Il Coronavirus ha aperto a tutti il diritto, anzi il dovere di parlare, ammonire, guidare, interpretare, prevedere, consigliare, proporre, riproporre, discutere, vedere, rivedere e quant’altro si possa fare con l’uso della parola. “Parlare sempre, parlare tutti”, insomma (“parlare poco” è doveroso, ma facoltativo). E, a noi, l’annesso dovere di ascoltare; e quello, assai più difficile, di capire chi abbia ragione e chi torto.
Un tempo, a facilitarci il compito, c’era il “personale autorizzato”. Leggi, i partiti. A essi, e in particolare ai partiti di sinistra, di spiegarci non solo gli arcani della politica ma anche l’ovvio legame che esisteva tra il generale – la “situazione politica” – ed il particolare – “i problemi della segnaletica” (l’argomento di un dibattito in una sezione romana negli cinquanta). Compito tanto più importante oggi in cui saper guardare al futuro è condizione essenziale per gestire il presente; in un “durante” che sarà assai lungo e che, abbandonato al gioco delle forze in campo, può portarci verso esiti disastrosi.
Ora in questo “durante”, tra le tante parole di sinistra che sentiamo (e spesso anche autorevoli per ciò che sono e rappresentano) mancano totalmente quelle dei suoi rappresentanti ufficiali, individuali e collettivi. E non solo in Italia, ma in tutta Europa. Un silenzio generale e generalizzato, solcato da dichiarazioni senza peso, tanto da cadere per terra, prima ancora d’arrivarci all’orecchio.
E non si tratta di un mancamento passeggero, dovuto a ragioni contingenti. Ma della fine di un periodo durato più di un secolo: quello del partito come intellettuale collettivo e, perciò stesso, strumento necessario, per non dire unico, e dell’esercizio della democrazia e del processo di emancipazione del mondo del lavoro.
Certo, i partiti rimarranno. Ma la loro missione sarà, a questo punto, limitata alla conquista e all’esercizio del potere. Un’arte in cui l’intelligenza delle cose e magari il rispetto per le persone sono un’optional; e magari anche un ostacolo.
Forse non lo sapete; ma da qualche tempo Trump è indietro nei sondaggi. E sta chiaramente sbandando. Alle radici della sua crisi, due scelte di fondo. Quella iniziale, la sottovalutazione del pericolo, gli sarebbe stata forse perdonata, perché compiuta da molti altri, se non avesse fatto l’errore di porla di nuovo nel mirino, con la sua campagna contro il “virus cinese” (i cinesi sapevano ma avevano reagito con ritardo perciò dovevano essere processati. Ma il Nostro non si era comportato diversamente; aggiungendo il fatto che, secondo molti esperti, anche americani, il virus era stato importato in America dall’Europa prima dell’arrivo di quello di Wuhan). La seconda, no. E vediamo perché.
Stiamo parlando dell’equilibrio sempre difficile tra strategie tendenti alla salvaguardia dell’economia e strategie volte alla salvaguardia della salute delle persone. Dove l’errore di Trump non è stato soltanto quello di concentrarsi sulla prima, ignorando la seconda. Ma di teorizzare apertamente questa scelta; al punto di mobilitare le componenti più estreme della sua maggioranza per difenderla, anzi per imporla.
L’idea di fondo era che gli americani fossero geneticamente predisposti a mettere le ragioni del business e delle prospettive che offriva a tutti al di sopra di tutto il resto; tanto più in un contesto in cui gli stavano entrando in tasca (anche se non sono ancora arrivati a destinazione) fantastiliardi di dollari e in cui l’alternativa era tra difendere milioni di posti di lavoro o mantenere in vita diecine di migliaia di persone.
E invece, no. E invece più del 70% degli americani ritiene che la pandemia sia un pericolo maggiore della perdita del posto di lavoro; e quindi che lottare contro di essa sia prioritario.
E qui, fatte tutte le possibili tare (compresi i vincoli del politicamente corretto), alla base di questa risposta rimane, forte, l’idea della sacralità della vita; e la connessa, implicita convinzione che questa non possa essere sacrificata in nome dei diritti della maggioranze o, peggio ancora, dei superiori interessi della nazione.
Se questa vicenda ha una morale, se ogni vicenda deve avere una morale, non c’è altra morale possibile.
Un punto su cui Trump e gli ultras del suo partito insistono molto è che negli stati e nei grandi comuni governati dai democratici (detti “aree blu”) si muore molto di più che nelle “aree rosse” (leggi nell’America profonda guidata dal Gop). E’ un attacco politico, ma senza prove a carico e men che meno accuse di negligenza. Rimane allora l’evidenza dei fatti; perché a morire sono, indiscutibilmente, i potenziali sostenitori di Biden, leggi i neri (a Chicago 5 volte più dei bianchi), quelli con malattie pregresse (dovute, in particolare, al fumo o all’obesità) o in zone inquinate, i lavoratori disoccupati o a basso reddito, i disoccupati senza assicurazione, quelli dei quartieri poveri che non possono fruire di strutture pubbliche adeguate. La cosa, almeno per ora, non sembra preoccupare affatto gli elettori di Trump; anzi li motiva ancor di più nel chiedere la fine del lockdown.
