Correva l’anno 1986. Eletto deputato nella circoscrizione di Roma mi feci promotore di una mozione parlamentare per Roma Capitale che fu approvata in aula da tutti i gruppi salvo Rifondazione Comunista. Un anno dopo presentai una proposta di legge per il finanziamento delle opere per la funzione di Capitale e nel corso del dibattito in occasione dell’esame della legge finanziaria in commissione bilancio presentai un emendamento per costituire un fondo di 600 milioni.
“Non ci sono cittadini di serie A e cittadini di serie B” oppure “cosa dico ai cittadini della mia città, qual è la ragione di un simile privilegio per la città di Roma”. Una frase è dell’on.le Matteo Salvini, l’altra è dell’on.le Giovanni Goria. La storia si ripete monotonamente. Sono148 anni che Roma è Capitale d’Italia: il 3 febbraio 1871 venne promulgata da Vittorio Emanuele II. “A Roma noi saremo di fronte all’ignoto e l’ignoto è un pericolo non lieve”, la discussione in Parlamento fu assai vivace “trasportare la sede del Governo…è un errore che può costare molto all’Italia” e quando la decisione apparve ineludibile ci fu chi disse “di trasferire nella nuova capitale il meno possibile di affari”. Cavour sosteneva che Roma poteva rappresentare il segno della unificazione nazionale mentre la sinistra storica vedeva in questo trasferimento la vittoria dello Stato laico su quello pontificio.
Una capitale nata senza un progetto, in un conflitto profondo, nel disinteresse degli italiani: una sorta di pianeta sconosciuto dove abitavano gli alieni.
Roma si trascina ancora oggi irrisolti i problemi sorti almeno un secolo e mezzo fa quando divenne capitale di quel regno d’Italia che era sorto solo nove anni prima. Il trasferimento della capitale da Firenze, com’era già accaduto in occasione di quello da Torino, avvenne tra molti dubbi e contrasti: alla fine la decisione fu presa ma ad essa non corrispose una reale volontà politica di dare al nuovo Stato una capitale adeguata. La Roma dei Papi era una città ricca di memorie storiche ma con pochi edifici adeguati alle nuove funzioni che venivano assegnate alla città: era necessario costruire opere pubbliche, uffici per l’amministrazione statale, sistemare strade e bonificare rovine. Il governo italiano si dimostrò subito poco propenso a spendere quattrini per questi obiettivi: le prime leggi che si occuparono della questione stabilirono solo che allo Stato avrebbe fatto carico una parte degli interessi da corrispondere sui mutui che il Comune di Roma era autorizzato a contrarre per la realizzazione delle opere e degli edifici pubblici. Si iniziò con la legge 14 maggio1881 n. 209, alla quale seguirono negli anni successivi altre leggi analoghe fino ad accorgersi, intorno agli anni 90, che il sistema non funzionava: il Comune non poteva da solo far fronte agli oneri finanziari che la funzione di capitale comportava. Iniziò il balletto degli equivoci: quello di Roma, secondo i governi dell’epoca, era un comune come tutti gli altri, soggetto alle stesse norme della legge comunale e provinciale valevole per tutti gli altri comuni d’Italia, salvo alcune competenze assunte direttamente dallo Stato ed assolte dai suoi organi come, tanto per fare un solo esempio, l’ufficio speciale per il Tevere del Ministero dei lavori pubblici. Era una situazione assurda che nessuno sembrò veramente interessato a modificare fino a sancire con le leggi n. 299 del 1892, n. 458 del 1893 e n.509 1898 il ripianamento del deficit comunale.
La legge 28 ottobre 1925 n.1949, istitutiva del governatorato di Roma, tentò di percorrere una strada diversa demandando ad una particolare amministrazione statale (il governatorato) i poteri amministrativi precedentemente esercitati dal Comune, fondendo insieme funzioni statali e funzioni comunali nel territorio della capitale. Nel 1944, con il decreto legislativo luogotenenziale numero 426, il governatorato fu soppresso e Roma tornò ad avere una situazione amministrativa e finanziaria analoga a quella di tutti gli altri comuni italiani. Fu quasi naturale che riprendesse la emanazione di leggi con particolari stanziamenti per ripianare il bilancio della capitale. Prima con una commissione paritetica Stato-Comune nominata da de Gasperi (1949) e poi con una nel 1953 presieduta da Aldo Moro si tentò di superare l’ostacolo con una nuova normativa ma senza alcun risultato: il disegno di legge presentato al Senato (atti parlamentari, II legislatura, Senato, numero 1296, 1760A) decadde con la fine della legislatura. Nel 1987 una proposta di legge (atti parlamentari, IX legislatura, camera dei deputati, numero 34 33) presentata da un gruppo di deputati del Partito Socialista propose la costituzione di una Agenzia per il coordinamento e la programmazione degli interventi assistita da adeguati finanziamenti che avrebbe realizzato una sintesi sul territorio delle iniziative comunali e statali e fu un fiorire di proposte: ogni gruppo parlamentare presentò la sua ma tutte decaddero con la fine della legislatura.
