Anni addietro, in occasione di un convegno caprese dal titolo Il fascino indiscreto dell’omonimia, indicavo in apertura una serie di considerazioni scaturite dall’aver da poco ultimato la compilazione di un dizionario di omonimi, di omonimi linguistici, naturalmente (Una voce poco fa. Repertorio di vocaboli omonimi della lingua italiana, Zanichelli, 1994).
Dicevo del fascino proveniente dalla sorpresa di ritrovare connessi a un unico significante più significati distinti, un fascino sorprendente, ingannevole, inspiegabile, addirittura “irragionevole”, quando si volesse dar retta a un significato antiquato dell’aggettivo ‘indiscreto’.
L’argomento esigeva, ed esige, una forte attenzione dal punto di vista scientifico giacché gli stessi linguisti non sono completamente d’accordo sul significato del termine ‘omonimo’. La maggior parte di essi, badando alla struttura del significante, indicano come “omonimi” quei vocaboli che, con eguale scrittura (omografi) e/o con identica pronuncia (omofoni), hanno diversi significati: sempre, però, che sia loro riconosciuta una distinta derivazione etimologica. Sono allora omonimi soltanto omografi e non omofoni ‘pèsca’ (il frutto) e ‘pésca’ (l’atto del pescare) in dipendenza della diversa accentazione; ‘hànno’ (voce verbale da ‘avere’) e ‘ànno’ (il periodo di dodici mesi) sono omonimi soltanto omofoni e non omografi, in virtù della presenza o meno della consonante muta iniziale; ‘sètte’ (aggettivo numerale) e ‘sètte’ (plurale di ‘sètta’) sono vocaboli omonimi, contemporaneamente omografi ed omofoni.
Qualcuno, Otto Ducháček (1962) ad esempio, distingue tre casi di parentela semantica: gli omonimi etimologici (reali), gli omonimi semantici (apparenti) e le parole polisemiche. Dal punto di vista sincronico, però, non è affatto facile (e neppure in fondo possibile) decidere con certezza quando si tratti di omonimia o di polisemia (si tratti di omonimi etimologici o di omonimi semantici), poiché la coscienza linguistica e l’opinione su questa questione, a volte, possono anche dipendere da chi parla, scrive, ascolta o legge (dalla sua formazione linguistica, dalla sua intelligenza, dalla sua esperienza) ed entrambe possono cambiare da una generazione all’altra. Nella pratica riesce perciò difficile sostenere un’assoluta distinzione tra un lessema polisemico e due o più lessemi omonimi: la giustificazione dipende solitamente dall’uso. Dal punto di vista teorico si potrebbe comunque considerare che due o più lessemi sono distinti, ma omonimi, quando i loro sememi non hanno (o non hanno più) alcuna figura nucleare comune. Patrizia Violi, infatti, esaminando il fenomeno di ambiguità dovuto alla polivalenza di determinate parole che rinviano a più significati differenziati, osserva che una parola può essere considerata polisemica fino a che le sue varie significazioni mantengono l’identità di almeno un sema specifico, mentre si ha vera e propria omonimia quando i diversi sensi di un termine non hanno alcun sema in comune.
Il caso estremo della polisemia è quello rappresentato dall’ipotesi di Freud delle parole originali, che avrebbero valore opposto; ma in realtà quelli che a Freud sembravano casi di “enantiosemia” erano basati su cattive etimologie. Basti citare quello della parola latina sacer, che solo apparentemente avrebbe due significati opposti, “sacro” e “maledetto”; mentre in realtà il valore è unico ed è: “ciò che non si può toccare”, valore che ben motiva e giustifica i due usi simmetrici.
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