E qui vale il proverbio che abbiamo richiamato poc’anzi. Almeno fino alle prossime elezioni.
Dopo varrà, speriamo, il “ride bene chi ride per ultimo”.
Bolsonaro, attuale presidente del Brasile (ma per quanto tempo ancora?) ammira Trump in modo tanto sviscerato da volerlo superare in tutto e per tutto. The Donald ha un genero stupido e impiccione; lui allinea ai nastri di partenza suo figlio. Lui elimina le leggi sulla conservazione dell’ambiente; lui procede direttamente a distruggere l’Amazzonia. Il Maestro incita i suoi allievi locali ad attaccare le sedi dei governatori democratici che praticano il lockdown; il Discepolo va direttamente all’attacco del Parlamento. Lassù si preme perché si torni al lavoro; quaggiù si attacca come codardo chi non esce da casa. E, infine, Trump ha licenziato quasi tutti i suoi collaboratori ma nell’arco di tre anni; mentre Bolsonaro, dopo averne perso diversi nell’anno scorso, ha liquidato in un colpo solo il capo della polizia e, soprattutto, l’artefice della sua vittoria, il ministro della giustizia Sergio Moro.
Quel Moro che, da oscuro giudice di provincia, aveva saputo incanalare, con tutte le possibili manipolazioni, l’operazione Mani pulite verso l’obbiettivo prescelto: gli esponenti del Partito dei Lavoratori e, in particolare, Lula. Aprendo così la strada al suo, altrettanto oscuro, beneficiario, Bolsonaro; per esserne opportunamente ricompensato con un ruolo di punta nella nuova amministrazione.
Però, ancora una volta, il sullodato Bolsonaro ha esagerato, pretendendo che il capo della Polizia lo tenesse giornalmente informato sulle indagini in corso (e magari, chissà, su quelle che potevano toccarlo). Una chiara violazione delle regole; cui il capo della Polizia ha reagito, offrendo le sue dimissioni, prontamente accettate. A quel punto il ministro della giustizia non ci ha visto più e ha dato anche le sue, accompagnate da una vibrata protesta in cui, udite udite, ha detto “la Rousseff e Lula, quelli sì erano rispettosi delle regole; e non si sarebbero mai sognati di fare una cosa del genere”:
Un pentimento ben accetto. In attesa di ulteriori sviluppi.
Il presidente Macron, in una riunione con il presidente del consiglio Philippe, intende riaprire le scuole al più presto. E questo perché: “non si possono approfondire le disuguaglianze che già esistono tra gli allievi”; e perché “la chiusura sta recando danni irreparabili ai bambini meno fortunati”.
C’è qualcuno, nel nostro governo, che sappia il francese?
Come si sa, nel caso dei morti da coronavirus, si danno continuamente (i) numeri. E si ha la netta sensazione, confermata dalla costante polemica sulla questione animata da scienziati, opinionisti e rappresentanti delle istituzioni, che i numeri ufficiali pecchino, e in modo consistente, per difetto.
Una delle ragioni addotte per questa disparità sarebbe, dico sarebbe, il mancato conteggio dei morti all’interno della propria casa; e soprattutto di quelli morti negli ospizi, pardon, delle case di riposo. Aggiungendo che, almeno in Europa, questi rappresenterebbero, dico rappresenterebbero, poco meno della metà dei decessi.
A questo punto, si potrebbero, dico si potrebbero, azzardare due commenti. Il primo ha a che fare con il regime di clausura cui noi vecchietti siamo sottoposti, s’intende per il nostro bene; e da cui, secondo i benintenzionati del nostro paese, potremmo uscire ma a scaglioni e magari nell’arco di un anno, con mascherina e magari con accompagnatore certificato. E qui potevamo sostenere, già da prima, che questo regime, arreca danni psicologici e comportamentali gravi; e tali da rendere più difficile, ogni giorno che passa, il nostro reinserimento nella vita collettiva. Mentre, da oggi in poi, non siamo più tanto sicuri che la cosa giovi alla nostra salute.
Che poi oggi, e solo oggi, si scopra che forse, dico forse, la metà dei morti europei si sia registrata in comunità chiuse di anziani, variamente denominate, può, forse, significare una cosa sola: che della vita di persone inutili per definizione importi assai poco, per non dire nulla; così, come, ancor più della loro morte.
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