Con la fine della IX legislatura si chiude per sempre il dibattito in Parlamento sui progetti di legge presentati, cosa che portò ad un sostanziale immobilismo politico e culturale quasi nella fatalistica convinzione che non era possibile, nella contrapposizione delle forze, procedere oltre e che occorreva rassegnarsi all’ordinaria amministrazione e alla pratica dei decreti legge di carattere provvisorio per le necessità più urgenti. Ma al di là fatalistici atteggiamenti, vi furono anche ben più meditate strategie tese al mantenimento di un potere politico locale, clientelare, di basso livello, condannato per forza di cose a cessare con lo spostamento al centro dei poteri decisionali: sarebbe stata la definitiva condanna di conventicole, sottogruppi, che operavano in realtà in base a schemi feudali di potere ed altrettanto feudali sistemi di ripartizione delle spoglie di guerra. Si aggiunse poi il vociare scomposto e volgare del nascente leghismo del Nord contro la Capitale in senso moderno, contro la città di Roma, divenuta simbolo di malaffare e corruzione.
Negli anni successivi continuò la erogazione di danaro per ripianare deficit comunale e provvedere a puntuali esigenze che sarebbero rimaste senza risposta fino a quando nel 2009 l’articolo 21 della legge n. 42 (in attuazione del nuovo articolo 114 della Costituzione, che dopo la riforma costituzionale del 2001 aveva stabilito che una legge dello Stato avrebbe fissato l’ordinamento di Roma capitale della Repubblica) introdusse alcuni principi relativi alla amministrazione della città specificati poi da provvedimenti legislativi successivi. Fu l’inizio di una grande delusione per chi credeva che le cose fossero veramente cambiate per Roma, divenuta (ed è strano a dirlo) Capitale d’Italia anche in Costituzione, segno evidente che fino a quel momento tale non era stata considerata dal legislatore. Al Comune di Roma furono trasferite competenze fino a quel momento statali aventi carattere marginale, eludendo così, se non la lettera, certamente lo spirito della norma costituzionale.
Roma oggi è città metropolitana sullo stesso piano delle altre 11: basta tener presente che la legge n.216 del 2010 non fa alcuna differenza tra la città metropolitana Roma e le altre città metropolitane a proposito dei criteri per la individuazione degli standard finanziari.
Se per grandi linee ripercorriamo la storia di Roma cosa rimane oggi? L’incredibile e bellissimo impianto della Roma dell’Impero Romano, lo straordinario disegno di Papa Sisto V, chiese e monumenti scrigno di bellezza e opere d’arte, la modernizzazione di Mussolini e dei suoi grandi architetti. Poi i quartieri del dopoguerra, il villaggio olimpico, la città della musica (sotto ad un ponte), il Maxi, la Nuvola (incomprensibile), la nuova fiera di Roma (grande e vuota), qualche tratto di metropolitana, qualche tangenziale, il Gra, molte periferie sgangherate, campi rom, etc.
E tante parole, parole, parole…
Il risultato: come negli anni ’80 il traffico scoppia e inquina, le automobili bisognerebbe portarsele sotto al braccio perché è impossibile trovare parcheggio, i collettori del gas scoppiano, le palazzine crollano, l’acqua è piena di virus, le discariche ormai sono di quartiere se non di strada, la città si allaga ad ogni pioggia e anche il “ponentino” ora è pieno di sabbia africana…
Roma è diventata anche brutta e i turisti non la rispettano. I romani non la amano, per le risse ci sono le periferie, per lo shopping si va a Milano. Mentre nel governo, prima e dopo le elezioni europee, si riparla di “salva Roma”.
I piemontesi hanno vinto: Roma Capitale è ancora da inventare.
Il dibattito culturale si è insterilito, i punti di riferimento si sono andati smarrendo. Coloro che hanno qualcosa da dire operano in splendido isolamento, si spacciano per novità idee antiche coperte ormai dalla polvere degli anni, mentre il popolo elettore ha pensato di lavarsi la coscienza convocando un Vday per eleggere sindaco una giovane inesperto e incompetente avvocato.
Se in una città si vive male la questione che si pone è una questione morale: ecco perché la soluzione non può essere riservata agli studiosi o ai politici e tanto meno ad un sindaco qualsiasi.
E così la palla torna nelle mani dei cittadini di Roma e la loro capacità di partecipare alle elezioni e di esprimere un voto non per protesta o per menefreghismo, ma per il buon governo della città.
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