Non mi capitava da un certo tempo, di rientrare a casa dal lavoro con un certo anticipo per sfruttare ancora qualche ora di energia apprenditiva per accelerare la lettura del libro “Il grande Gualino” di Giorgio Caponetti edito da UTET nel 2018 e pochi mesi fa venduto in edicola abbinato al Sole 24 ore in edizione tascabile.
L’ho letto per molti motivi.
Ora che la biografia di Giorgio Caponetti ha curato la lunga trama nei dettagli (e che la voce di Wikipedia in rete consente di comprendere per sommi capi), spero che il “piano Mattucci” sia portato a compimento dai suoi epigoni a Viale Mazzini. La scrittura di Caponetti non è propriamente giovanilistica, ma accompagna con rispetto e ammirazione una vita densissima, complessissima, articolatissima. E la rende semplice, interessante, con i “tempi teatrali” addirittura capaci di prefigurare e proporre non pochi colpi di scena. Impossibile raccontarli qui anche per esempi. Ma sono quasi sempre legati all’entrata in campo di figure “giornalisticamente” mozzafiato: il nonno di Gianni Agnelli (il sen. Giovanni Agnelli, che ha ruolo da protagonista ma dalla parte dei “cattivi”) , il padre di John Kennedy, la regina Maria Josè, il premier britannico Chamberlain ma anche Winston Churchill, i gerarchi italiani, il maresciallo Badoglio (trattato con la meritata durezza), Guglielmo Marconi, una certa Torino (Einaudi, Gobetti, eccetera), la finanza italiana al completo con in testa il Governatore della Banca d’Italia Bonaldo Stringher, una sfilza di intellettuali e creativi che non si possono contare (Lionello Venturi, Felice Casorati, gli architetti Busiri Vici e Levi-Montalcini, eccetera, eccetera). Le donne hanno il loro posto, attorno alla soave fermezza della moglie, ognuna (a cominciare dalla madre di Gianni Agnelli, Virginia Bourbon del Monte), con pennellate di straordinarie “stravaganze”.
Insomma “il grande Gualino” (titolo che non è un esclamativo dell’autore, ma una battuta un po’ sfottente della moglie di Gualino) è la strada che corre lungo tutto il ‘900 (con Torino al centro e Roma e Parigi ai due poli geopolitici del tempo) in cui Milano e la sua borghesia industriale e commerciale e anche il suo indubbio ruolo nell’arte e nella politica è pressoché ai margini di ogni narrativa (e quando entra in campo, come la figura di Senatore Borletti, assume tratti predatori). Qui c’è certamente una visuale alternativa dello sguardo al ‘900 a cui gente come me è poco abituata. Ma non c’è bisogno dei “giusti equilibri” e della “par condicio” per apprezzare una storia con i suoi caratteri, con il suo retrogusto (fatto anche di cibi, di vini, di mode, di profumi, di castelli, di campagne, di maniere), per cui la diversità del racconto proprio del ‘900 assume da un lato comunque interesse e dall’altro fa pensare che, proprio per questo, alla fine ha tenuto in una ingiustificata ombra il suo protagonista.
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