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Il significato dell’assoluzione di Trump per il Partito Repubblicano

Dopo l’assoluzione dell’ex presidente americano Donald Trump da parte di 43 senatori repubblicani dall’accusa di incitamento all’insurrezione contro il Governo degli Stati Uniti, ci si chiede: cosa sarà del Partito Repubblicano e come faranno in futuro i politici e candidati politici repubblicani a sottostare alle costanti minacce di ritorsione di Trump?

Tra le poche verità che l’ex presidente ha detto, quella più attendibile é che, forte dei suoi 73,6 milioni di voti, durante le prossime primarie infierirà contro tutti i repubblicani che gli andranno contro o gli sono già andati contro. Questi sono repubblicani che Trump definisce RINO (Repubblicans In Name Only), o repubblicani solo di nome. 

Le primarie sono elezioni tra gli iscritti al partito per scegliere un candidato e alle quali di solito partecipano gli iscritti più radicali, vociferi e attivisti (questo accade in entrambi i partiti, Democratico e Repubblicano). 

Rimane da vedere se alle elezioni generali, gli elettori moderati accetteranno i candidati estremisti promossi da Trump o ripiegheranno verso democratici centristi o di centro-destra.          

Il verdetto deve ancora arrivare. Potrebbe succedere che ai governi statali e al Congresso Trump mandi prevalentemente candidati come la deputata dello Stato della Georgia Marjorie Taylor Greene, estremista complottista seguace di QAnon (secondo i quali gli incendi della California sono causati da raggi laser inviati dallo spazio da Israele), ed il senatore del Missouri Josh Hawley, che aveva sostenuto la richiesta di Trump di fermare illegalmente al Senato la ratificazione della vittoria di Biden. Oppure potrebbe anche succedere che i candidati del’ex Partito di Lincoln vengano completamente decimati alle varie elezioni generali in quanto estremisti. Ci potrebbero anche essere repubblicani moderati che, per essere rieletti, non hanno rotto con Trump o hanno ricucito con l’ex presidente (come ad esempio ha fatto il leader dei deputati repubblicani Kevin McCarthy, che lo aveva severamente rimproverato per non aver fermato l’insurrezione al Campidoglio).

Riepiloghiamo ora il percorso che ha portato Trump al suo secondo impeachment (processo che non ha valore penale, ma solo politico).

Nonostante molti avessero auspicato la condanna di Trump, il leader della minoranza al Senato, il repubblicano del Kentucky Mitch McConnell, ha condannato Trump per aver istigato l’insurrezione, ma ha votato contro l’impeachment.

La speaker della Camera, la democratica della California Nancy Pelosi, ha criticato McConnell per essersi rifiutato di convocare subito il Senato per dare inizio alla seconda fase del processo (la prima fase è un’accusa formale della Camera, per poi passare ad un processo e giudizio dal Senato), quando Trump era ancora in carica (e McConnell era leader della maggioranza), e di aver usato poi questo ritardo come motivo per assolverlo.

Il leader repubblicano ha tuttavia sottolineato che “la costituzione stabilisce chiaramente che gli atti contro legge di un presidente commessi nel corso del suo mandato possono essere perseguiti dopo che lascia la Casa Bianca”, lasciando quindi una porta aperta alle varie inchieste in corso.

La costituzionalitá dell’impeachment era stata chiaramente dimostrata dai nove “managers” della Camera, tra cui due costituzionalisti, mentre per la difesa, dopo che i costituzionalisti voluti da Trump hanno rifiutato l’incarico, l’ex presidente ha ripiegato su un civilista, un ex procuratore distrettuale e un avvocato specializzato in sinistri. 

I “managers” della Camera hanno chiaramente dimostrato che lo scorso luglio, appena i sondaggi lo davano perdente, Trump ha iniziato a promuovere l’idea che le elezioni sarebbero state truccate (“rigged”) o fraudolente, ed ha proposto prima la posticipazione delle elezioni, poi l’esclusione delle schede che sarebbero arrivate per posta, arrivando anche a togliere fondi al servizio postale per far ritardare le consegne. In quel periodo aveva anche affermato di non voler lasciare la Casa Bianca per via delle elezioni “rigged”.

