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La rivoluzione delle donne, la più riuscita del ‘900

È stata la rivoluzione più riuscita del novecento. La meno cruenta – anche se oggi c’è ancora chi la paga con la vita. Ancora incompleta, ma capace di cambiare radicalmente il volto dei paesi industrializzati. E’ stata la rivoluzione delle donne. Con le loro lotte, con i loro sacrifici, con i loro silenzi e con le loro urla hanno rivoltato come un guanto la società e il costume patriarcale. E questo, nel giro di – relativamente – pochi anni.

In realtà la lotta per i diritti comincia con la rivoluzione francese. Le donne dell’assemblea costituente chiedono il voto e l’uguaglianza. Non passa. Ma il seme è gettato. Alla fine dell’800 sono le suffragette inglesi, seguite dalle americane, a battersi per il diritto di votare. Non si fermano davanti a niente, né alle botte della polizia, né al carcere, per non parlare del disprezzo e della derisione della cosiddetta società “per bene”.

Emmeline Pankhurst e altre suffragette inglesi in marcia

I primi cambiamenti ci saranno con la Grande Guerra. Con gli uomini al fronte, le donne  sono chiamate a uscire dalla casa dove per secoli erano relegate. Era considerato un fatto talmente normale che in Veneto (ma valeva per il resto dell’Italia e dell’Europa) si diceva:  <che la piasa, che la tasa, che la staga in casa>. Ovvero: la donna deve piacere, tacere e stare in casa. Invece tra il 1914 e il 1918  devono  svolgere i compiti  dei loro mariti o padri. Entrano nelle fabbriche e negli uffici. Finito il conflitto, sarà più difficile pretendere che stiano zitte e buone.

Ma la vera deflagrazione arriva con la conclusione della seconda guerra mondiale. Niente sarà come prima. In meno di  cinquant’anni, in Italia l’altra metà del cielo butta all’aria i  pregiudizi millenari. Protagonista del proprio destino e decisa ad esserlo anche dentro un destino collettivo, come annota Serena Zoli nel suo libro “La generazione fortunata”: in pochissimi anni <il femminismo ha dispiegato con fragore un sogno che ribaltava millenni di tradizione riuscendo a mettere in marcia – nei cortei e nelle singole case – milioni di donne>.

Non è stato facile. In Italia le donne avevano contro la disapprovazione sociale, ma soprattutto la legge. Per esempio, non potevano lavorare senza l’autorizzazione del marito. Nel 1955  una sentenza della corte di Cassazione stabilisce – come racconta Marta Boneschi nel libro “Santa pazienza” – che <non commette abuso di esercizio della potestà matrimoniale [bisognerà aspettare il 1975 per vederla abolita] il marito che nella sua qualità di capofamiglia di cui è responsabile, esige dalla moglie il sacrificio dell’attività professionale da lui giudicato in contrasto con i doveri che le sono imposti dalla società coniugale>.  Per contro, nel 1960 la corte d’Appello di Torino sentenzia che <commette ingiuria grave la moglie che, incurante del ragionevole divieto, continua a svolgere il proprio lavoro>. Il messaggio è chiaro: zitta e a casa; e non stiamo parlando di mille anni fa. Se lavoravi per bisogno, eri vedova, orfana o qualcosa di simile, eri compatita, ma se lo sceglievi perché lo volevi, la disapprovazione sociale era assicurata.

Del resto le donne erano pagate meno degli uomini. Succede anche adesso, ma allora era sancito per legge. I contratti collettivi prevedevano che svolgessero le mansioni più basse, considerate squisitamente “femminili”. Fa da apri strada un accordo sindacale del 1960 che cancella le cosiddette mansioni femminili. Ma i lavori più specializzati e retribuiti restano in mano agli uomini. Tra l’altro, in fabbrica non potevano portare rossetto o rimmel ed erano obbligate alle maniche lunghe: il maschio si eccitava, meglio evitare.

