I Palazzi in cui hanno sede le istituzioni della Repubblica (Presidenza della Repubblica, Camere del Parlamento, Governo, Corte Costituzionale) hanno tutti una lunga storia, che affonda le sue radici nella Roma dei Papi, prima che la città divenisse capitale dello Stato.
Degli edifici si sa tutto, o quasi: basta sfogliare una qualunque guida turistica. Poco si sa invece della vita che in essi si svolge ogni giorno, di coloro che vi lavorano, delle regole che debbono essere seguite.
Il Palazzo di Montecitorio, il palazzo della politica per antonomasia, non si sottrae a questa regola. L’edificio in cui ha sede la Camera dei Deputati (leggi “I palazzi del potere“) trae ragione anche dal tentativo di dare risposta alle domande che ci si pongono in proposito.
A questi interrogativi tende a dare risposta il libro “Interno Montecitorio” di Mario Pacelli con Giorgio Giovannetti, che esce nelle edizioni Giappichelli, completamente rivista ed aggiornata. Come per le tre edizioni precedenti, rapidamente esaurite e ormai introvabili, il volume ha tre linee espositive.
La prima è la storia dell’amministrazione della Camera dei deputati dal 1848 ai nostri giorni. Quando nel 1984 fu pubblicato Le radici di Montecitorio (che va considerata la prima edizione di quest’opera) non c’erano volumi dedicati alla nascita e all’organizzazione della burocrazia parlamentare (ancora oggi non esiste un lavoro simile dedicato al Senato). Fu perciò nel suo ambito innovativa, perché spiegava la stretta relazione esistente nella forma di governo tra norme costituzionali, regolamenti parlamentari e burocrazia della Camera dei deputati.
Vi è, poi, la descrizione di palazzo Montecitorio, inteso come Paese della politica, il luogo in cui a tutti i livelli si è realizzata (e si realizza) la sintesi di un Paese complesso e complicato come il nostro. In esso, meglio di ogni altro luogo si unisce l’anima risorgimentale con quella papalina: dalla simbologia massonica presente nell’opera di Basile alla lapide che celebra il discorso di Giovanni Paolo II. Un Paese della politica con la sua piazza (il Transatlantico), l’ufficio postale, il bar (la buvette), lo sportello bancario, il tabaccaio, l’infermeria, le botteghe degli artigiani nascoste nei sotterranei e persino una colonia felina d’élite destinata a difendere documenti e materiali dall’assalto dei voraci e combattivi roditori del grande canale che sotto piazza del Parlamento convoglia le acque pluviali che scendono dal Quirinale. Su piazza Montecitorio c’è anche una coppia di gabbiani reali, con base in via della Missione, che risolve le necessità alimentari depredando con impressionante abilità gli ignari turisti che escono dal vicino bar Giolitti con coni gelati e pizzette.
Il Paese della politica è difeso dai Carabinieri all’esterno, dalla Polizia all’interno mentre la Guardia di Finanza supporta le commissioni d’inchiesta nel vicino Palazzo San Macuto.
Nel volume si parla anche degli abitanti del Palazzo. Non solo i parlamentari; accanto a loro i dipendenti dell’amministrazione e i giornalisti. A questi ultimi sono dedicati alcuni approfondimenti raccontare come è cambiata nel corso degli anni la percezione e la rappresentazione della politica.
Queste le linee principali del testo in cui abbiamo cercato di legare la storia della Camera dei deputati con le vicende politico-istituzionali. Il minimo comune denominatore che le lega è il tentativo di descrivere ciò che è stata definita cultura del Parlamento, l’insieme, cioè di norme, regole, prassi, comportamenti, stili e tradizioni che costituiscono la bussola con cui orientarsi nella più importante istituzione rappresentativa. È un mare frequentato da ogni genere di specie, dove l’esperienza è un elemento essenziale per nuotare, sopravvivere e cercare di realizzare il bene comune.
La storia dell’amministrazione è anche l’insieme di vicende politicamente non trasparenti ed eticamente non esaltanti. Si racconta in proposito che qualche anno fa un anziano funzionario parlamentare accolse con un sorriso paterno il primo classificato al concorso per referendari. Il nuovo collega, poco più che un ragazzo, era esultante, pieno di dottrina e ricco di entusiasmo per aver superato brillantemente una delle prove più difficili del pubblico impiego. Il più esperto sospinse il più giovane dal Transatlantico verso l’uscita di piazza Montecitorio. Giunti davanti al portone gli disse: «Ricorda figliolo, le leggi escono tutte da quella porta, ma molte non rientrano». Alla perplessità dell’interlocutore spiegò che in nome dell’autonomia erano stati violati gli stessi principi e diritti per cui era nato il Parlamento e lo Stato di diritto.
Tempi lontani e fortunatamente superati, ma che hanno fatto parte della storia della Camera dei deputati.