Tutto ciò senza che Trump offrisse delle prove. Una volta perse le elezioni, Trump ha intrapreso ben 60 azioni legali in diversi stati, fino alla Corte Suprema, per contestare i risultati (solamente quelli suoi, non quelli dei repubblicani eletti con la stessa scheda elettorale). Fallito questo tentativo, ha poi minacciato vari funzionari statali, ed in particolare il responsabile dello stato della Georgia, il repubblicano Brad Raffensperger, affinché “trovasse” 11.780 voti di cui Trump aveva bisogno per vincere in quello stato. 

Non avendo avuto successo, non rimaneva altro che “fermare il furto” (come promosso dal suo slogan “Stop the Steal”) con qualsiasi mezzo il 6 gennaio 2021, quando le schede dei grandi elettori sarebbero arrivate al Senato per ratificare la vittoria di Joe Biden alla presidenza. Pertanto dalla settimana prima Trump ha cominciato ad incitare i suoi seguaci con gli slogan “Marcia per salvare l’America” e “Fermare il furto”, per farli poi dirigere verso il Campidoglio proprio quel 6 gennaio. Se il suo vice presidente Mike Pence, in qualitá di presidente del Senato, non avrebbe interrotto la ratifica (cosa che non ha fatto per obbedire alla Costituzione), i suoi seguaci avrebbero dovuto “combattere duramente, mostrare la vostra forza al Campidoglio. Non riprenderete mai il Paese se deboli”.

Trump guarda l’insurrezione in televisione

L’ assalto, da parte di 25.000 “soldati di Trump”, l’occupazione del Campidoglio, da parte di 500 militanti, ed il tentato colpo di stato, sono iniziati alle 14:00 e sono stati fermati verso le 16:30, quando le Guardie Nazionali, prima semplicemente impegnate a dirigere il traffico, sono state ridirette a sgomberare gli scalmanati entrati nel Campidoglio, dopo che 60 poliziotti sono stati feriti e cinque persone sono morte. Come Trump aveva avuto occasione di dire in passato: “potrei stare nel mezzo della Quinta strada [a New York City] e sparare a qualcuno e non perderei voti”, così é accaduto durante il suo secondo impeachment.

Il vice presidente Pence mentre viene evacuato dal Secret Service prima che gli insurrezionisti entrino nella sala del Senato dove si stava per ratificare la vittoria di Joe Biden. Poco prima, pur sapendo che la vita di Pence era a rischio, Trump aveva twittato che il suo vice non aveva avuto il coraggio di fare ciò che doveva fare e gli insurrezzionisti hanno cominciato a urlare: “impiccare Pence”.

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Dom Serafini

Domenico (Dom) Serafini, di Giulianova risiede a New York City ed è
il fondatore, editore e direttore del mensile “VideoAge” e del quotidiano fieristico VideoAge Daily", rivolti ai principali mercati televisivi e cinematografici internazionali. Dopo il diploma di perito industriale, a 18 anni va a continuare gli studi negli Usa e, per finanziarsi, dal 1968 al ’78 ha lavorato come freelance per una decina di riviste in Italia e negli Usa; ottenuta la licenza Fcc di operatore radio, lavora come dj per tre stazioni radio e produce programmi televisivi nel Long Island, NY. Nel 1979 viene nominato direttore della rivista “Television/Radio Age International” di New York City e nell’81 fonda il mensile “VideoAge”. Negli anni successivi crea altre riviste in Spagna, Francia e Italia. Dal ’94 e per 10 anni scrive di televisione su “Il Sole 24 Ore”, poi su “Il Corriere Adriatico” e riviste di settore come “Pubblicità Italia”, “Cinema &Video” e “Millecanali”. Attualmente collabora con “Il Messaggero” di Roma, con “L’Italo-Americano” di Los Angeles”, “Il Cittadino Canadese” di Montreal ed é opinionista del quotidiano “AmericaOggi” di New York. Ha pubblicato numerosi volumi principalmente sui temi dei media e delle comunicazioni, tra cui “La Televisione via Internet” nel 1999. Dal 2002 al 2005, è stato consulente del Ministro delle Comunicazioni italiano nel settore audiovisivo e televisivo internazionale.

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Tag: trump

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