Categorie: Idea-Azione

Lavoro Implicito: estrarre valore dai comportamenti sociali

Due dati dell’economia digitale dovrebbero interessare i politici e gli economisti ancora convinti che la “mano invisibile” sistemerà, anche stavolta, ogni cosa. Semmai fosse stato così, anche in passato, dall’avvento del capitalismo non avremmo avuto più guerre, crisi economiche, carestie, disoccupazione, consumo della terra e delle sue materie prime ad un punto di non ritorno, estinzione delle specie viventi che non siano trasformate in merci industriali.

Ma stavolta il quadro ha, addirittura, una discontinuità nuova. Dall’avvento del sistema di produzione affidato alle macchine, infatti, si discute della distruzione di lavoro per colpa dell’immissione di tecnologie. Nell’Ottocento nacque addirittura un movimento che distruggeva le macchine che “toglievano il lavoro”. Eravamo, però, ai primordi del mercato capitalistico e la possibilità di trasformare cose della vita in merci era ancora enorme. Tutto veniva inglobato in un meccanismo che trasformava ciò che toccava in merce acquistabile tramite denaro. Il numero dei beni “necessari” a vivere esplodeva, mentre questi beni si trasformavano in oggetti producibili in maniera industriale, cioè in merci. Ogni volta che un bene, vecchio o nuovo, incontrava una modalità di produzione più “tecnologica”, espelleva lavoratori che trovavano posto in nuovi settori industriali che producevano nuove tipologie di merci. Ben presto, dalle merci si passò ai servizi e questo diede un ulteriore spazio per creare “occupazione” salariata, utile ad acquistare proprio quell’ondata di merci prodotta dal sistema industriale.

Sull’onda di questa “esperienza” il movimento contro le “macchine” svanì e gli economisti coniarono il termine “ricorsività tecnologica” secondo cui “ad ogni posto di lavoro eliminato dalla introduzione della tecnologia faceva seguito la produzione di due posti di lavoro nel settore produttivo che doveva produrre quella tecnologia”. Per alcuni decenni sembrò che il sistema non avrebbe avuto fine, che lo sviluppo dell’economia sarebbe arrivato al punto di trasformare tutto il mondo in una montagna di merci da acquistare e il lavoro (salariato) sarebbe divenuto il centro esclusivo della attività umana.

Poi arrivò il digitale

Per alcuni anni, gli anni che io definisco del taylorismo digitale (cfr. E-work. Rete, lavoro, innovazione. Derive e Approdi, 2005) il sistema apparve non essere scosso dall’introduzione delle “macchine a controllo numerico”. Anzi. Il salto dal sistema macchinico “meccanico” all’introduzione del sistema macchinico “digitale” fece esplodere l’occupazione in settori prima di allora inesistenti. Gli economisti furono confortati dalla tendenza che confermava la regola che avevano estratto dall’esperienza del periodo di sviluppo meccanico. Purtroppo, gli economisti sono quegli “scienziati” che spiegano ex-post ciò che è accaduto e quasi mai sono in grado di avere una capacità previsionale di un “sistema complesso” come l’attività umana. Basterebbe fare l’esempio della crisi del 2008. Alla soglia della crisi del 2008, Alan Greenspan, al tempo governatore della Fed, ammise che non era assolutamente in grado di prevedere la crisi o di comprenderne le ragioni. Sono in genere affezionati alle “quantità” e non alle “qualità” (che casomai trattano come “quantità”). Questa loro “qualità” impedisce spesso di comprendere la natura dei cambiamenti profondi, quelli di fase, quelli caratteristici della Transizione, cioè di quei periodi storici che portano da una “formazione economico-sociale” ad un’altra.

Pensate al dibattito, nell’Ottocento, tra i nuovi filosofi-economisti che intravvedevano la novità della produzione industriale e provavano a costruire teorie interpretative (Marx sopra tutti) e l’establishment accademico che era legato ancora alle teorie economiche della fisiocrazia. Trovate analogie con il mondo contemporaneo?

Io ne trovo moltissime. Come allora, infatti, il mondo accademico è ancorato alle “leggi” del passato perché non comprende la natura delle nuove acquisizioni scientifiche (allora era la potenza del vapore…). Non comprende la “qualità” intrinseca del nuovo che avanza e tratta queste novità “in continuità” con le leggi e le prassi del passato. Non si è compreso il salto: il passaggio dalle tecniche meccaniche alle tecniche digitali comporta il passaggio da una tecnica che moltiplica il fare della mano ad una tecnica che moltiplica la possibilità del cervello.

