La riflessione che oggi propongo ha preso spunto da una discussione gioviale e spontanea con un giovane amico e avvocato sulla difficoltà, nella nostra piccola realtà provinciale cilentana, di esprimere liberamente la propria visione politica dei fatti e sui protagonisti politici di quei fatti, sia pure con un semplice like su FB, senza incorrere in spiacevolezze varie, se non addirittura in atti intimidatori e in piccole/grandi ritorsioni. E nessuno, non si sa perchè, si ribella anzi i più accettano, acconsentono, si piegano tacitamente senza protestare.
La consultazione elettorale non è vista come un’opportunità per scegliere liberamente ed esercitare un diritto-dovere ma un momento decisivo per farsi promettere qualcosa e per i candidati l’occasione per “garanzie” varie o “per farla pagare”. Nei nostri piccoli centri, difatti, ma penso non siano gli unici, le persone in gran parte non comprendono che il discorso ” in cambio di…”, riferito ad una promessa elettorale, rappresenta la tacita accettazione della negazione di ogni forma di democrazia.
Nel nostro Sud, a distanza di anni dall’opera/documento “Cristo si è fermato ad Eboli” di Carlo Levi, non pare sia cambiato molto. Si continua ad essere passivi di fronte a pratiche di controllo del consenso che impediscono di guardare con obiettività per distinguere una buona politica da una pseudo politica, un valido progetto politico da millanterie varie, personaggi onesti e competenti che lavorano nell’interesse della collettività anche in una prospettiva a lungo termine da approfittatori e arrampicatori sociali che cercano solo un semplice tornaconto personale, anche in solido, ahimè. Si continua ad aver paura di possibili ritorsioni.
Si preferisce ad un rifiuto chiaro e onesto di fronte a richieste che richiederebbero la prostituzione di ogni regola etico-civile, una promessa millantata e irrealizzabile o realizzabile ma a scapito della correttezza amministrativa che richiederebbe imparzialità e trasparenza.
Si accetta di abdicare alla libertà di una scelta politica in cambio di rassicurazioni molto spesso improponibili, irrealizzabili e scandalose sotto il profilo etico-sociale. È così che si assiste ad una sempre più graduale restrizione della propria sfera di autonomia, intollerabile in società civili e democratiche.
Contribuisce alla crescita di questo fenomeno il “codazzo” che plaude e circonda tali frodatori di democrazia e costituito anche da persone di apparente grande rispetto, che svolgono e occupano posizioni di prestigio nella società, codazzo che sconcerta e inquieta i più “integri ” ma condiziona tutti coloro che hanno una innata predisposizione alla sottomissione.
Così mostrarsi ossequiosi e rispettosi di una cerchia, entrare in “confidenza” con chi è reputato “influente” può tornare utile in più circostanze, diventa tranquillizzante oltre che una sorta di “status symbol”. Anche questa è una forma di schiavit, chiamiamola emotiva e psicologica e , purtroppo, non vi è peggior schiavitù di quella che si ignora.
La “conditio sine qua non”, necessaria a queste tristi circostanze è una cultura di sottosuolo, volgare e inconsapevole che indigna e non poco.
Mi affiderò, per rendere chiaro il mio messaggio che vuole essere una “scossa ” alle coscienze poco libere, ancora una volta ad Ignazio Silone, un martire della democrazia, che nel suo capolavoro “Uscita di sicurezza” spiega come per assenza di principi democratici fu costretto a uscire dal partito comunista di Togliatti. L’opera si configura come una sorta di biografia atipica in cui l’autore narra la sua formazione politica e il suo problematico e conflittuale rapporto con il PCI e con Togliatti per cui, in nome del sacrosanto diritto a dissentire e della libertà d’opinione, uscì dal partito senza per questo derogare dagli ideali del Socialismo e da quei valori fondamentali che gli sono propri come la democrazia, la trasparenza, la libertà, l’uguaglianza.
Nel paragrafo terzo del terzo capitolo Silone racconta una storia vera che lo vide spettatore attento e riflessivo nonostante la giovane età di 7 anni.
