Ho preso parte nei giorni scorsi all’interessante incontro (del resto trasmesso integralmente da Radioradicale) promosso dalla Fondazione “Ugo La Malfa”, curato da Sasà Torriello e introdotto da Giorgio La Malfa, Alfredo Recanatesi e Filippo Sensi, dedicato al tema “La democrazia al tempo dei social”.
Che l’incontro si svolgesse circondati dai ventimila libri perfettamente catalogati posseduti e letti da Ugo La Malfa, sarà un’osservazione remotista ma conferiva al dibattito la sua nota di distinzione.
Il tema politico-costituzionale è stato così posto da Recanatesi (giornalista di lungo corso e tra i fondatori del “Club dell’Economia”): “I social hanno fatto piazza pulita dei corpi intermedi che consentivano un accettabile grado medio di consapevolezza dell’intero corpo elettorale. I social hanno offerto la possibilità agli esponenti politici di stabilire relazioni dirette con gli elettori saltando ogni mediazione. Dal canto loro, gli elettori, ed in particolare i meno avveduti, e quindi i meno avvezzi all’esercizio della analisi e della critica, si sono sentiti gratificati dal poter interloquire direttamente (così almeno credono) con gli esponenti politici facendone il loro riferimento prevalente, se non esclusivo. La qualità della partecipazione dei cittadini – o almeno di questa ampia parte di loro che non dispone di strumenti di analisi e di decisione propri – è così profondamente degradata, degradando di conseguenza il livello della politica stessa”.
Ho ascoltato interventi ragionevoli e preoccupati (Giancarlo Tartaglia, Donato Speroni, Corradino Mineo, Pier Giorgio Gawronski, Laura Mirakian, Ernesto Auci e Claudia La Malfa) attorno agli sviluppi di due questioni qui sollevate, da un lato la disintermediazione e la marginalizzazione del professionismo dell’informazione, dall’altro lato la banalizzazione verso le soglie del degrado della comunicazione politica.
E ho provato, verso le conclusioni, a svolgere un breve contributo in sintonia con le cose ascoltate.
In particolare l’idea di Filippo Sensi (ora deputato del Pd, in precedenza portavoce dei governi Renzi e Gentiloni) che vi è un rinnovamento della politica in alcuni paesi democratici che riesce a fare anche nei parlamenti luogo di serietà e di interesse da parte dei media di un modo nuovo e non banale di fare “comunicazione politica”. E lo spunto di rassicurazione di Giorgio La Malfa (che su questo si è simpaticamente dichiarato “non lamalfiano” cioè non pessimista per principio) che – per buon senso, buon governo e rimonta della partecipazione giovanile (con le Sardine) – l’Emilia Romagna ha prodotto un contraccolpo a quel degrado su cui tutto il sistema della democrazia liberale è chiamato ora ad operare e consolidare.
Ricapitolo i brevi argomenti svolti.
Innanzi tutto sul “fare sintesi” nella comunicazione. Considerando che la brevità o anche la semplificazione linguistica non è la colpa di ogni male, se è vero che persino i “Dieci comandamenti” sono stati redatti nel format dei 140 caratteri spazi inclusi. Ma a dimostrazione che non è tanto colpa del format ma del pensiero che vi è sotteso, giacché è possibile fare nella brevità e nella sintesi riferimento alla complessità delle cose, così come è possibile approdare al “nulla” per banalità in sé dei messaggi.
In secondo luogo riguardo alla disintermediazione. Concordando con chi, anche a questo riguardo, chiede di non condannare l’innovazione tecnologica che in sé ha prodotto libertà e opportunità per la diffusione e l’accesso alla conoscenza. Ma di porre oggi l’accento sull’evoluzione industriale, di mercato e di salvaguarda di diritti delle persone e delle imprese rispetto a chi (in particolare i grandi gruppi over the top) aveva all’inizio promesso disintermediazione per poi nel tempo chiudere il processo in un potente oligopolio che ha creato la maggiore intermediazione dell’età moderna e contemporanea. Senza che né la democrazia europea né quella americana – proprio in nome di diritti soffocati e privacy calpestate – abbiano ancora reagito rispetto alle soglie di antitrust ampiamente superate.
In terzo luogo parlando di un argomento che, almeno questo, non può essere attribuito alla “colpa dei social”. Quello cioè che ci vede (proprio in questo biennio 19-20 che ripropone paradigmi centenari inquietanti) in una onda populista che cavalca una narrazione pasticciata dei valori della democrazia, obbligandoci tuttavia a constatare che troppo a lungo le nostre istituzioni democratiche hanno male e poco raccontato i “valori della democrazia”, fino a produrre – loro stesse, non l’ultima onda populista – il 47% di analfabeti funzionali nel nostro Paese.
In quarto luogo provando a riconoscere se il morbido ma anche eticamente fermo e rigoroso modo di riprendere la piazza e la comunicazione da parte delle Sardine sia fatto solo di segnali simbolici o magari anche da qualche embrionale proposta su cui la politica anti-demagogica potrebbe lavorare. E trovando che la richiesta di regolamentare che chi è al governo (dunque i ministri, per esempio, senza esclusione) non possa intervenire nel dibattito pubblico che attraverso i canali della comunicazione istituzionale proibendo l’uso di messaggi di tipo “personale” connotati da una fonte di governo sui socialmedia. Proposta fin qui piuttosto dileggiata o comunque trascurata, ma non ancora discussa.
Il quinto punto non l’ho espresso a voce, lo aggiungo qui nello scritto, avendone già scritto varie volte. Riguarda la remarque durata anni sui giovani disinteressati rispetto alla politica e alla partecipazione. Sembrava che in un paese di vecchi la condanna a vedere invecchiare il ceto politico senza ricambio fosse inevitabile. Ci saranno anche altre ragioni, ma è sicuro che la dinamica comunicativa veloce, icastica, interattiva, polemica, assertiva, a volte anche violenta, insomma quella che appartiene al “tempo dei social” ha riportato passione, partecipazione e ricambio nei giovani e persino nei giovanissimi. Prima di farne degli statisti è evidente che devono maturare molte cose, che deve avvenire una certa selezione, che devono tornare sofferenza e studio. Ma almeno – riguardo al rapporto tra democrazia e social – rubrichiamo un fattore magari ambiguo ma non del tutto negativo.
Infine – per battuta – visto che sulla citofonata di Salvini si è giocata la metafora del suo insuccesso elettorale, abbiamo almeno fin qui ottenuto che il citofono non sia da rubricare tra i social media, altrimenti – in caso di successo della Lega – avremmo oggi i citofonisti dilaganti nella comunicazione pubblica in ogni parte d’Italia.
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