Questa incapacità è il cuore della crisi che stiamo attraversando. Durante una Transizione, infatti, muoiono le vecchie forme e ne nascono di nuovo. Ma non è un cambiamento indolore. Prefigura passaggi epocali, rotture sociali e nel sistema della conoscenza, cambiamenti nelle forme delle istituzioni, delle leggi, dei soggetti che muovono le fila dei processi economici. E il nostro Establishment non è preparato.

Nel World Trade Report 2018, Patrik Tingvall, capo economista del National Board of Trade svedese, segnala quanto il WTO non sia preparato a regolare le implicazioni delle stampanti 3D: un aumento dei flussi internazionali di capitali e dati (cioè sapere, informazioni e proprietà intellettuale) con una territorializzazione dei processi di produzione, quindi con una minore circolazione di beni intermedi, la cui combinazione fornisce una delle cause della tendenziale diminuzione del commercio mondiale indicata dai dati forniti da Mark Carney, governatore della Banca d’Inghilterra.

Tanto per fare un esempio vediamo due tendenze già consolidate del modello digitale: la riduzione del numero di aziende che offrono dei servizi e la riduzione dell’occupazione in queste aziende.

Nell’era industriale meccanica ogni nascita di un nuovo settore (la trasformazione di un bisogno in merce o la creazione di una nuova merce prima inesistente) generava una valanga di imprese, spesso in concorrenza. La tendenza a concentrarsi in una unica azienda in grado di fornire quel bene era affrontabile con facilità attraverso leggi antimonopolistiche. Questa caratteristica del sistema favoriva lo sviluppo dell’occupazione e un numero sufficientemente grande di imprese che si dividevano il “controllo” sociale che derivava dalla produzione di quello specifico bene. La crisi di una azienda non determinava il collasso della fornitura di quel bene alla società.

Il mondo digitale è totalmente diverso

Un po’ per scelta del governo USA che ha deciso di far sviluppare in maniera incontrollata dei colossi planetari (pensando di estendere attraverso di essi un controllo sociale e politico all’intero mondo) e un po’ per le caratteristiche “relazionali” del modello produttivo del digitale. Se decido di aderire ad una piattaforma per incontrare delle persone, proverò ad aderire alla piattaforma dove sono iscritte il maggior numero di individui, aumentando la possibilità di soddisfazione del mio bisogno. Questa tendenza porta alla riduzione “spontanea” del numero di piattaforme relazionali che si sostengono economicamente. Inoltre, proprio la mancanza di normative antitrust nel settore digitale, che proprio per queste sue condizioni intrinseche è globale, ogni iniziativa alternativa alle piattaforme esistenti che raggiunge un certo successo viene acquisita dai soggetti dominanti il mercato. La cosa è talmente radicata al punto che l’obiettivo del 99% di chi sviluppa innovazione nel settore digitale dice, apertamente, che il suo obiettivo è solo farsi acquisire da una delle 5/10 società che controllano il mercato digitale.

In altre parole, lo sviluppo del digitale, allo stato dell’arte, è lo sviluppo più concentrato che l’umanità abbia mai conosciuto.

I “numeri” del digitale

In teoria, però, anche poche aziende potrebbero offrire una enormità di posti di lavoro. Dal punto di vista dell’occupazione la cosa potrebbe non avere conseguenze “sistemiche”. Osserviamo, però, le tendenze che sfuggono alla politica e agli economisti. Una delle aziende “tradizionali” più grandi del pianeta, probabilmente l’ultimo colosso dell’era industriale è la Walmart. L’azienda nasce nel 1962 proprio nella fase matura dell’era industriale meccanica. Nel 2017 il suo valore di mercato era di 287,6 Miliardi di Dollari. Sviluppa tale montagna di soldi facendo lavorare, nel mondo, circa 2,3 milioni di persone. Una delle prime industrie digitali, la Apple, nasce nel 1976. È una azienda ancora fortemente ancorata al concetto di “merce”. Certamente, una merce particolare, sofisticata e digitale. Uno status symbol, come direbbero i colti. Nel 2017 sviluppava un valore di 791,7 Miliardi di Dollari con circa 123.000 dipendenti e con un enorme indotto dislocato in molti paesi del mondo. Google nasce nel 1998. È la prima vera azienda dell’era digitale. Il suo core business non è più in una merce, ma in un servizio relazionale. Nel 2017 sviluppava un mercato di 664,5 Miliardi di Dollari con circa 78.801 dipendenti. Facebook vede la luce meno di un decennio dopo, nel 2004. È la prima azienda di successo del web 2.0 e inaugura, di fatto, una nuova stagione del digitale. Nel 2017 sviluppa 399 Miliardi di Dollari, ma lo fa con 20.657 dipendenti nel mondo. Pensate che la filiale italiana conta meno di 30 persone. Uber nasce nel 2009. Nel 2017 è la più grande azienda di trasporti del mondo e non possiede neanche un mezzo di trasporto. In quell’anno fattura 69 Miliardi di Dollari e da lavoro a 1.500 persone. Anche Whatsapp nasce nel 2009 ma il suo core business è totalmente digital-relazionale e si basa sulla creazione e commercializzazione di dati. Rappresenta, probabilmente, il modello di assestamento della nuova produzione di valore della nuova fase storica. Nel 2014, anno della acquisizione da parte di Facebook, il suo business raggiunge i 19 Miliardi di Dollari. Sapete quanto personale aveva Whatsapp in quel momento? Tenetevi forte: 55 persone.

