Non sono a Chios a Lesbo, non sono su un’isola greca e non sto vivendo in prima persona l’esperienza di un medico volontario di Stay Human Odv, sono comodamente a casa e vorrei poter fare di più.
Forse raccontare ciò che accade in questi gironi infernali può comunque essere utile, far conoscere la realtà, senza parlare solo di numeri, ma di storie, di persone, di vite che hanno già visto la morte e vivono in un limbo e cercano “attimi di normalità” può aiutare la mia coscienza e far capire a chi ha scelto di non sapere o solo di girarsi dall’altro lato che non è giusto quello che sta accadendo.
Racconto attraverso le parole di un medico, di un uomo, di un essere umano ciò che accade, ciò che si prova, ciò che non si dimenticherà mai. Grazie a chi mi ha fatto il grande regalo di rendermi partecipe.
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Per quanto si possa essere preparati ad affrontare un’esperienza come questa, quando è la prima volta, non sai esattamente cosa ti aspetta e lo scenario che troverai. I giorni che ti avvicinano alla partenza li vivi come sospeso in un limbo, una sorta di anestesia durante la quale si alternano stati di euforia a momenti di incertezza e di angoscia. Poi arriva il momento che sali su quell’aereo che ti porterà al campo… ci sali e tutto si dissolve.
Durante il volo cerchi un segnale, una traccia che ti possa far identificare il campo, nei minuti prima dell’atterraggio. Dall’alto, di notte, le luci e gli agglomerati si susseguono e tu rimani stupito, innanzitutto, dell’estensione dell’isola, che pensavi molto più piccola; alla fine scegli un gruppo di luci, quelle che ti sembrano più forti, perché immagini che abbiano i riflettori puntati addosso, per motivi di sicurezza ed attendi di toccare pista per poter, finalmente, iniziare.
Nel frattempo hai volato con un turboelica, si quelli piccoli, 30 posti al massimo, di quelli che volano bassi e che “accompagnano” ogni minima folata come se fosse una turbolenza atlantica, ma questo ti ha permesso di pensare al contrasto tra la bellezza assoluta dei luoghi e la tragedia che su quelle coste si sta consumando.
Allo sbarco procedi incerto, guardandoti attorno, immaginando di trovare un paese quasi in stato di assedio, visto che alla partenza ti hanno spiegato che quelle isole sono considerate obiettivi “sensibili” e, quindi, le procedure di imbarco dei bagagli sono simili a quelle adottate per gli USA o Israele, invece niente. E’ sera inoltrata, l’aeroporto potrebbe essere tranquillamente un aeroporto cubano. Nessun controllo, nessuna assistenza. L’addetto alla logistica della ONG ti preleva e ti porta in quella che sarà la tua casa per i prossimi giorni, casa che condividerai con gli altri medici ed infermieri che, come te, sono lì perché bisogna esserci. Perché è giusto, ad un certo punto, abbandonare lo sdegno della tastiera e metterci il corpo, se puoi mettercelo. Se ha senso che tu ce lo metta. In ogni caso ha un senso aiutare. In qualsiasi modo lo si possa fare.
Sono persone che non hai mai visto in vita tua ma già sai che sarà come se le conoscessi da una vita. Neanche il tempo di posare le tue cose e sei proiettato nel campo. Arriva una chiamata, una apparente urgenza per una gravida che riferisce perdita di liquido amniotico. Sei appena arrivato e già capisci che le tue ore saranno scandite non più dall’orologio ma da quel telefono che suonerà in caso di urgenze da campo o di sbarchi sulle coste. Il campo è lontano da quasi tutto, ci si arriva per strade strette e tortuose, avvolte nel buio della campagna greca appena rischiarato dai riflessi della luna. Tutto è ovattato, tutto è sospeso.
Capisci immediatamente che la Grecia, i greci, hanno deciso che il problema non esiste, così, semplicemente. Capisci che la gente sa ma resta indifferente, come lo sa perfettamente l’Europa ma anche lei resta assolutamente indifferente. Il problema è risolto semplicemente ignorandolo. Finalmente, dopo l’ultima curva, e qualche profugo che hai incontrato per strada, semplicemente in movimento, una sorta di andare per andare, come gli aborigeni australiani raccontati da Chatwin.
Ecco il campo! L’impatto è duro. Pullman della polizia parcheggiato, un grande capannone anonimo sulla destra, di quelli adibiti alla logistica delle grandi imprese di trasporti, alla sinistra il campo profughi, circondato da grate sormontate da filo spinato. Davanti, un improbabile cancello di ferro del tutto inutile, visto che non prosegue con niente, ma si entra attraversandolo. Le due strutture sono separate da un vialetto costellato di una umanità varia. Qualche panca sulla quale gruppi di migranti giocano a carte, persone appoggiate al muro del capannone, altre accovacciate per terra. E’ difficile passare lungo quelle grate e guardare oltre. Perché si apre un universo di dolore e sofferenza. Tu passi con la divisa della tua ONG e loro ti guardano. Sanno che sei lì per provare ad aiutarli ma tu percepisci che sono attraversati da sentimenti contrastanti. Davanti al cancello di ingresso del capannone, la polizia schierata in assetto antisommossa stride con la figura di un bambino, di circa due o tre anni, che con i piedi in una pozzanghera e le mani compitamente intrecciate dietro le spalle si specchia nell’acqua lurida.