“Da qualche tempo la democrazia aveva introdotto nei rapporti tra lo Stato e i cittadini un particolare tecnico (il voto segreto) che, pur non bastando da solo a cambiare le cose, consentiva ogni tanto risultati sorprendenti” esordisce e continua. “Avevo 7 anni quando nella mia contrada si svolse la prima campagna elettorale politica” . Racconta che tra i candidati c’era il Principe (il nome non serviva per riconoscerlo) che era proprietario di un grande feudo su cui lavoravano circa 8000 famiglie, quasi l’intera popolazione locale. I portavoce del Principe si affrettarono subito a precisare che nessuno era obbligato a votarlo così come il Principe non era obbligato a lasciar lavorare sulla sua terra chi non lo votava. Il discorso era chiaro e preciso: liberi i contadini, libero il Principe. Era uno strano concetto di libertà quello che si sosteneva e che suonava come una forma di avvertimento minaccioso, una sorta di ricatto che corrisponde a quello che noi oggi chiamiamo voto di scambio, un reato grave per cui è previsto anche il carcere e la sospensione da ogni pubblico ufficio. Eppure chi può negare che questa strana idea di libertà non venga ancora oggi propinata sotto garanzie di posti di lavoro, di silenzi colpevoli intorno a pratiche poco rispettose delle regole, di facili guadagni.
Il messaggio del Principe era inequivocabile: se non vuoi morire di fame mi voti senza se e senza ma. Non bisogna essere contemporanei di Silone per comprendere la situazione di soggezione psicologica che ne derivò perchè il voto di scambio è normalmente e tacitamente praticato ancora oggi e oggetto di vero e proprio mercato.
Il voto nella mia realtà si vende e si acquista come un prodotto qualsiasi al supermercato e nessuno se ne vergogna , nè si ostacola da parte delle autorità competenti, sembra normale, anzi ovvio, tanto che si aspettano le elezioni, in particolare le amministrative, per strappare qualche promessa e ottenere qualche vantaggio. Tutti lo sanno, nessuno si oppone, è un sistema che fa comodo e garantisce sicura immunità. È indecente per chi lo pratica e per chi tacitamente acconsente.
Ai tempi di Silone, però, ci fu chi reagì alla logica maggioritaria di quanti affermavano “Noi non coltiviamo politica ma la terra… come coltivatori dipendiamo dal Principe… e dobbiamo…” A questa logica, difatti, si oppose il padre di Silone che obiettò: “Nel contratto non si parla di elezioni ma di patate e barbabietole. Come elettori siamo liberi. Non posso votare qualcuno solo perchè sono costretto. Mi vergogno”. Gli obiettarono: “Ma l’amministrazione del Principe sarà poi libera di non rinnovarci il contratto. Ecco perchè siamo costretti a dichiararci con lui” .
Anche Rousseau rifletteva che lì dove non si era liberi dal bisogno non si poteva essere liberi elettori, non ci poteva essere vera democrazia. Eppure senza esercitare il diritto alla libertà democratica nessuno potrà mai essere veramente libero, anche dal BISOGNO.
L’avversario del Principe era un tale di nome Scellingo. Era un medico oculista che veniva da Roma. Quando arrivò in paese per farsi conoscere non trovò nessuno ad accoglierlo, solo donne e bambini che non avevano diritto di voto. Tra quei bambini c’era anche il piccolo Ignazio che incuriosito gli chiese di tenere un discorso. Il Principe, invece, non aveva bisogno di spiegare, chiarire e nessuno mai gli chiese un comizio.
“Ricordate ai vostri genitori che il voto è segreto. Nient’altro” disse il povero uomo e aggiunse “Sono povero, vivo facendo il medico, ma se qualcuno ha gli occhi malati lo curo, gratis”.
La vittoria del Principe sembrava scontata a giudicare dalle folle acclamanti ma, colpo di scena, l’enorme maggioranza dei contadini, con grande meraviglia di tutti, nel segreto dell’urna votò il povero medico sconosciuto.
Il risultato fu considerato dal Principe un abietto tradimento. Le sue proporzioni furono tali da impedire all’amministrazione del Principe ogni possibilità di rappresaglia.
Aveva vinto la libertà, la democrazia, la dignità.
Erano gli anni ’20, oggi siamo nel 2020 e con rammarico riscontro che a vincere è spesso “in cambio di…”. Questione di abitudine, di cultura scadente o del “bisogno” ?
La democrazia dovrebbe darsi una risposta.
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