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L’era delle censure

L’allora presidente degli Stati Uniti, Ronald Reagan era solito raccontare spesso la barzelletta di un americano che si vantava con un russo sul fatto che poteva far visita alla Casa Bianca, e battendo i pugni sulla sua scrivania, dire: “Presidente, non mi piace il modo in cui lei gestisce il nostro paese”. Allorché il russo risponde che anche in Russia si poteva andare al Cremlino e dire a Mikhail Gorbachev: “Signor Presidente, non mi piace il modo in cui Reagan gestisce il suo paese”.

L’essenza della battuta è che in Russia – allora come adesso – non c’è libertà di espressione e democrazia.

In effetti, sia agli americani che agli europei piace pensare di vivere in paesi in cui si rispettano la libertà di stampa e di espressione. Al contrario, russi, cinesi e iraniani, solo per citarne alcuni, vivono sotto dittatura, cioé stati autoritari, senza libertà di stampa o di espressione.

Mentre negli stati democratici si pensa di godere della libertà di stampa, negli stati autoritari si sa che i media sono controllati, e quindi chi puó, tende a seguire i media importati (per lo più illegalmente) dagli stati democratici, credendo che quest’ultimi siano imparziali ed oggettivi. Almeno fino ad alcuni anni fa. Oggi negli stati autoritari si comincia a sospettare che anche la cosiddetta stampa libera sia di parte, con notizie false, censurate e piene di propaganda (leggi pubblicità), che arrivano a determinare i risultati di elezioni ed i programmi politici.

Cercando di esaminare in modo imparziale varie forme di censura, possiamo identificarne cinque ampiamente utilizzate: quella di stato, la censura corporativa, la censura sociale, le leggi sulla privacy e le leggi sulla diffamazione.

La censura di stato è ciò che viene praticato in paesi come Russia, Cina, Iran, Corea del Nord ed altri stati autoritari, dove questa assume forme diverse, come la proprietà diretta e indiretta dei media e varie strategie, come la soppressione delle notizie o il condizionamento delle stesse. Queste pratiche si estendono anche ad opere cinematografiche, televisive, teatrali e persino ai messaggi sui cellulari o via Internet. In Cina, ad esempio, un dipartimento del Partito Comunista cinese (uno dei molteplici organi di censura del paese) impiega due milioni di persone per monitorare e censurare vari contenuti mediatici.

Nelle democrazie invece la censura assume forme diverse, ma a tutti i livelli inizia con l’autocensura ed i filtri politici, tenendo presente che per definizione un direttore editoriale non può essere imparziale.

Poi c’è la cosiddetta “censura corporativa”, in cui i proprietari dei media controllano e condizionano le notizie scegliendo chi le riferisce, stabilendo una linea editoriale (ad esempio, progressista o conservatrice) e limitando o favorendo l’accesso a coloro che riflettono i loro “valori.” La censura corporativa tende a prendere le posizioni dei governi in carica, soprattutto per quanto riguarda la politica estera. Gli esempi più recenti provengono dalla guerra in Iraq, dalla guerra in Siria e dai pregiudizi verso stati autoritari. La censura corporativa è un argomento ampiamente discusso nel mondo accademico ed illustrato in molti libri (per citarne uno: “United States of Banana” della studiosa portoricana Giannina Brasch). Inoltre, negli Stati Uniti, il Primo Emendamento protegge dalla censura governativa, ma non da quella corporativa o dall’incitamento all’odio.

La censura sociale sta ora emergendo nelle democrazie consolidate, e viene fatta rispettare da ció che viene sarcasticamente definita la “Political Correct Police Force” (la forza di polizia del Political Correct) e integrata con i sostenitori della “Cancel Culture”. Questi influenti gruppi progressisti hanno il potere di far licenziare le persone, mettere in imbarazzo gli individui non conformisti e screditare coloro che si discostano dalla scuola del pensiero unico.

Inoltre, in paesi come l’Italia, ad esempio, la censura è ampiamente applicata minacciando cause per diffamazione, che potrebbero minare la sopravvivenza di piccole pubblicazioni. L’Italia è anche unica perché la maggior parte dei giornalisti professionisti sono tesserati a livello statale. Inoltre in Italia la diffamazione è un reato penale, mentre negli Stati Uniti è materia di diritto civile.

In Cina, la diffamazione viene utilizzata per perseguire dissidenti che hanno “calunniato il popolo cinese”, esprimendo opinioni non conformi ai mandati del governo.

Da ricordare inoltre che le democrazie, specialmente quelle dell’Europa occidentale, hanno leggi rigorose sulla privacy, che peró tendono a proteggere i ricchi e i potenti, che hanno molto da nascondere al pubblico.

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Dom Serafini

Domenico (Dom) Serafini, di Giulianova risiede a New York City ed è
il fondatore, editore e direttore del mensile “VideoAge” e del quotidiano fieristico VideoAge Daily", rivolti ai principali mercati televisivi e cinematografici internazionali. Dopo il diploma di perito industriale, a 18 anni va a continuare gli studi negli Usa e, per finanziarsi, dal 1968 al ’78 ha lavorato come freelance per una decina di riviste in Italia e negli Usa; ottenuta la licenza Fcc di operatore radio, lavora come dj per tre stazioni radio e produce programmi televisivi nel Long Island, NY. Nel 1979 viene nominato direttore della rivista “Television/Radio Age International” di New York City e nell’81 fonda il mensile “VideoAge”. Negli anni successivi crea altre riviste in Spagna, Francia e Italia. Dal ’94 e per 10 anni scrive di televisione su “Il Sole 24 Ore”, poi su “Il Corriere Adriatico” e riviste di settore come “Pubblicità Italia”, “Cinema &Video” e “Millecanali”. Attualmente collabora con “Il Messaggero” di Roma, con “L’Italo-Americano” di Los Angeles”, “Il Cittadino Canadese” di Montreal ed é opinionista del quotidiano “AmericaOggi” di New York. Ha pubblicato numerosi volumi principalmente sui temi dei media e delle comunicazioni, tra cui “La Televisione via Internet” nel 1999. Dal 2002 al 2005, è stato consulente del Ministro delle Comunicazioni italiano nel settore audiovisivo e televisivo internazionale.

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