Quando pensavi di aver visto il peggio e di essere arrivato al fondo della disumanità, la realtà ricomincia a scavare. Sulla destra, varcato il cancello, una struttura in compensato spesso, senza tetto ed ovviamente senza finestre, divisa in tre o quattro scompartimenti, accoglie decine di minori non accompagnati, guardati a vista da una polizia svogliata e disinteressata che hanno come giaciglio il pavimento. Loro vivono, si fa per dire, lì, in quello spazio sospeso nel nulla. Senza luce naturale, mai. Sulla sinistra un recinto simile a quello dei cavalli dove vengono stipati i profughi che sbarcano, prima di essere identificati. Procedura che necessita anche di 48 ore.
Sono decine, in realtà non li vedi, perché sono completamente avvolti nelle coperte. Giacciono stremati, sulla nuda terra, uno accanto agli altri. Bambini, donne, uomini, giovani, vecchi. Tutti insieme, persone di etnie e lingue diverse, di diverse religioni. Costrette ad una promiscuità forzata. Davanti allo steccato dei sacchi di indumenti dove un vecchio con la barba grigia e la faccia antica scavata da rughe cerca la compagna della scarpa che ha appena conquistato. Alla fine si allontana claudicante ma con un trofeo che potrebbe rivelarsi prezioso nel futuro. Ammesso che lo abbia un futuro. Dieci metri più avanti, a quello che avrebbe la pretesa di essere un check point di identificazione ma che assomiglia più a come ti immagineresti una stazione di polizia del Sudamerica più profondo, alcuni poliziotti ti guardano distrattamente mentre sigli il registro di entrata. Nessuno ti chiede un documento o uno straccio di autorizzazione. Potresti essere chiunque ma passi.
Finalmente arrivi al container che accoglie, sempre per dire, l’ambulatorio. Qui lo chiamano pomposamente “clinica” ma è un eccesso di entusiasmo. La coppia è li, sono giovani. Sono spaventati, capisci che è la prima gravidanza e che riferisce di aver perso liquido amniotico. Cerchi di stabilire un contatto, ma è impossibile, non hai l’interprete e loro non parlano inglese, francese, spagnolo, una lingua qualsiasi in cui capirsi. Capisci che l’interprete lo hai solo in alcune ore. Dopo ci si arrangia come si può e, se non si può, devi rimandare. Tu, pero, quella donna la devi visitare ma sei uomo e lei è musulmana. E’ un problema che potrebbe essere insormontabile. Alla fine riesci a chiamarlo al telefono il mediatore e la cosa si risolve. Dicono di sì, puoi visitarla ma capisci che è un problema enorme per loro. Allora spegni la luce e nel buio totale accendi la torcia del cellulare. Non è tutto ma è sufficiente per far capire loro che li rispetti. Alla fine non ha niente e la rimandi nel suo container, al suo destino. Ma almeno “quel” problema non lo ha.
Non fai in tempo a recuperare le tue attrezzature che la polizia ti chiama. C’è una donna, su una panca, di fronte al “check point” in preda ad una crisi isterica. E’ una famiglia, due figli poco più che adolescenti, riesci a fartela portare nella “clinica”. Ti dicono che sono “Kurd Arab”. Di nuovo il problema della lingua, di nuovo il traduttore al telefono, questa volta è il telefono dell’uomo. Te lo passa parli con il traduttore e tra i vari passaggi, sullo schermo, ti appare il simbolo del Rojava. Improvvisamente sei fuori da quel campo, da quella clinica, sei proiettato nella tragedia che sta avvenendo nel nord della Siria. Guardi quell’uomo con gli occhi disperati, quelli smarriti dei figli, guardi quella donna che si contorce e cerchi di immaginare cosa abbia visto e vissuto ma, semplicemente, non ci riesci. Qualsiasi cosa tu possa immaginare non sarà paragonabile al dramma di quella donna. Al dramma di nessuna delle persone che sono in quel campo.
Sono le 23. Hai finito. Hai viaggiato per 12 ore per arrivare lì e sono due ore che sei nel campo. Nella “clinica”. Quel posto sarà il tuo osservatorio su quel mondo di sofferenza e disperazione per i prossimi giorni.
Benvenuto dove non avresti dovuto essere se le cose avessero funzionato come dovevano e se ognuno avesse fatto quello che doveva, invece di girarsi indifferente. Benvenuto all’Inferno.
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