuto inutilmente e solo in attesa dell’atto finale della morte senza lasciare un segno del proprio passaggio sulla scena terrena come di fronte ad “uno smisurato mare immobile colore di piombo” non solcato e non tentato da alcun passaggio vitale.Nella nostra problematica realtà contemporanea rimanere annichiliti di fronte al non senso generale e al Male cosmico è molto facile ma vivere senza tentare di contribuire a modificare le cose rimanendo prigionieri di un sistema è una scelta a dir poco immorale .
La vicenda di Giovanni Drogo è simile a quella di un uomo che avverte la necessità di chiudersi entro una gabbia per sentirsi al sicuro, o a quella di un uomo frustrato che ha bisogno di un nemico per scaricare su di lui tutto il suo malessere, esemplificazione di una condizione ontologica psicotica generata da debolezza di pensiero. In ogni caso personaggi come Giovanni Drogo ci ammoniscono che non c’è nulla di peggio che non fare nulla. La vita chiede di mettersi in gioco, di rischiare, di agire, di scegliere, essa è impegno costante. L’uomo che si isola in una fortezza, lontano dalle vicissitudini del mondo in attesa che queste possano trovarlo è fatalmente destinato al fallimento. Rinchiudersi entro i confini fortificati del proprio IO significa privarsi dell’esperienza della conoscenza e della scoperta finanche della propria autentica identità che solo nel confronto col non-io e con l’altro, che non è necessariamente un nemico, può riconoscersi.
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