Potremmo anche calcolare quanto valore produca, per la singola azienda, il lavoro individuale. Per la Wall-Mart il singolo lavoratore produce 124.000 dollari. Per Apple sono 6,4 milioni di dollari. Google si assesta a 8,5 milioni mentre Facebook raggiunge i 19,5 milioni per occupato. Uber raggiunge i 46 milioni e Whatsapp ben 345 milioni a dipendente.

Questi numeri dimostrano che il valore prodotto dal tempo di lavoro di ogni singolo lavoratore dipenda da altri fattori che non sono riconducibili nella semplice potenza del sistema macchinico utilizzato. A mio avviso, come già teorizzavo nel mio E-Work, l’avvento del cosiddetto Lavoro Implicito, modifica la forma di produzione del valore e consente alle piattaforme di estrarre valore dai comportamenti sociali. Se dovessimo fare un calcolo basandoci su tale base di lavoro implicito, ci accorgeremmo che i miliardi di individui che lavorano gratuitamente per le piattaforme social rappresentano il cuore del “nuovo sfruttamento digitale” di cui molti non solo non sono coscienti, ma che rinnegano con l’idea di ricevere dalla piattaforma stessa un servizio “gratuito”. D’altronde, svariate decine di anni di offuscamento sul concetto di bisogno e di consumo, da parte dell’industria di senso, hanno resa miope una parte consistente della popolazione mondiale.

Quello che non viene preso in considerazione, inoltre,  è il quadro esponenziale che caratterizza la dinamica economica dell’era digitale. I suoi impatti vengono ignorati, trascurati, affrontati con le vecchie logiche. Il nostro establishment, arroccato sulle sue vecchie conoscenze, guarda al mondo in divenire vorticoso un po’ come guardavano le fabbriche i fisiocrati nell’Ottocento.  

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Sergio Bellucci

Sergio Bellucci, giornalista e scrittore, dirigente politico e manager, ha scritto numerosi editoriali, articoli e saggi sui temi della comunicazione e della società dell'informazione. Membro del Comitato d'Onore dell'Osservatorio Internazionale sull'Audiovisivo e la Multimedialità (OIAM) della Fondazione Roberto Rossellini per l'Audiovisivo. È stato dipendente del gruppo Fininvest dal 1978 e fino al 1993, durante tale periodo ha svolto anche attività sindacale nella CGIL come membro della Segreteria Nazionale della FILIS. Dal 1995 al 2006 è stato responsabile nazionale della Comunicazione per il Partito della Rifondazione Comunista. Dal febbraio del 2013 è direttore del quotidiano Terra e nel 2014 è diventato Presidente della Free Hardware Foundation Nel libro E-work. Lavoro, rete e innovazione analizza l'impatto delle nuove tecnologie digitali sulla vita umana con una particolare attenzione al mondo del lavoro. Secondo le sue analisi, l'avvento del digitale comporterebbe una "nuova organizzazione scientifica del lavoro", definita "taylorismo digitale", attraverso un impiego distorto della rete. Nelle tesi di E-work si prospetta la nascita del "lavoro implicito", il lavoro effettuato obbligatoriamente, senza nessuna retribuzione e attraverso strumentazione a carico del lavoratore, che le piattaforme digitali stanno espandendo nel loro ciclo produttivo. Insieme a Marcello Cini ha scritto “Lo spettro del capitale. Per una critica dell'economia della conoscenza” analisi del cambiamento epocale del capitalismo avvenuto negli ultimi venti anni: il passaggio da un'economia materiale ad un'economia immateriale, che produce un bene intangibile e non mercificabile: la conoscenza.

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