Un discorso a parte merita la burocrazia parlamentare e in particolare il vertice di essa, composto dai funzionari parlamentari. Un corpo a sé, fuori dalle classificazioni tradizionali, più simile ai consiglieri di Stato che ai dirigenti statali. Gli «uomini in grigio» sono chiamati ad aiutare i politici a trasformare gli indirizzi politici in norme e svolgono la funzione di memoria storica sull’applicazione delle regole del gioco nel confronto parlamentare. Sottoposti alla lege e al tempo stesso supporti e suggeritori di chi le leggi le scrive. E una peculiarità riconosciuta sin dalla nascita del Parlamento subalpino nel lontano 1848. Vittorio Emanuele Orlando li classificò come «dipendenti di Stato e non dello Stato»; nell’età giolittiana Camillo Montalcini ideò e realizzò un sistema che, almeno formalmente, garantiva autonomia e autorevolezza alla struttura di vertice dell’amministrazione della Camera per renderla “sempre sopra dai marosi della politica”. Il sistema realizzato con intelligenza e scaltrezza da Montalcini riuscì a sopravvivere al fascismo. In anni più recenti Francesco Cosentino, a cui sí deve una delle più efficaci riforme degli apparati serventi del Parlamento, immaginò i funzionari parlamentari come i custodi del tèmenos, cioè dell’area sacra dei templi degli antichi greci.
Nella stagione politicamente eccezionale e istituzionale incerta che stiamo vivendo, molti funzionari del Parlamento sono stati chiamati a ricoprire ruoli di supporto ai vertici governativi (capi di gabinetto, capi degli uffici legislativi, responsabili dei dipartimenti). Una forzatura in contrasto con la tradizione della burocrazia parlamentare che trae la sua autorevolezza (e quindi la sua forza) proprio dal non apparire mai schierata politicamente. Naturalmente ciò non vuol dire che in passato tra i dipendenti (e i funzionari in particolare) non siano state presenti diverse opinioni politiche (non sono rari i casi di dipendenti titolari di cariche pubbliche, anche quando erano ancora in servizio), ma è essenziale che quelle opinioni non siano strumentalizzate nell’espletamento del servizio all’interno di Montecitorio, nell’ormai acquisita consapevolezza che quella neutralità condiziona l’esistenza stessa della burocrazia parlamentare, altrimenti condannata alla logica di uno spoilt system privo di qualsiasi garanzia.
D’altro canto il vertice dell’amministrazione della Camera trae la sua legittimazione dalla nomina fatta dall’Ufficio di presidenza e deve godere della fiducia del presidente. Ipotizzare un contropotere del segretario generale significa minare il funzionamento del Parlamento, come accadde qualche anno orsono quando un alto funzionario nella sua biografia, dopo aver più volte esaltato l’autonomia della burocrazia della Camera arrivò ad adombrare un referendum con il quale far decidere agli elettori se mantenere in vita la democrazia parlamentare. Benedetto Croce avrebbe parlato di un arresto della storia, se non di anti storia.
Viviamo in un’epoca in cui tutto cambia e lo fa in modo rapido e rivoluzionario. Le autostrade informatiche, generate dall’era digitale, hanno trasformato l’economia, inciso sulle abitudini, modificato i meccanismi di informazione e i processi di conoscenza. Si è parlato di una trasformazione antropologica (Serres). Dopo l’era dell’oralità, quella della scrittura, quella della stampa a caratteri mobile, il digitale. Quando la nuova era si sarà consolidata muterà anche l’organizzazione dello Stato.
La finanza, che si è adattata ai nuovi ritmi del mondo meglio di ogni altra organizzazione, sembra in grado di poter asservire la politica. Girano parole come «postdemocrazia», «controdemocrazia», «dopodemocrazia», «democratura», tutte frutto dí analisi che mettono insieme la globalizzazione, il dominio dei mezzi di comunicazione, la mancanza di valori forti che ha creato una società fluida, o «liquida», per dirla con Zygmunt Bauman.
Il nuovo si intravede, ma è lontano sulla linea dell’orizzonte. Tra il domani prossimo venturo e un passato in cui il ricordo spesso addolcisce le asperità e ingigantisce i protagonisti, c’è l’oggi: anni impegnativi e interessanti. In essi, nonostante il turbine di idee rimane valida l’affermazione di Churchill secondo cui La democrazia è la peggiore forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle forme che si sono sperimentate fino ad ora e la rappresentanza parlamentare resta il modo migliore per dare un senso e una struttura alla democrazia delle società contemporanee. A tal proposito torna in mente l’ammonimento di un politico del secolo scorso che in Transatlantico, rivolgendosi a un gruppo di giovani colleghi affermò: Badate, ogni tanto, in Parlamento, si ascolta il fruscio delle ali degli angeli e quello delle ali del diavolo che si occupano delle grandi svolte. È lo stesso fruscio che, in altri tempi, si sentiva solo nell’anticamera dei re o nel Gabinetto del primo ministro. Chi non l’ascolta, o chi non vi presta attenzione, non è nato per fare politica e tanto meno è nato per stare qui dentro.
Molto si può fare per aggiornare le antiche procedure alle novità tecnologiche, ma per far funzionare bene un sistema rappresentativo restano le indicazioni fatte in epoche diverse da Constant, Tocqueville, Weber, Bobbio e Sartori (per citare maestri indiscussi): occorre una legge elettorale capace di legare elettorato ed eletti; che la classe dirigente sia selezionata anche in base alla conoscenza dei problemi e non ultimo che la politica non sia solo comunicazione, ma recuperi uno spessore e una dimensione temporale.
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