La legge e le sentenze entravano in casa, perfino sotto le lenzuola. Fino alla riforma del diritto di famiglia (1975), la donna ha il dovere alla prestazione sessuale come remedium concupiscentiae  del marito e in nome della continuità della stirpe. Fino al 1968 è punito , anche con la galera, solo l’adulterio femminile, quello maschile no (a meno che il fedigrafo non portasse l’amante a casa). Celebre il caso della compagna di Fausto Coppi, sposata ad un altro uomo, che andò in prigione su denuncia del marito. L’altra faccia era il delitto d’onore. Ovvero quell’articolo del codice penale che mostrava una estrema “comprensione” per l’uomo che uccideva per lavare il proprio onore macchiato da un tradimento. Concetto, quello del tradimento, che si estendeva anche alle sorelle. Ammazzare donna e amante poteva costare solo tre anni di carcere.

E’ stato abolito solo nel 1981 insieme al matrimonio “riparatore”: in caso di stupro, se l’uomo sposava la sua vittima non era punibile. Del resto, la violenza carnale era classificata come delitto contro la morale e non contro la persona. Pena massima, dieci anni, più o meno come un furto aggravato. Si deve arrivare addirittura al 1996 per ottenere che lo stupro diventi delitto contro la persona.

La verginità era il bene supremo delle ragazze e non esserlo poteva costare caro. Come nei casi di  separazione in un matrimonio. Nel 1953 la corte d’appello di Firenze sentenzia che l’aver taciuto prima delle nozze di non essere vergine costituisce colpa grave. Per una ragazza di oggi può sembrare surreale, ma una ragazza “per bene” di allora, non doveva neanche sapere niente di “quelle cose”. Il punto di arrivo – obbligatorio, pena il disdoro sociale – era il matrimonio al quale si doveva giungere illibate e ignoranti. Tanto, ci avrebbe pensato il marito.

Essere mogli irreprensibili e madri. Ma come madre arrangiati. E’ del 71 la prima legge che protegge la maternità: la donna incinta non potrà più essere licenziata a causa della gravidanza e avrà due mesi di riposo prima del parto e tre dopo. E’ sempre del 71 la liberalizzazione della vendita degli anticoncezionali: vengono abrogate norme del 1927 che miravano “alla difesa della razza” e arrivavano a punire col carcere chi pubblicizzava qualsiasi mezzo antifecondativo.

Nel 1970 il parlamento aveva istituito il divorzio, una legge a firma del socialista Fortuna e del repubblicano Baslini. Quattro anni dopo dovrà essere difeso da una durissima e appassionata battaglia per il referendum che lo voleva abrogare, vinto con un inatteso quanto mitico 60 per cento. Il 1974 è uno spartiacque. L’Italia con quel no esce piano piano dal medioevo. Le donne danno prova di esistere in quanto persone, non si sottomettono più alla “autorità maritale” o del parroco. In pochi avevano fiutato questo vento. Fino all’ultimo, per esempio, il Pci fu freddissimo sulla consultazione: aveva paura dell’altra metà del cielo. E non aveva capito niente. Così come i dirigenti maschi del Pci non avevano capito niente del mondo femminile durante la stesura della Costituzione. L’aneddoto è significativo. Nel ’47 si sta discutendo in commissione se inserire l’indissolubilità del matrimonio nel testo della Carta. Lo chiedono i cattolici, mentre la sinistra è contraria, anche se Nilde Iotti – lo racconta sempre Marta Boneschi – è favorevole a fissare il principio in una legge ordinaria. Togliatti si astiene e a Lelio Basso che, sorpreso, gli chiede il perché risponde che ha a cuore il destino delle donne che temono di essere abbandonate dal marito. Nel voto in aula però i comunisti presentano un emendamento per cancellare la parola <indissolubile>. Sempre Lelio Basso chiede spiegazioni al Migliore, il quale risponde che <c’è stata la rivolta delle donne del mio partito>.

