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La moda: da stile di vita a pericolo ambientale e sociale

La moda non è più simbolo di eleganza e stile. Ora rappresenta rifiuti, inquinamento, distruzione e povertà. In altre parole, la “moda” è diventata una cosa sporca e i media (principalmente televisione e riviste) hanno contribuito al problema.

É sufficiente leggere alcuni dei tanti libri che sono stati pubblicati recentemente sui vari aspetti dell’industria della moda, come “The Dirty Side of the Garment Industry” (di Nikolay Anguelov), “Over-Dressed” (di Elizabeth L. Cline) sugli alti costi dei prezzi scontati, e “Slave to Fashion” (di Safia Minney).
Questi ed altri libri esaminano l’avidità corporativa, l’abuso dei diritti umani e la siccità causata dalla sovra-coltivazione del cotone. Secondo quanto è stato riferito, il volume idrico necessario per realizzare un paio di jeans e una camicia arriva fino a 20.000 litri. È stato anche rilevato che l’industria della moda consuma più energia rispetto al settore dell’aviazione e del trasporto marittimo messi insieme. E questo senza considerare l’alto livello di inquinamento causato dal poliestere utilizzato per i vestiti e rilasciato nell’ambiente e dagli inceneritori usati per smaltire le tonnellate di indumenti smessi e invenduti.

“The True Cost”, un documentario televisivo del 2015 di Andrew Morgan interpretato da Livia Giuggioli, ha illustrato come, sebbene l’industria dell’abbigliamento sia il secondo più grande inquinatore dopo l’agricoltura, la maggior parte dei consumatori non considera i vestiti una fonte di danno ambientale. Giuggioli, una produttrice italiana e ambientalista è la moglie dell’attore Colin Firth. Giuggioli ha co-fondato Eco-Age, appunto per la sensibilizzazione dell’ambientale e del sociale con sedi sia a Londra che a Milano, ed è la fondatrice di Green Carpet Challenge, un’iniziativa di moda sostenibile da applicare sui red carpets dalle star.

Nemmeno l’Italia è risparmiata in questi libri di denuncia: “l’ambita etichetta ‘Made in Italy’,” inizia così il comunicato stampa del libro “Tight Knit “, “richiama alla mente visioni di sarti italiani dalle dita agili che cuciono amorevolmente abiti eleganti e di fascia alta. Eppure, come scopre l’autrice di Elizabeth L. Krause, gli immigrati cinesi cuciono etichette ‘Made in Italy’ su articoli a basso costo per una fiorente industria italiana della moda.

Krause offre il suo sguardo rivelatore dopo una lunga ricerca realizzata a Prato, il centro storico della produzione tessile nel cuore della Toscana. ‘Tight Knit’ racconta una storia sull’eterogeneità del capitalismo contemporaneo che interesserà chiunque sia curioso di sapere come la globalizzazione stia cambiando le condizioni umane più basilari “.

Mentre gli influencer dei social media, la televisione con i suoi programmi sulla moda e sulle sfilate sul red carpet, e le riviste di moda con centinaia di annunci per vestiti usa e getta, promuovono ciò che ora viene generalmente chiamato in molti titoli di libri, “Fast Fashion”, persone più consapevoli predicano moderazione, conservazione e riciclo.

Una di queste persone è Kate Middleton, la duchessa di Cambridge moglie del Principe William, che notoriamente ricicla i suoi abiti. Sul suo esempio, molte star del cinema e della televisione stanno riciclando gli abiti sfoggiati sul red carpet. L’attrice Cate Blanchett, ad esempio, ha dichiarato di sostenere il Green Carpet Challenge indossando abiti riciclati; Helen Mirren pure sta applicando questa regola, che ha ottenuto anche l’appoggio dell’ex first lady, Michelle Obama.
Se i media sono stati complici in questa emergenza ecologica e sociale della moda, i media possono ora cercare di essere la soluzione.

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Dom Serafini

Domenico (Dom) Serafini, di Giulianova risiede a New York City ed è
il fondatore, editore e direttore del mensile “VideoAge” e del quotidiano fieristico VideoAge Daily", rivolti ai principali mercati televisivi e cinematografici internazionali. Dopo il diploma di perito industriale, a 18 anni va a continuare gli studi negli Usa e, per finanziarsi, dal 1968 al ’78 ha lavorato come freelance per una decina di riviste in Italia e negli Usa; ottenuta la licenza Fcc di operatore radio, lavora come dj per tre stazioni radio e produce programmi televisivi nel Long Island, NY. Nel 1979 viene nominato direttore della rivista “Television/Radio Age International” di New York City e nell’81 fonda il mensile “VideoAge”. Negli anni successivi crea altre riviste in Spagna, Francia e Italia. Dal ’94 e per 10 anni scrive di televisione su “Il Sole 24 Ore”, poi su “Il Corriere Adriatico” e riviste di settore come “Pubblicità Italia”, “Cinema &Video” e “Millecanali”. Attualmente collabora con “Il Messaggero” di Roma, con “L’Italo-Americano” di Los Angeles”, “Il Cittadino Canadese” di Montreal ed é opinionista del quotidiano “AmericaOggi” di New York. Ha pubblicato numerosi volumi principalmente sui temi dei media e delle comunicazioni, tra cui “La Televisione via Internet” nel 1999. Dal 2002 al 2005, è stato consulente del Ministro delle Comunicazioni italiano nel settore audiovisivo e televisivo internazionale.

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