Ma anni dopo, al di là di quanto se ne fosse accorta la sinistra, il pianeta rosa esplode. Va in piazza, grida i suoi slogan, rivendica una emancipazione – o liberazione, come propugnavano le più arrabbiate. Organizza sit-in e viaggi clandestini nei paesi dove l’aborto era consentito. Tra l’altro, nel 1973 una coraggiosa radicale, Adele Faccio apre il primo consultorio a Milano. E’ al partito radicale che si deve se nel 1978  il parlamento italiano si decide a  promulgarne, ma di stretta misura, la liberalizzazione dell’interruzione di gravidanza. Prima della legge 194, c’era solo paura e condanne – giudiziarie e sociali. E morte, tante donne morte se non avevano i soldi, tanti,  per i “cucchiai d’oro” (medici che facendosi pagar profumatamente praticavano gli aborti clandestini). Sul Manifesto, Rossana Rossanda scrive: “care donne, senza il movimento femminista, i suoi turbamenti, le sue alte grida, i suoi garofani rosa e le parolacce urlate per la strada, senza il vostro estremismo, il nostro rispettabile parlamento sarebbe ancora fermo dove stava cinque anni fa”.

Si dovrà arrivare al 1981 con un referendum stravinto (68%) per far mettere l’animo in pace ai reazionari e ai timorosi di dio (con il Pci, ancora una volta, timidissimo): la 194 c’era e restava. Certo, ciclicamente c’è chi si sveglia e vuole rivedere la legge sull’aborto, magari abrogarla. Ma finora è stato respinto con perdite.

Abbiamo già accennato alla riforma del diritto di famiglia, nel 75. è solo l’applicazione di un articolo della costituzione (29), ma in realtà, una vera e propria rivoluzione, soprattutto per le donne. La già citata “autorità maritale” viene abolita : la moglie può lavorare senza il consenso del marito; non dovrà più “seguire il marito” come prevedeva il codice fino a quel momento, ma i due potranno decidere insieme dove stabilirsi; la potestà genitoriale della madre è affiancata a quella del padre e questo fa cadere per sempre la millenaria “patria potestà”; non è più obbligata a “soddisfare il debito coniugale”; può affiancare il suo cognome a quello del coniuge; si stabilisce la comunione dei beni dopo le nozze. Insomma, le donne non sono più suddite. E, se si aggiunge che nel 77 viene sancita la parità salariale tra i due sessi (mai completamente attuata, ma oggi non è più una cosa accettata, anzi), scusate se è poco.

Per onestà bisogna dire che a fianco della galassia rosa ci sono stati (chi più, chi meno, a momenti alterni) sinistra e sindacati e anche i cattolici più avveduti. Ma il motore vero, sono state le donne. E della loro determinazione ha giovato l’intera società. I ventenni di quaranta/cinquanta anni fa, nonostante tutto, hanno consegnato ai ventenni degli anni 2000 un paese migliore, più aperto, più libero. Chi pensa di rimettere in discussione il divorzio? O la potestà genitoriale del padre e della madre insieme? La pillola anticoncezionale si compra tranquillamente in farmacia, senza che questo susciti stupore, tanto meno scandalo. Del divorzio si sono avvalsi anche gli uomini e con la parità salariale entrano più soldi in una famiglia.

Adriano Celentano oggi non potrebbe più cantare, come faceva nel 1964 “il problema più importante per noi è trovare una ragazza di sera” perché oggi le ragazze, di sera, escono da sole. E se vedi un tavolo con due o tre donne senza un uomo, non è una tavolo di sfigate, ma di donne che hanno scelto di stare insieme alle loro amiche.

Ecco, la scelta. La possibilità di scegliere, la libertà di scegliere. Questa è stata la vera rivoluzione. Per tutti.

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Stefania Conti

Giornalista. Nata a Roma e laureata in sociologia, ha lavorato presso (in ordine cronologico): Adnkronos, Il Messaggero, Tg2.

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